S.1 – Ep.12
Gino Lucetti è una persona qualunque.
Nato a Carrara il 31 agosto 1900 da famiglia contadina benestante, da ragazzo lavorava nelle terre di Avenza, di proprietà della madre Adele Crudeli, e militava nell’organizzazione giovanile del Partito Repubblicano, in aperto contrasto con il padre Filippo, fervente anarchico carrarese.
Nel 1918, durante la prima guerra mondiale, fu chiamato alle armi e prestò servizio militare nei Reparti d’assalto, senza però partecipare ad alcun fatto d’arme, vista la quasi immediata fine delle ostilità.
Dopo la guerra, come accadde ad una parte degli Arditi d’Italia che poi furono il nucleo fondatore degli Arditi del Popolo, maturò una coscienza politica che lo portò ad opporsi al fascismo, aggregandosi agli anarchici individualisti.
Protagonista di vari scontri e risse di natura politica durante il Biennio rosso, continuò la sua opposizione ai fascisti locali anche negli anni successivi e, il 26 settembre 1925, al culmine di un diverbio estrasse una pistola e ferì il militante fascista e concittadino Alessandro Perfetti.
Il compagno di quest’ultimo, Antonio Vatteroni, sparò a sua volta, ferendo Lucetti al collo e all’orecchio mentre fuggiva.
Nonostante la ferita, riuscì a dileguarsi e imbarcarsi clandestinamente su un mercantile, riparando a Marsiglia.
L’11 settembre 1926, giorno fissato per la celebrazione del suo processo per l’aggressione ai fascisti in cui era l’imputato, Lucetti si appostò sul piazzale di Porta Pia a Roma e lanciò una bomba contro la Lancia Lambda Coupé de ville che trasportava Mussolini nel consueto tragitto da casa a Palazzo Chigi.
La bomba rimbalzò sul bordo superiore del finestrino posteriore destro dell’automobile e, qualche secondo dopo, esplose a terra ferendo otto passanti e lasciando illeso l’obiettivo.
Lucetti fu immediatamente immobilizzato da un passante e poi raggiunto dalla polizia.
Dalla perquisizione subito effettuata, Lucetti fu trovato armato anche di una pistola di piccolo calibro e di falsi documenti che lo identificavano come Ermete Giovannini, ma la sua vera identità uscì quasi immediatamente.
Nel corso delle indagini la polizia cercò invano le prove di un complotto, erano passati solamente altri 5 mesi dall’attentato della Gibson e appena 10 da quello del deputato Zaniboni, decisero quindi di arrestare la madre, il fratello e la sorella di Lucetti, vecchi amici carraresi e anche chi aveva alloggiato con lui in albergo.
Lucetti dopo l’arresto in commissariato dichiarò: “Non sono venuto con un mazzo di fiori per Mussolini. Ma ero intenzionato di servirmi anche della rivoltella qualora non avessi ottenuto il mio scopo con la bomba“, aggiunse anche che il piano lo aveva interamente elaborato da solo.
Questo terzo attentato cadenzato ogni 5 mesi e ravvicinato agli altri portò a dei cambiamenti nei vertici della polizia, subito il giorno seguente infatti, furono “dimissionati” il questore di Roma Vincenzo Pericoli e il capo della Polizia Francesco Crispo Moncada, quest’ultimo sostituito da Arturo Bocchini.
Bocchini fu nominato capo della polizia su indicazione di Luigi Federzoni, che divenne poi consigliere di Stato l’anno successivo.
Il compito che gli affidò Mussolini fu di ristabilire l’ordine in Italia e nel fare ciò gli accordò massima copertura politica e completa libertà d’azione, nonché il privilegio di riferire direttamente al presidente del Consiglio del proprio operato.
Bocchini era dal 1922 nella carriera prefettizia e figura chiave del regime fascista italiano, tanto da essere definito talvolta il “viceduce”.
Nonostante questo assecondò il disegno di Mussolini di dotarsi di una polizia autonoma dal Partito Nazionale Fascista.
Già l’anno prima era stato vietato a funzionari ed agenti l’iscrizione al partito.
Dopo il rimescolamento di carte, le indagini continuarono e si arrivò presto a capire che un rimpatriato clandestino antifascista che tornava in Italia per attentare alla vita del duce con una bomba e una pistola non poteva avere fatto tutto da solo e, quanto meno, da qualche parte aveva vissuto nei giorni precedenti.
La reazione delle autorità fasciste fu immediata, centinaia furono gli anarchici perquisiti e arrestati e tra questi emersero in particolare due nomi: Leandro Sorio e Stefano Vatteroni.
Leandro Sorio era già conosciuto da tempo, nato a Brescia il 30 marzo 1899, di professione cameriere, non pareva avere ideologie politiche palesemente dichiarate ma poi si trasferì a Roma nel 1920 e questo favorì un suo avvicinamento ai gruppi libertari.
Sorio fu accusato di avere ospitato Lucetti nella propria stanza dell’albergo Trento e Trieste dove lavorava.
Stefano Vatteroni, nato ad Avenza il 21 febbraio 1897, faceva lo stagnino.
Anarchico fin dall’adolescenza, prese parte attivissima alle lotte contro lo squadrismo apuano, prima di trasferirsi a Roma, dopo l’ascesa al potere di Mussolini, per evitare le rappresaglie dei fascisti locali.
Vatteroni si protestò estraneo ai fatti che gli furono contestati, ma non venne creduto dagli inquirenti perché fornì, secondo le autorità, “risposte contraddittorie” e perché aveva “compiuto un viaggio a Carrara nell’agosto del 1926, tre settimane prima dell’attentato, per donare tutti i suoi beni alla madre”.
Oltretutto Vatteroni è concittadino proprio di Gino Lucetti, l’attentatore.
Lucetti fu processato nel giugno 1927 davanti al Tribunale speciale e condannato a 30 anni di carcere.
Con lui furono condannati come complici, a pene di circa vent’anni, anche Leandro Sorio e Stefano Vatteroni.
«Sentenza n. 20 dell’11-6-1927 Pres. Sanna – Rel. Buccafurri. L’11 settembre 1926 l’anarchico Gino Lucetti attenta alla vita di Mussolini a Porta Pia in Roma. Due altri anarchici, a carico dei quali si può provare soltanto che sono amici del Lucetti, vengono ugualmente condannati a gravi pene. (Attentato a Mussolini, ferimento, tentativo di provocare pubblico tumulto). Lucetti Gino, Avenza (Ms), nato 31-8-1900, marmista, 30 anni; Vatteroni Stefano, Avenza (Ms), nato 21-2-1897, stagnino, 18 anni 9 mesi; Sorio Leandro, Brescia, nato 30-3-1899, cameriere, 20 anni»
Sull’organizzazione dell’attentato non è mai stata fatta piena luce.
Una parte della storiografia ha avanzato l’ipotesi che il gesto di Lucetti fosse stato accuratamente preparato e l’organizzazione avesse coinvolto numerose persone di varie città italiane.
Comunque sia, successivamente alle condanne, un altro nome emerse ed era quello di Vincenzo Baldazzi, uno dei massimi esponenti degli Arditi del Popolo, gruppo di cui faceva parte anche Lucetti.
Dopo l’attentato a Mussolini da parte sua, Baldazzi venne condannato a cinque anni di carcere, l’accusa fu di aver fornito la pistola a Lucetti, nelle cui intenzioni era forse finire il “duce” dopo aver fatto saltar l’auto blindata a colpi di bomba a mano, ed altri cinque anni li ebbe per aver fornito aiuto finanziario proprio alla moglie di Gino Lucetti dopo la sua condanna.
Sorio, Vatteroni e Baldazzi verranno poi inviati al confino.
Nel 1937 Leandro Sorio venne amnistiato, ma riarrestato una settimana dopo l’uscita dal carcere.
Sorio in prigione irrobustì e irrigidì la propria fede politica.
Le autorità sottolinearono la pericolosità dell’individuo e ne consigliarono l’invio al confino, provvedimento attuato nel settembre 1937, nelle isole di Ponza e Tremiti, dove Sorio frequentò poi principalmente elementi anarchici.
Stefano Vatteroni venne scarcerato nel febbraio 1937, grazie a varie amnistie e condoni, dopo aver scontato undici anni di reclusione e venne assegnato dalla Commissione provinciale di Roma il 5 aprile dello stesso anno al confino per cinque anni e deportato alle Tremiti, dove “mantiene pessima condotta politica” e venne, anche lui, nuovamente arrestato.
Condannato a un anno di carcere, lo scontò a Lucera e poi venne rimandato alle Tremiti.
Vincenzo Baldazzi nel ’36 venne preventivamente incarcerato e separato dal gruppo di Giustizia e Libertà.
Passò gli anni dal 1937 al 1943 fra Ponza, Ventotene e le isole Tremiti (al confino insieme a Sorio e Vatteroni).
Nel 1943 Lucetti fu liberato dagli Alleati da poco giunti a Napoli.
Lucetti prese quindi alloggio sull’isola d’Ischia, ma il 17 settembre 1943, durante un bombardamento effettuato da bombardieri tedeschi, cercò rifugio su di un motoveliero.
Il natante fu colpito e affondato trascinando Lucetti con sé.
Nonostante in soli 10 mesi il presidente del consiglio avesse già ricevuto 3 attentati alla sua vita, tutti per lui fortunosamente scampati, i tre eventi continuavano a sembrare NON correlati.
Anche l’unico filo che pareva unirli, quello della massoneria, pareva spezzato, di certo uno stagnino, un cameriere ed un marmista scappato di casa non potevano essere massoni, nemmeno di livello molto basso, tanto meno lo poteva essere Baldazzi, un ex ardito antifascista.
Forse, erano veramente tre fatti separati, forse, perché nei dubbi che rimanevano sull’ultimo attentato c’era quello che il gesto di Lucetti fosse stato accuratamente preparato e l’organizzazione avesse coinvolto numerose persone di varie città italiane e forse, tra quelle persone, c’erano anche dei massoni, forse proprio al vertice della piramide organizzativa.
Ma tutti quei “forse” non avevano dei nomi e non potevano essere arrestati ed interrogati dal neo capo della polizia Arturo Bocchini, il “viceduce” dovette accontentarsi di ciò che aveva scoperto.
Venuto a conoscenza che Lucetti era giunto appositamente dalla Francia, Mussolini, appena giunto a Palazzo Chigi, rivolse alla folla accorsa un infiammato discorso in cui accusò il governo della Francia di tollerare sul proprio suolo numerosi antifascisti.
Il Governo italiano, tramite l’ambasciatore Camillo Romano Avezzana, richiese alla Francia l’estradizione dei fuoriusciti italiani.
Il Governo francese negò tale possibilità invocando il rispetto delle leggi dell’ospitalità; ciò nonostante dichiarò che non avrebbe tollerato altri abusi da parte dei cittadini italiani là rifugiati.
Ma questa, è un’altra storia.
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