S:1 – Ep.10
Nei prossimi 5 episodi ci sarà uno speciale sugli attentati al Presidente del Consiglio del 1925/1926, tale Benito Mussolini.
Tra il 4 novembre 1925 e il 31 ottobre 1926, il Duce subì 4 attentati alla sua vita, tutti falliti, tutti mal organizzati e tutti avvolti dal mistero, almeno per noi.
Dopodiché non vi furono più tentativi.
Ma andiamo per ordine, buona ascolto e, se lo state anche guardando, buona visione.
Tito Zaniboni è una persona qualunque.
Zaniboni Nasce a Monzambano il 1º febbraio 1883 e dopo un breve periodo di emigrazione a Boston, negli Stati Uniti d’America, fra il 1906 e il 1908, compì il servizio di leva nell’8º Reggimento alpini, diventando sottotenente di complemento.
Veterano della prima guerra mondiale durante la quale combatté raggiungendo il grado di tenente colonnello, fu decorato di tre medaglie d’argento e una medaglia di bronzo al valor militare.
Aderì al Partito Socialista Italiano, nel quale militò nella corrente riformista, e fu eletto nel 1914 nelle sue liste come consigliere provinciale di Volta Mantovana.
Era un personaggio contraddittorio, fu segretario della Federazione delle Cooperative mantovane dal 1913 al 1915 e, come collaboratore del periodico Nuova Terra, scrisse numerosi articoli contro l’intervento militare, per poi passare su posizioni più interventiste.
La rapida carriera politica lo portò alle elezioni del 1921 dove fu eletto deputato con il Partito Socialista Italiano.
Zaniboni fu poi uno dei protagonisti del patto di pacificazione tra socialisti e fascisti dell’agosto dello stesso anno mentre, nell’ottobre dell’anno successivo, aderì al Partito Socialista Unitario di Matteotti venendo rieletto alle successive elezioni del ‘24.
Ma proprio il rapimento di Matteotti lo impressionò moltissimo, fu in prima linea nelle ricerche dello scomparso; l’evento lo sconvolse a tal punto che una notte scoperchiò 13 tombe nel cimitero del Verano, nella vana ricerca del cadavere del Matteotti.
Il ritrovamento del corpo del deputato socialista, il 16 agosto 1924, lo portò su posizioni nettamente antifasciste.
Ma Zaniboni divenne noto soprattutto per aver organizzato il primo tentativo di attentato contro Benito Mussolini, il 4 novembre 1925, l’anno dopo essere stato rieletto e lo stesso anno del ritrovamento di Matteotti.
Egli avrebbe dovuto far fuoco con un fucile di precisione austriaco da una finestra dell’albergo Dragoni, fronteggiante il balcone di Palazzo Chigi, da cui il duce si sarebbe dovuto affacciare per celebrare l’anniversario della vittoria.
Zaniboni però non sapeva che del suo gruppo, quello presumibilmente creato per organizzare l’attentato, faceva parte anche un informatore della polizia (tale Carlo Quaglia), e che quindi tutte le sue mosse erano state fino a quel momento sorvegliate dal questore Giuseppe Dosi.
L’operazione di polizia scattò quando Zaniboni, giunto in albergo, si apprestò a salire nella sua camera.
In un armadio fu trovato il fucile, e nei pressi di piazza San Claudio fu trovata parcheggiata una Lancia Dilambda, che Zaniboni aveva acquistato pochi giorni prima e che gli sarebbe servita, secondo gli inquirenti, per la fuga.
Zaniboni fu quindi arrestato tre ore prima dell’attentato, assieme a lui venne arrestato anche un ex generale dell’esercito italiano: Luigi Capello.
Nei giorni seguenti fu sciolto il Partito Socialista Unitario e chiuso il quotidiano La Giustizia, che ne era l’organo ufficiale.
Luigi Attilio Capello era nato ad Intra il 14 aprile 1859 ed era un generale italiano.
Durante la prima guerra si distinse guidando le sue truppe in una serie di costose offensive sul fronte dell’Isonzo che si conclusero con limitati successi tattici soprattutto a Gorizia e sulla Bainsizza.
Assegnato al comando della 2° Armata, venne sorpreso nelle fasi iniziali della battaglia di Caporetto e non riuscì a fermare l’avanzata del nemico prima di essere costretto a cedere il comando per seri motivi di salute.
Considerato uno dei responsabili, se non “IL” responsabile stesso della disfatta di Caporetto, non ritornò più in servizio.
Dopo la fine della Guerra si accostò in un primo tempo al Fascismo e partecipò alla Marcia su Roma, per poi divenirne fermo oppositore.
Mentre i comandanti italiani come Diaz e Badoglio furono fatti oggetto di onori da parte del regime, Capello fu emarginato, soprattutto a causa della propria appartenenza alla Massoneria, Massoneria a cui era iscritto, in un altro gruppo, anche il deputato Tito Zaniboni.
Il fascismo non approvava la massoneria, o meglio, non approvava nessuna organizzazione di qualsiasi tipo al di fuori del fascismo stesso, soprattutto se questa fosse stata potente e ramificata e contenente persone importanti come, per l’appunto, la massoneria.
Capello fu arrestato a Torino con l’accusa di aver preso parte all’organizzazione del fallito attentato contro Mussolini organizzato da Zaniboni.
Capello respinse tutte le accuse e dichiarò di aver avuto solo un incontro, il 2 novembre, con Carlo Quaglia, l’informatore della polizia, inviato da Zaniboni per potergli consegnare un prestito di 300 lire che serviva per finanziare una manifestazione di reduci antifascisti, ma di essere all’oscuro delle reali intenzioni del deputato socialista.
Secondo le informative della polizia però, la somma, giunta da Praga e consegnatagli da Quaglia, era stata elargita da un importante massone, il che fece prendere corpo all’idea che nella vicenda vi fosse uno “sfondo massonico”, mentre secondo il funzionario di polizia Guido Leto la responsabilità della massoneria italiana, pur data per scontata fin da subito in ambito politico, era stata poi ridimensionata in ambito giudiziario.
Ciononostante, essa giustificò per il regime fascista il varo delle leggi miranti alla soppressione della massoneria in Italia, varate già nello stesso anno.
Ma le responsabilità di Capello emersero ugualmente, e Zaniboni cercò inutilmente di scagionarlo dal fallito attentato; ammettendone però il coinvolgimento, disse: “Avevo notato la sua avversione alla mia azione e l’intenzione di staccarsi da me“.
Dal canto suo, Capello si giustificò sostenendo che la propria avversione al Regime non si spingeva comunque fino a voler compiere un attentato.
Il processo a Zaniboni incominciò l’11 aprile 1927, dopo la promulgazione delle leggi fascistissime.
In un primo tempo, durante l’istruttoria, Zaniboni respinse le accuse dichiarando di non aver avuto intenzione di uccidere nessuno, o tutt’al più Roberto Farinacci, il ras delle camicie nere di Cremona, ma non Mussolini. Infine, a sorpresa, nel dibattimento, rivendicò le proprie responsabilità:
«Dichiaro senz’altro che il giorno 4 novembre 1925 era mia intenzione sopprimere il Capo del Governo, Benito Mussolini. Se la polizia invece di giungere all’Albergo Dragoni alle 8.30 fosse giunta alle 12.30 io avrei senza alcun dubbio compiuto il mio gesto. Il delitto aveva lo scopo di rimettere il potere nelle mani di Sua Maestà il Re.»
Non è molto chiara questa ritrattazione del deputato con l’autodichiarazione di colpevolezza, sembrò quasi un modo per attirare l’attenzione su se stesso sfoderando una matrice monarchica e distogliendo, in questo modo, la luce dei riflettori dalla massoneria.
Zaniboni fu condannato per alto tradimento a trent’anni di reclusione.
Nel corso del processo ammise anche di aver ottenuto finanziamenti a tale scopo dal capo del governo cecoslovacco Tomáš Masaryk.
Il generale Capello fu condannato anche lui a trent’anni di carcere lo stesso anno, ma venne rimesso in libertà 9 anni dopo.
Sempre secondo Guido Leto la condanna abbreviata fu dovuta alla convinzione di Mussolini che, nonostante le prove, in realtà il generale fosse estraneo all’attentato, nonché per il riconoscimento degli importanti meriti di Capello acquisiti in Guerra; inoltre Mussolini dispose la requisizione di alcuni locali della clinica del dottor Cusumano a Formia, all’interno dei quali (e dell’annesso giardino) Capello ebbe libera circolazione durante la detenzione, seppur sotto vigilanza.
Nel 1935 Zaniboni spedì diverse lettere a Mussolini, ringraziandolo per aver aiutato economicamente la figlia a terminare gli studi universitari, e prese parte dal carcere alla campagna dell’oro alla patria per finanziare la guerra d’Etiopia, promettendo anche di mettersi al servizio del regime.
Altre lettere seguirono nel ’39, in cui egli fece altre dichiarazioni in favore del fascismo.
La stessa figlia Bruna inviò diverse missive di ringraziamento a Mussolini per il trattamento ricevuto, e dopo la laurea, fece dono a Mussolini della propria tesi.
Due massoni e una spia della polizia, mai accusata dell’attentato, cercarono di sparare al Duce dal balcone dell’hotel Dragoni di fronte a dove Mussolini stesso avrebbe parlato, chi avrebbe dovuto premere il grilletto era un veterano di guerra, un ufficiale, sicuramente più avvezzo all’uso della pistola che a quella di un fucile austriaco di precisione ma poco importa, la spia aveva fatto bene il suo lavoro e l’attentato era stato sventato.
Due processi, trent’anni di reclusione ad entrambi, il deputato aiutato poi dallo stesso bersaglio nel sostenere gli studi della figlia, il generale premiato per ciò che fece durante la guerra, anche se portò alla disfatta di Caporetto, anch’esso aiutato nello scontare la pena nel migliore dei modi, certo che se io fossi stato l’oggetto dell’attentato non so se sarei riuscito ad essere così clemente e benevolo nei loro confronti ma, fortunatamente, non sono Benito Mussolini.
Il generale Capello, quando venne scarcerato, trascorse gli ultimi anni di vita in un appartamento a Roma.
Alla fine della seconda guerra mondiale e dopo la caduta del fascismo, con il decreto del 26 dicembre 1947, al generale Capello furono restituite tutte le decorazioni militari di cui era insignito.
Il deputato Zaniboni venne scarcerato l’8 settembre 1943, fu chiamato da Badoglio a far parte del governo, ma rifiutò.
Verso la metà del febbraio del 1944 Badoglio gli affidò l’incarico di alto commissario “per l’epurazione nazionale dal fascismo”.
Erano anni difficili quelli, il ventennio fascista, imposto grazie alle camicie nere e alla loro pesante mano vivevano conflitti con il loro leader, Mussolini nei suoi discorsi stava condannando le violenze dei suoi camerata e optava per una linea più morbida, stava lavorando per creare il vaticano, voleva aggraziarsi i voti dei cattolici e ci stava riuscendo ma non poteva continuare con la linea dura iniziale.
Ma i suoi camerata la pensavano come lui?
Non tutti certamente, abituati ad imporsi con la violenza, molti, la violenza erano l’unica lingua che conoscevano per avere potere ed un Duce che non condivide più questa linea può diventare scomodo…
Ma questa, è un’altra storia.
Ti è piaciuto questo episodio?
Rimani aggiornato iscrivendoti al nostro canale Youtube e visitando il nostro podcast.
https://www.youtube.com/channel/UCC0QHYOZms3FjO2kwSFXKZA
Podcast – Una persona qualunque, puoi vederlo o anche semplicemente ascoltarlo.