Andrea Giuliani – Un padre ardito

S:1 – Ep.3

Andrea Giuliani è una persona qualunque.

Nasce a Torino il 28 agosto 1887 da una modesta famiglia.

Frequenta le scuole elementari cristiane e il ginnasio presso i salesiani di Valdocco.

Da giovane abbraccia subito la vita religiosa entrando nell’Ordine Domenicano nel 1904 e assumendo il nome di fra Reginaldo.

Laureatosi in teologia nel 1912, dopo averne fatto anche l’insegnante, nel 1915, quando l’Italia entra ufficialmente nella grande guerra, padre Reginaldo viene assegnato al convento domenicano di Trino Vercellese, dove per due anni è un attivo predicatore antisocialista, nazionalista e interventista.

L’anno successivo, nel 1916, Giuliani è nominato tenente cappellano e assegnato al 55º Reggimento fanteria “Marche”, con cui prende parte alle battaglie dell’Isonzo.

Non è proprio il tipo di sacerdote che accorre tra le lettighe in retrovia, anzi, segue le ondate all’assalto, rincuorando e sostenendo i combattenti sotto al fuoco nemico in prima linea facendogli guadagnare, sempre quell’anno, una medaglia di bronzo al valor militare.

Già nei primi giorni al fronte, il cappellano si rifiutò di rimanere in infermeria come lo stretto dovere gli avrebbe imposto, preferendo esporsi tra lo scoppio continuo degli schrapnels e il fruscio delle loro palle, per portare conforto ai combattenti.

Lo schrapnels è un micidiale proiettile d’artiglieria che veniva usato contro i velivoli nemici e, ancor più potente, contro gli assalti al suolo.

Programmato per scoppiare a tempo, esplodeva ad una determinata altezza cospargendo a raggiera le migliaia di palle di piombo al suo interno, difficile o quasi impossibile evitarle.

La situazione era resa drammatica, per padre Reginaldo, che doveva coprire sul Carso pericolose camminate, chilometri di trincee insicure e i nemici a distanza ravvicinata, ovviamente disarmato come il suo religioso ruolo gli imponeva.

Lui stesso scrisse: “visto nei giorni trascorsi sul Carso, ove prendemmo parte all’ultima grande azione. Io sono rimasto per otto giorni in prima linea ed anche oltre, mentre i miei battaglioni si avvicendarono a dare il loro inefficace, ma pure enorme, tributo: vi lasciammo più di due terzi dei nostri uomini. Mi hanno assicurato i più provetti della guerra, che il bombardamento cui soggiacemmo non fu mai sentito così intenso e frequente“.

Nella prima metà dell’anno successivo, nel 1917, la guerra ha una sorta di stallo tra le unità di fanteria italiane e quelle austroungariche, c’è bisogno di una scossa, un riassetto, c’è bisogno di reparti speciali che andranno in quelle missioni che gli altri hanno paura di fare.

Nascono gli “arditi”, un corpo eletto dell’esercito italiano ad adesione volontaria e padre Reginaldo non se lo fa ripetere due volte diventandone il cappellano nella 3° armata.

Operativamente, gli Arditi agivano in piccole unità d’assalto, i cui membri erano dotati di petardi “Thévenot”, granate e pugnali, ed erano distribuiti in “coppie tattiche” di soldati per favorirne la flessibilità di manovra.

Le trincee venivano tenute occupate fino all’arrivo della fanteria.

Il tasso di perdite era estremamente elevato.

Gli arditi erano anche preceduti dalla loro fama, la prima sperimentazione di questi reparti d’assalto avevano una storia fatta di furti, rapimenti e violenze, famosa era l’arte di dare alle fiamme i paesi in cui facevano incursione per evitare di venire inseguiti dai nemici.

Questa fama non piaceva a Padre Reginaldo che, vivendoci assieme, scopre giovani cristiani credenti, fisicamente dotati, pronti a combattere per la propria patria pur sapendo che ogni battaglia iniziata era, probabilmente per la maggior parte di loro, l’ultima vissuta.

Nel maggio del 1917 padre Reginaldo, trovandosi sul Tonale e avendo saputo che il nemico nottetempo aveva apportato un colpo di mano su un italico posto avanzato a quota 2013, primo fra tutto il personale del comando, raggiunse la trincea isolata da solo mentre altri avevano dovuto indietreggiare.

Attraversò in pieno giorno i due chilometri circa di terreno perfettamente scoperto e soggetto al tiro delle mitragliatrici nemiche che intercedevano fra la linea principale e quel posto, raggiungendo quella ridotta ove organizzò il servizio di primo soccorso e lo sgombro dei feriti.

Nel settembre dello stesso anno, avuta notizia della formazione dei nuovi reparti d’assalto, porse insistente e ripetuta domanda di esservi assegnato.

Per breve tempo fu integrato al 29° Reparto in Val Lagarina.

Con questo battaglione prese parte ad una arditissima azione presso Sano di Castione, con una pattuglia di arditi che catturò un intero piccolo posto nemico che gli portò l’encomio comunicatogli dal Capitano Gambara.

Nell’ultima battaglia di Vittorio Veneto, per ben due volte, in due diversi battaglioni, prima coll’11° Corpo d’armata il 25 ottobre, presso l’isola Caserta, attraversò il Piave, ritornò poi in solitaria raggiungendo di isolotto in isolotto la sponda sotto il dominio italiano e la riattraversò col 28° Corpo d’armata il 30 ottobre.

Padre Giuliani traghettò il Piave colla prima barca che si staccava dalle trincee per approdare alla riva nemica, entrambe le volte.

In ciascuno di questi battaglioni fu proposto per la medaglia d’argento.

Quella dell’11° Reparto fu ridotta a medaglia di bronzo conferita perché “Circondato da una trentina di nemici mentre curava un loro ferito, seppe convincerli ad abbandonare le armi e ad arrendersi alle truppe italiane oramai in piena vittoria“.

Al 28° Reparto ebbe la medaglia d’argento con tale motivazione: “Giunto al reparto immediatamente dopo aver partecipato ad un’azione su di un altro tratto del fronte, prendeva parte con inesauribile lena ad un nuovo combattimento, incorando ed incitando le truppe nei più gravi momenti“.

Nelle soste della lotta, il domenicano, anziché concedersi riposo, pietosamente si dava alla ricerca dei feriti e prestava loro amorevolmente assistenza e conforto.

In una critica circostanza, essendo un ragguardevole tratto del fronte rimasto privo di ufficiali a causa delle gravi perdite, volontariamente ne assumeva il comando, disimpegnando le relative mansioni con vigorosa energia e mirabile arditezza.

Due medaglie di bronzo e una d’argento non fermano Padre Reginaldo nemmeno alla fine della prima guerra mondiale.

Sopravvenuto l’armistizio e sciolti i reparti d’assalto, il tenente cappellano Reginaldo Giuliani fu assunto dall’Ufficio propaganda della Terza Armata e continuò variamente la sua attività.

Membro dell’Ufficio di riordinamento delle tombe e salme carsiche e passato nel luglio alle dipendenze dell’Ottava Armata, Giuliani trascorse tra un impegno e l’altro l’estate del 1919, al termine della quale venne congedato dal Regio Esercito.

A quel punto prende parte all’occupazione di Fiume insieme agli squadristi cattolici delle Fiamme Bianche.

Nonostante la stima di Gabriele D’Annunzio, che lo vorrebbe con sé, Giuliani è richiamato dai superiori domenicani.

Pare che alla curia, il comportamento del religioso nell’impresa fiumana stesse sfuggendo di mano, durante la cerimonia della controversia benedizione del pugnale, le donne fiumane offrirono al Comandante un pugnale d’oro e d’argento, in segno di riconoscenza.

Il Vate aveva pronunziato seduta stante un discorso destinato a suscitare scalpore in Italia: la celebrazione in un tempio cattolico del «sacramento del ferro». «Un uomo di preghiera e di battaglia l’ha benedetto. L’ha benedetto un sacerdote armato» suonò infatti sacrilega alle orecchie di alcuni e fornì a quanti non appoggiavano l’impresa fiumana un ottimo argomento polemico.

Richiamato per questo prima a Trino Vercellese, dove tutto era partito, e poi al convento di San Domenico a Torino, dove continua la predicazione partecipando attivamente a numerose cerimonie nazional-patriottiche, Giuliani scrive libri sul conflitto mondiale appena concluso ove riporta l’onore degli arditi, abbraccia il fascismo e ne diventa il cappellano delle “camice nere” nel 1924.

Dal 1928 al 1930 Padre Reginaldo è il predicatore nel nord e sud America e, tornato in Italia, pubblica altri 3 libri, sempre centrati sul cattolicesimo e sulla patria.

A seguito della conciliazione tra Santa Sede e Italia fascista nel 1929, l’appoggio di Giuliani al regime diviene entusiastico.

La vita sedentaria del semplice predicatore a Padre Reginaldo va stretta, gli mancano le imprese sul Carso, sul Piave, a Fiume, gli mancano gli amici arditi così, all’età di 48 anni si arruola volontario nella guerra in Etiopia, partendo nell’aprile 1935 quale centurione cappellano del Primo Gruppo Battaglioni Camicie Nere .

Le sue corrispondenze private e per il quotidiano torinese «La Gazzetta del Popolo» mostrano la cieca fiducia di Giuliani nel Duce e nella guerra coloniale, unita alla volontà di martirio in nome della religione e della patria.

A fine gennaio 1936, infuria l’aspra battaglia del Tembien.

A Mai Beles Padre Reginaldo continua nel pietoso ufficio di confortare e assistere i feriti e i moribondi.

Dopo tre giorni di combattimenti, completamente prive di rifornimenti e, soprattutto, di acqua, le forze italiane riuscirono a respingere le forze etiopiche, soverchianti come numero.

La battaglia di Passo Uarieu fu il tentativo più deciso dell’Etiopia di separare le due armate italiane operanti nel Tembién.

Mentre si avvicina a un giovane soldato italiano, gravemente ferito e morente per amministragli gli ultimi Sacramenti, già ferito a sua volta da armi da fuoco, il 21 gennaio 1936 Padre Reginaldo Giuliani viene trucidato dalla scimitarra di un abissino pur mostrando lui la sua condizione di uomo ferito, di uomo disarmato e issando il crocefisso che lo identificava come uomo di chiesa.

Cadde stringendo lo stesso Crocifisso stretto tra le mani, dopo aver detto: “Io non lascio i miei, muoio qui in mezzo a loro”.

Quest’ultimo gesto eroico gli varrà una medaglia d’oro al valor militare.

Sconfitte le truppe etiopi nella prima battaglia del Tembien, i suoi resti furono inumati al cimitero militare di Passo Uarieu.

Ma questa, è un’altra storia.

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