Walt Disney – Fantasia e realtà

S:1 – Ep.18

Walt Disney è una persona qualunque.

Parlare di Walt Disney nel contesto del pre e post periodo della grande guerra non è facile tenendo conto dell’importanza, anche questa volta, del peso del nome di questa persona qualunque ma come abbiamo fatto con Houdinì e Hemingway, ci proveremo comunque.

Walt Disney, vero nome Walter Elias Disney Jr nasce a Chicago il 5 dicembre 1901 da Flora Call ed Elias Disney; quarto di cinque figli, il padre era di discendenza inglese e precedentemente francese, la madre di discendenza tedesca.

Nel 1918, mentre in Europa imperversava la prima guerra mondiale, lasciò la scuola e si impegnò come autista volontario di ambulanze dopo aver modificato, con l’aiuto di un amico, la data di nascita indicata sul passaporto in modo da poter essere reclutato.

Fece parte della divisione delle ambulanze della Croce Rossa statunitense in Francia fino al 1919.

Questo, molto semplicemente, fu l’impegno di Walt Disney durante la grande guerra, niente di eclatante o eroico sia ben chiaro, ma comunque lui volle andare, perfino falsificando il suo documento, lui ci andò.

Tralasceremo quella sua parte stupenda di vita in cui diventa un famoso vignettista e autore di cortometraggi, in cui fonda società che rivoluzionarono poi il mondo del cinema, in cui ancora detiene il record di Premi Oscar vinti avendone ricevuti, in 34 anni di carriera per i suoi cortometraggi e documentari, 26 statuette su 59 candidature totali di cui tre onorari e un Premio alla memoria Irving G. Thalberg e, nel 1956, un David di Donatello per il miglior produttore straniero per Lilli e il vagabondo.

Gli Oscar onorari gli furono assegnati, nel primo caso, per la creazione di Topolino; e nel secondo, per Biancaneve e i sette nani, «riconosciuto come un’innovazione cinematografica significativa che ha incantato milioni di persone ed è stato pioniere di una nuova area d’intrattenimento nel campo del cartone animato»; e, infine, «per lo sbalorditivo contributo all’avanzamento dell’uso del sonoro nel cartone animato, grazie alla produzione di Fantasia».

Fu candidato per tre volte ai Golden Globes, ma ne ricevette solo due onorari, per Bambi (1942) e Deserto che vive (1953), oltre al Cecil B. DeMille Award nello stesso anno.

Otto pellicole da lui prodotte sono state inserite nella Biblioteca del Congresso venendo ritenute «culturalmente, storicamente ed esteticamente significative»: Steamboat Willie (1928), I tre porcellini (1933), Biancaneve e i sette nani (1937), Fantasia, Pinocchio (1940), Dumbo (1941), Bambi (1942) e Mary Poppins (1964), l’unico dopo la fine della seconda guerra mondiale.

Per cosa ne parleremo allora?

Sappiamo tutti che, dopo la prima guerra mondiale, ci fu il nazionalsocialismo hitleriano in Germania e l’italico fascismo mussoliniano che ci portò al secondo conflitto mondiale.

Le voci secondo cui Walt Disney fosse un antisemita sessista razzista simpatizzante nazista abbondano, ed è ormai un’idea radicata nella testa di molti che queste non siano solo voci, ma in realtà: da dove nascono?

La più famosa accusa, quella della sua simpatia per la filosofia Hitleriana, è forse quella relativa all’incontro con Leni Riefenstahl.

La Riefenstahl aveva realizzato nel 1934 Il Trionfo della Volontà, forse il più famoso – e da quel punto di vista, riuscito – film di propaganda nazista in assoluto, la sua amicizia con Adolf Hitler era così acclarata da farle guadagnare nel tempo il triste appellativo di “regista del Reich”, poi girò Olympia che è il film-documentario sulle Olimpiadi di Berlino del 1936, passate alla Storia per essere le Olimpiadi dove Hitler mostrò al mondo intero la potenza del Terzo Reich e dove l’esaltazione del nazismo era presente in ogni singolo momento delle competizioni.

Da allora le riprese di un evento sportivo si conformarono alla sua regia, che praticamente inventò la cerimonia dell’accensione della torcia olimpica e diede il via a innovazioni tecniche sia dal punto di vista delle riprese che del montaggio, pensate che il carrello per la macchina da presa posto all’interno degli stadi per riprendere gli atleti, soluzione usata ancora oggi, è nato lì.

Disney la incontrò poco dopo la famigerata Kristallnacht, la Notte dei Cristalli che vide la Gestapo e le SS rendersi protagoniste di una notte di devastazione e deportazione ai danni delle persone di religione ebraica in Germania, Cecoslovacchia e Austria.

Ma bisogna tenere conto che erano entrambi grossi imprenditori dello spettacolo e, con le dovute distinzioni, entrambi lavoravano come cineasti alla costruzione della propaganda per il proprio paese, oltretutto, nella Germania di Hitler i film americani erano banditi, in quanto secondo il Führer “Hollywood era controllata dagli ebrei”.

L’anno prima, nel 1937, Walt Disney e il fratello Roy si erano recati in Germania durante un tour europeo volto a promuovere Biancaneve e i sette nani e a quanto pare cercarono di fare pressioni affinché il divieto venisse tolto, o almeno ammorbidito, ma senza successo.

Girano molti frame accusatori che vedono i personaggi Disney in uniforme nazista, cortometraggi con svastiche, bambini dal tratto inconfondibilmente disneyano ritratti a braccio teso e altre nefandezze simili ma in questo caso basterebbe informarsi un minimo per scoprire che quelle immagini fanno tutte parte di una serie di film propagandistici contro il nazismo realizzati dal Walt Disney Studio.

Education for Death: The Making of the Nazi (1943) è uno dei 32 cortometraggi commissionati dal governo americano alla Disney tra il 41 e il 45, con lo scopo di sensibilizzare il popolo statunitense contro le posizioni assolutiste del Reich nazista.

Altre immagini note sono quelle di Paperino che legge il Mein Kampf, il famoso libro-manifesto di Adolf Hitler, ma anche in questo caso si tratta di tutto l’opposto, infatti il film si intitola Der Fuehrer’s Face e si fa bellamente beffa del dittatore tedesco, in una storia che vede il papero fare un incubo nel quale si trova a lavorare per la Germania nazista, salvo poi svegliarsi e abbracciare la Statua della Libertà.

Il corto, di 8 minuti, si conclude con un primissimo piano di Hitler che si prende un pomodoro in faccia, ai Premi Oscar del 1943 vinse la statuetta per il Miglior Cortometraggio di Animazione.

Difficile anche in questo caso pensare che i premi conferiti dall’Academy of Motion Picture Arts and Sciences (AMPAS), un’organizzazione professionale onoraria costituita da personalità (per lo più statunitensi) che hanno portato avanti la loro carriera nel mondo del cinema quali attori, registi, produttori e altre professioni cinematografiche, e quindi, in quel periodo storico in guerra CONTRO l’invasione nazista, avrebbero premiato un filmato che la sostenesse.

E l’antisemitismo? Esiste una famosa scena ne I Tre Porcellini (1933) dove il Lupo Ezechiele si traveste da venditore ambulante ebreo, conciato con tutti gli stereotipi razzisti del caso.

La scena fu successivamente modificata, rianimando il personaggio e lasciandogli l’accento yiddish e in seguito fu ammorbidita ancora di più, attualmente le versioni in vendita mostrano un aspetto del lupo ben diverso da quello iniziale.

Su questo c’è ben poco da dire: la presa in giro razziale è evidente, ma è altrettanto evidente che all’epoca tutti gli studios statunitensi, non solo di animazione, calcavano la mano sugli stereotipi razzisti, facendosi beffe di ebrei, neri e italiani e Disney, in questo, non era differente.

Ma parliamo dello stesso Walt Disney che a libro paga aveva parecchi lavoratori ebrei che non hanno mai, nemmeno se pungolati in interviste atte a dimostrare il contrario, avuto niente da ridire sul proprio datore di lavoro, descritto come persona gentile e disponibile nei confronti di chiunque.

Parliamo dello stesso Walt Disney che nel 1955 venne insignito del premio “Uomo dell’Anno” dall’Organizzazione B’nai B’rith, la più antica e potente associazione ebraica che si occupa di diritti civili, arduo credere che si siano sbagliati premiando un antisemita.

Sulle accuse di razzismo ci sono anche sotto la lente di ingrandimento i corvacci neri di Dumbo, altro stereotipo razziale: era il 1940 e nel 1946, una massiccia campagna di Disney nei confronti dell’Academy, fece sì che a James Baskett, protagonista nero de I racconti dello Zio Tom, venisse assegnato un Oscar onorario, si tratta del primo Premio Oscar onorario assegnato in assoluto a un attore afroamericano e fu merito di Disney.

Abbiamo la prova di una lettera inviata dalla Walt Disney Productions nel 1938 a Mary V. Ford, una ragazza che aveva mandato il curriculum all’azienda.

Le viene risposto che in Disney alle donne non era concesso di lavorare nel processo artistico perché quello era un compito affidato ai “giovani uomini”, e che quindi qualunque domanda da parte di una donna per entrare nella scuola Disney non veniva presa in considerazione.

Le donne si occupavano di inchiostrare e dipingere i fotogrammi creati e disegnati dagli uomini, Sessismo?

Puro ed evidente ma negli Stati Uniti com’era la situazione del lavoro femminile fino al 1938?

Identica.

Prima della Seconda Guerra Mondiale il lavoro femminile veniva scoraggiato, in quanto ritenuto degradante per la figura della donna che doveva essere mantenuta dall’uomo.

Le donne lavoratrici appartenevano per lo più alle classi meno agiate e le poche del ceto medio che lavoravano lo facevano negli ambiti valutati “per le donne”: erano insegnanti, sarte, modiste.

Gli uomini inoltre erano preoccupati da due cose: pensavano che l’ingresso delle donne nel mondo del lavoro avrebbe aumentato la concorrenza e di conseguenza diminuito i loro salari, e pensavano che se le donne avessero iniziato a lavorare avrebbero dedicato meno tempo e attenzione alle cose per le quali invece erano destinate: la cura della casa e la crescita dei figli.

E, onestamente, in quegli anni questa filosofia non era solo rinchiusa nei confini degli Stati Uniti ma diffusa anche in tutta Europa, pensate solo cosa aveva scritto Hitler sul suo Mein Kampf o cosa diffondeva Mussolini nei suoi discorsi per rendersene conto di persona.

Inutile dire che la Seconda Guerra Mondiale rivoluzionò tutto quanto, per forza di cose.

Ma questa, è un’altra storia.

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