Carl, Fritz e Karl – I macellai tedeschi

S:1 – Ep.26

Carl Großmann, Fritz Haarmann e Karl Denke sono tre persone qualunque.

Finiamo questo speciale sui serial killer della prima guerra mondiale, dopo essere stati con Landru in Francia, con Kiss in Ungheria e con Komarov in Russia con un tris inquietante accomunati dalla stessa nazione, i macellai tedeschi.

Carl Friedrich Wilhelm Großmann nacque a Neuruppin, una zona vicina a Berlino, il 13 dicembre del 1863; della sua infanzia non si sa molto.

Presumibilmente nacque in una famiglia poco abbiente, considerando che suo padre era un umile straccivendolo.

Già da piccolo per motivi sconosciuti sviluppò una spiccata tendenza al sadismo e alla perversione sessuale che lo portarono più volte a molestare e violentare i coetanei.

Dell’infanzia di Fritz Haarmann e Karl Denke si sa ancora meno di quella di Großmann, Haarmann nacque ad Hannover il 25 ottobre 1879 e Denke a Münsterberg l’11 febbraio 1860, ma di tutti e tre ancora oggi conosciamo bene come venivano chiamati per ciò che hanno fatto: Großmann era “il macellaio di Berlino”, Haarmann “il macellaio di Hannover” e Denke “il macellaio di Münsterberg”.

Großmann, Haarmann e Denke erano tre serial killer, erano tutti e tre tedeschi e tutti e tre con manie tragicamente simili e spaventosamente cruenti che gli fecero guadagnare pienamente il modo in cui erano stati etichettati.

Großmann, tra il 1879 e il 1895 visse come mendicante a Berlino e nel 1899 fu arrestato per crimini sessuali.

La sua prima vittima fu una bambina di 4 anni.

Dopo essere uscito dal carcere nel 1913 si trasferì in un piccolo appartamento nel povero e malfamato quartiere di Friedrichshain a Berlino, dove visse quasi tutta la sua vita.

Per tutti e tre, l’apice della loro attività fu durante il difficile clima della prima guerra mondiale in cui, ovviamente, la Germania era implicata in prima linea.

La guerra, qualunque essa sia, porta con sé un numero impressionante di problemi a tutte le nazioni coinvolte e in tutte, uno di questi problemi, è reperire beni di primissima necessità, come il cibo per sé e le proprie famiglie.

Le tasse imposte e gli espropri per nutrire i soldati al fronte lasciavano solamente le briciole ai cittadini comuni, briciole oltretutto molto care da acquistare e questo portò alla diffusione dell’illegalità, come, per esempio, il mercato nero del cibo.

Carl Großmann, a Berlino, aveva un modus operandi spinto dall’anima del predatore sessuale e dal proprio dissesto economico.

Dopo alcune bevute abbordava nei locali di infimo rango o alla stazione o in una piazza chiamata “Andreasplatz” delle prostitute; poi le portava nel suo appartamento e, dopo averci fatto sesso, le uccideva a colpi di ascia, le decapitava e infine le macellava.

I pezzi che gli sarebbero serviti più avanti li selezionava e conservava; il resto, composto in prevalenza da ossa, lo buttava in un canale, i “pezzi utili” venivano infine cucinati e usati per riempire dei panini che il giorno successivo avrebbe venduto vicino alla stazione.

I clienti li comperavano e li mangiavano: così facendo occultavano le prove; essendo inconsapevoli apprezzavano il sapore della carne e spesso chiedevano a Großmann dove l’avesse comprata, ma lui evitò di iniziare a fare discorsi pericolosi, solo alcune volte mentì, dicendo che la carne proveniva da alcuni fornitori.

Esaurita la carne e volenteroso di fare violenza, Großmann ricominciava.

Non tutta la carne che accumulava la dava ai clienti, ogni tanto la vendeva al mercato nero.

Inizialmente le sue vittime erano prostitute, poi passò ad adolescenti e ai bambini; infine arrivò ai cani e ai gatti.

Le prostitute, a differenza dei bambini, attiravano meno l’attenzione dell’opinione pubblica e della polizia, specialmente durante il periodo storico della Grande Guerra.

Gli omicidii iniziarono nel 1913 circa e finirono nell’agosto del 1921, 8 anni continui di omicidi.

Durante tutto questo periodo i vicini di Großmann, sebbene fossero spaventati da una presenza così tetra, introversa e misteriosa come la sua non sospettarono molto di lui, furono allertati solo quando videro che molte delle prostitute che entravano nel suo appartamento non ne uscivano più.

Fritz Haarmann aveva altri gusti, ma tranne questo futile particolare era uno stretto collega di Großmann.

Dal 1918 al 1924, per 6 anni, Haarmann commise almeno 24 assassinii, e forse oltre 27.

Le sue vittime erano “ragazzi di strada” che vagabondavano attorno alle stazioni ferroviarie: Haarmann li portava nel proprio appartamento, per poi ucciderli mordendoli alla gola in un atto di frenesia sessuale.

Durante il processo, si sparse la voce che avesse venduto la carne delle sue vittime al mercato nero spacciandola per maiale, ma non si trovarono prove concrete a suffragio di tale diceria, ma nemmeno prove che lo scagionasse veramente dall’averlo fatto.

Haarmann fu scoperto quando diversi resti ossei, che aveva scaricato nel fiume Leine, riemersero mentre Denke, il terzo macellaio, fu scoperto il 20 dicembre 1924, dopo aver ferito con un’ascia un vagabondo che aveva ospitato in casa sua, la polizia perquisì la casa trovando resti umani, carne sotto sale, pelle, grasso e denti in grossi recipienti, bretelle e lacci fatti in pelle umana e un registro contenente i dettagli di alcune decine di persone che Denke aveva assassinato e cannibalizzato nel corso degli anni.

La notizia del suo arresto scandalizzò la popolazione: Denke era conosciuto prima di allora per le sue opere di bene verso i poveri e i vagabondi del paese, a volte infatti li ospitava in casa dando loro vitto e alloggio senza pretese oppure elargiva abbondanti elemosine alla parrocchia.

Per questo veniva anche soprannominato “Padre Denke”.

La carne di alcune sue vittime era stata certamente venduta al mercato di Breslavia a basso prezzo, spacciata, anche in questo caso, per carne di maiale.

Come Haarmann e Denke, Großmann fu arrestato quando rapì un bambino che si trovava solo e lo violentò; poi lo lasciò andare ma senza prima minacciarlo di morte nel caso in cui avesse riferito il fatto a qualcuno.

Lo stesso giorno però il bambino tornò dai genitori e raccontò loro il fatto, che arrivò alle orecchie dei poliziotti.

Dal suo racconto raccolsero anche un identikit dell’aggressore e il modus operandi di quest’ultimo fu così collegato ad una serie di corpi ritrovati in un canale nello stesso periodo.

Le vittime in totale erano svariate decine, approssimativamente attorno alla trentina.

La polizia cominciò a fare interrogatori e ricerche, ma senza successo.

Il 21 agosto 1921 i vicini udirono dall’appartamento di Großmann alcune grida e forti rumori, che dopo pochi attimi cessarono, spaventati, decisero finalmente di chiamare le autorità.

La notte stessa gli agenti entrarono in casa sua: trovarono su un letto il cadavere di una prostituta morta da poco e diverse chiazze di sangue per la casa, che indicavano la presenza di almeno altre 3 persone, che però non trovarono, in quanto già cucinate e vendute.

La polizia, che finalmente aveva abbastanza prove, lo arrestò con l’accusa di omicidio di primo grado e lo portò in centrale.

Non confessò nulla agli agenti, ma fu ugualmente collegato alle ultime sparizioni e ai numerosi ritrovamenti, la soglia delle vittime sospettate si alzò così a 50.

Per i tre arrestati iniziarono gli iter giudiziari. Quello di Karl Denke fu molto breve, il giorno dopo il suo arresto, Denke, venne trovato impiccato nella sua cella d’isolamento e la verità dei fatti non poté essere completamente mai accertata.

La polizia lo ha comunque trovato colpevole di almeno 31 vittime, ma è fortemente sospettato di circa 40 omicidi in totale.

Per quanto riguarda Fritz Haarmann, a parte la tremenda crudeltà dei dettagli dei delitti che lo stesso ammise di aver commesso, scosse ancor più la società tedesca il coinvolgimento della polizia nel caso: Haarmann, che aveva precedenti penali per furto ed era stato in passato ricoverato in manicomio, era regolarmente usato dalla polizia come informatore, per cui era amico intimo di alcuni agenti che occasionalmente ricevevano da lui vestiti come “dono” e chiudevano un occhio sulla sua frequentazione di giovanissimi prostituti, l’omosessualità era illegale in Germania.

Haarman approfittò di tale ruolo presso la polizia adescando col ricatto nell’atrio della stazione di Hannover alcuni minorenni, vagabondi o prostituti fuggiti di casa, minacciando di denunciarli alle forze dell’ordine se non lo avessero accompagnato a casa sua.

Durante il processo Hans Grans, un giovane ladruncolo e prostituto, amante fisso e convivente di Haarman che rivendeva i vestiti delle vittime e per questo venne arrestato come complice di Haarmann, sostenne la sua estraneità ai crimini; il suo ruolo si sarebbe limitato a rivenderne gli abiti.

Ma Haarman lo denunciò quale complice in tutti i reati, riuscendo a convincere la giuria della sua colpevolezza.

Haarmann fu dichiarato capace di intendere e di volere, giudicato colpevole, condannato a 24 pene di morte, Grans ricevette inizialmente una condanna a morte per incitamento all’omicidio in un singolo caso.

Großmann fu processato anche lui ovviamente e il suo atteggiamento durante le udienze, definito “irritante”, non fece altro che rendere più lungo il processo e stizzire il pubblico.

Venne trovato colpevole di 26 omicidi dei 50 di cui era fortemente sospettato e condannato a morte.

Lui accolse il verdetto iniziando a ridere.

Carl Großmann, come Karl Denke, non poté mai essere giustiziato, in quanto si impiccò in cella il 5 luglio 1922, prima della data dell’esecuzione.

Aveva 58 anni.

Il suo suicidio, insieme all’assenza di una sua confessione, lasciò in sospeso il numero totale degli omicidii.

Fritz Haarmann fu decapitato il 15 aprile 1925, su pressione dell’opinione pubblica, la quale non avrebbe apprezzato che venisse semplicemente rinchiuso in un ospedale psichiatrico.

Dopo l’esecuzione capitale di Haarmann, fu trovata una sua lettera che scagionava Grans completamente, e dichiarava: “Avete giustiziato un innocente”.

Questo condusse ad un nuovo processo che commutò la condanna di Grans a 12 anni di prigione.

Ma questa, è un’altra storia.

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Vasilij Komarov – Il lupo di Mosca

S:1 – Ep.25

Vasilij Ivanovič Komarov è una persona qualunque.

Il terzo episodio dedicato agli omicidi seriali della prima guerra mondiale lascia l’Europa del francese Landru e dell’ungherese Kiss per entrare in quello che si chiamava ai tempi Impero Russo e che oggi è la Bielorussia.

Komarov nacque come Vasilij Terent’evič Petrov nel 1877 o 1878 (o nel 1871 secondo la sua testimonianza) a Vicebsk, una città a 500 kilometri a ovest di Mosca.

Nacque da un’umile famiglia di classe operaia e aveva cinque fratelli.

I suoi genitori erano entrambi affetti da alcolismo; Komarov all’età di 15 anni diventò anch’egli un alcolista cronico ed uno dei fratelli andò in carcere perché uccise una persona proprio mentre era ubriaco.

Da giovane si arruolò nell’esercito russo e vi militò per 4 anni.

A 28 anni si sposò per la prima volta e durante la guerra tra la Russia e il Giappone, nel 1904 e 1905, Komarov viaggiò nell’Estremo Oriente e mise da parte molti soldi, ma li sperperò tutti quasi interamente durante quel viaggio.

A 30 anni rapinò un magazzino: arrestato, rimase in carcere per un anno per sentenza del tribunale ma mentre era in carcere la moglie morì di colera.

Scarcerato, si trasferì a Riga dove sposò una vedova polacca di nome Sofia, che aveva due figli.

Komarov era un personaggio violento, picchiava spesso lei e i figli a causa del suo alcolismo.

Nel 1915, quando la prima guerra mondiale era iniziata da un anno e le truppe tedesche già erano arrivate nel Mar Baltico, si trasferì nuovamente nella regione del Volga.

Dopo la Rivoluzione d’ottobre del 1917 Komarov entrò nell’Armata Rossa e lì imparò a leggere.

Fece carriera militare e diventò un comandante di plotone; in almeno un’occasione prese il comando di un plotone di fucilazione per prigionieri nemici.

Nel 1919, durante una battaglia, fu catturato dai volontari dell’esercito del generale Anton Ivanovič Denikin, ma riuscì a fuggire.

Per evitare un processo del tribunale militare rivoluzionario e una sicura condanna a morte, cambiò nome in Vasilij Ivanovič Komarov e nel 1920, dopo la guerra civile, Komarov si trasferì al numero 26 del distretto di Šabolovki vicino al centro di Mosca.

Lì affittò un cavallo e una carrozza e diventò un tassista ma non si limitava a quel singolo lavoro, compì anche diversi furti facendo sparire la merce rubata vendendola al mercato.

Fino a qui abbiamo raccontato la storia di un ex militare, ma non ex alcolista, un violento proveniente da una famiglia difficile e cresciuto con semplici leggi di sopravvivenza, non certo per discolparlo ma bisogna sottolineare che il periodo storico in cui visse era difficile e caratterizzato da forti crisi, povertà, crimine, primo dopoguerra e persecuzioni politiche.

Komarov era una bomba pronta ad esplodere con attacchi d’ira difficilmente controllabili e, inevitabilmente, venne il giorno dell’esplosione.

Il primo delitto non era stato progettato.

Aveva invitato a casa sua un contadino che aveva intenzione di comperare un cavallo con del grano.

Komarov gli offrì da bere e lo fece involontariamente ubriacare.

Quando seppe che voleva comprarsi un cavallo per rivenderlo, pensò che fosse uno speculatore e gli venne un attacco d’ira: andò in giardino, prese un martello e gli spaccò il cranio, il corpo lo nascose in una casa diroccata nei pressi ed il tutto durò circa mezz’ora.

Quella tremenda esperienza non lo turbò, anzi, gli piacque talmente tanto che da quel momento in poi pensò di continuare ad uccidere; nel 1922 smise di nascondere i cadaveri in case abbandonate o in alcune buche e sfruttò la sua professione di tassista per scaricarli in giro.

Il suo modus operandi, identico per tutti gli omicidi, era il seguente: Komarov attirava a sé la vittima con la scusa di fargli visitare la sua scuderia di cavalli; arrivata al suo allevamento, la faceva ubriacare solitamente con vodka e la strangolava con una corda; altre volte la massacrava a martellate.

Qua, il calcolatore, aveva adottato la tecnica di far colare il sangue dal cranio spaccato in un sacco o in una ciotola; questo metodo iniziò ad utilizzarlo dopo che i vestiti della prima vittima si erano macchiati.

Generalmente tutte le vittime erano di sesso maschile.

I cadaveri venivano poi legati, infilati in sacchi di tela e occultati tra i rifiuti nel quartiere di Šabolovki o buttati nel fiume Moscova o sotterrati o nascosti in alcune case diroccate.

Infine si metteva a pregare tutta la notte; ironicamente casa sua si trovava vicino ad una chiesa, la moglie Sofia gli fece da complice nell’occultamento dei corpi: nell’inverno del 1922 scoprì i delitti del marito, ma alla fine ne rimase coinvolta perché il movente degli omicidi era fondamentalmente economico: Komarov infatti derubava le sue vittime, otteneva circa 80 centesimi a cadavere; in totale con 33 omicidi fece soltanto 26 dollari e 40 centesimi.

Gli omicidi partirono dal febbraio 1921, anno in cui si scoprì anche il primo cadavere, solamente quell’anno Komarov compì almeno 17 omicidi; dal 1922 alla metà del 1923 ne compì almeno altri 12.

Questa enorme catena di uccisioni, che terrorizzò la Russia degli anni ’20 e durò circa 2 anni, gli valse il soprannome di “Lupo di Mosca”.

Komarov era conosciuto dai vicini come un individuo cordiale, socievole e sempre sorridente che gestiva la sua semplice famiglia con il commercio di cavalli ma i suoi vicini sapevano anche che, dietro al suo sorriso, si nascondeva «una brutta vena violenta»: infatti una volta tentò di uccidere il figlio di 8 anni, che si salvò solamente grazie all’intervento della madre Sofia.

La polizia si sensibilizzò sul caso all’inizio del 1923, a seguito dell’ennesimo ritrovamento, scoprì che tutte le vittime sparivano con regolarità ogni mercoledì e venerdì nella zona del mercato, luogo dove Komarov usava abbordarli.

La polizia continuò le indagini e lui si insospettì, aveva appreso, forse tramite dei testimoni preoccupati, che le persone che andavano a vedere i suoi cavalli non tornavano più indietro e casualmente sparivano sempre di mercoledì e venerdì pomeriggio, primo indizio.

I corpi venivano trovati sempre di giovedì e sabato, il giorno dopo la visita alla scuderia, inoltre Komarov abitava nel distretto di Šabolovki, dove avvenivano le sparizioni e i ritrovamenti: scattò la prima ipotesi che il killer fosse proprio lui, secondo indizio.

I corpi venivano poi ritrovati in vari luoghi: quindi scattò un’altra ipotesi, e cioè che il killer fosse uno dei tanti tassisti di Mosca, una volta poi, sulla testa di un cadavere fu ritrovato un pannolino fresco, che forse serviva ad assorbire il sangue: quindi scattò la terza ipotesi che avesse avuto un figlio da poco, come aveva avuto Komarov.

E se è vero che, come si dice, tre indizi fanno una prova, per coincidenza, Komarov possedeva tutte queste caratteristiche: forse avevano trovato la pista giusta.

Poco tempo dopo, il 17 marzo, gli agenti andarono in casa sua con la finta accusa di contrabbando di liquore per sottoporlo ad un interrogatorio e durante la successiva inevitabile perquisizione di una stalla trovarono un cadavere avvolto in un sacco nascosto sotto al fieno.

Komarov, vistosi scoperto e preso dal panico, saltò da una finestra e scappò, sebbene l’edificio fosse circondato dalle forze dell’ordine così, durante il perdurare dei controlli di casa sua, fu trovato nell’armadio un corpo ancora caldo con la testa sfracellata.

Eluse gli agenti per un po’ di tempo, ma ormai le autorità erano sulle sue tracce e l’avevano identificato, fu arrestato un giorno dopo la fuga a Nikol’skij, villaggio a pochi chilometri da Mosca, placidamente Komarov in carcere confessò con indifferenza e a tratti felicità 33 omicidi, la polizia ne aveva già scoperti 21, a cui lo collegò e altri 12 cadaveri vennero trovati il giorno successivo nel fiume Moscova e nelle discariche.

Venne così il giorno del processo, che vide coinvolta anche la moglie.

Komarov provò a suicidarsi in cella per tre volte in attesa dell’udienza, senza mai riuscirci.

Chiese alle autorità un processo veloce e confidò nell’inevitabile pena morte, i tre psichiatri che lo esaminarono lo descrissero come un cinico insensibile che non provava rimorso per ciò che aveva fatto, anzi, si era dichiarato pronto ad uccidere altre 60 persone.

Disse di avere compiuto i delitti per motivi economici e che la sua psiche era degenerata a causa dei frequenti abusi di alcol; aggiunse poi che le vittime erano degli «odiosi e avidi speculatori che meritavano di morire al posto dei poveri soldati che combattevano durante la guerra», praticamente soffriva del complesso di Raskol’nikov.

Gli stessi psichiatri però sospettarono comunque che ci fosse qualcos’altro a spingerlo ad uccidere e conclusero le loro perizie allo stesso modo, per i professionisti l’imputato era sano di mente.

Fu processato a Mosca il 6 o 7 giugno 1923, davanti a una folla di giornalisti e curiosi, visto che il caso creò molto scalpore, la polizia fece molta fatica a trattenere la folla inferocita; Komarov commentò il fatto dicendo che il comportamento degli indignati lo faceva vomitare.

Quando gli venne chiesto perché avesse ucciso, lui strinse le spalle e disse «A causa del denaro».

All’alba dell’8 giugno venne dichiarato colpevole di 33 omicidi; sua moglie Sofia fu accusata di complicità e vennero entrambi condannati a morte tramite fucilazione con i figli mandati agli orfanotrofi; il figlio nato nel 1922 aveva appena un anno.

Komarov durante la sua permanenza in cella concesse molte interviste ai giornalisti, in cui disse che «aveva 52 anni e aveva trascorso una buona vita, e che non voleva vivere più», se fosse stato vero, allora sarebbe nato nel 1871, dichiarò anche che «uccidere era un lavoro terribilmente facile» e che «dopo la sua condanna a morte, sarebbe stato il suo turno di essere messo dentro a un sacco».

Qualche giorno prima tentò di fare un ricorso alla condanna che fu prontamente, e ovviamente, respinto.

Sofia e Vasilij Komarov furono fucilati da un plotone d’esecuzione a Mosca il 18 giugno 1923.

Alcuni ricercatori hanno poi ipotizzato che uno dei tre figli di Komarov, si schierò con i tedeschi durante la seconda guerra mondiale e si dedicò allo sterminio di soldati russi, partigiani e civili.

Tuttavia le prove di questa affermazione non sono mai state trovate.

Ma questa, è un’altra storia.

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Bèla Kiss – Il mostro di Cinkota

S:1 – Ep.24

Bèla Kiss è una persona qualunque.

Dopo il parigino Landru, la serie di episodi sui serial killer si sposta ad est della Francia ed approda in Ungheria, 100 kilometri a sud di Budapest.

Béla Kiss nacque nel 1877 a Izsák, nella grande pianura meridionale dell’Ungheria.

Kiss non andò mai a scuola ma imparò comunque a leggere da solo e si dimostrò sempre un lettore vorace.

Da giovane fece vari mestieri, tra cui la lettura della mano, studiò l’astrologia e l’occulto da autodidatta.

Nel 1890 svolse il servizio di leva obbligatoria ovviamente nell’esercito Austroungarico e nella primavera del 1900, all’età di 23 anni, si trasferì a Cinkota, appena fuori Budapest; al centro dell’Ungheria, la sua casa si trovava in via Kossuth, numero 9; successivamente traslocò al numero civico 17 di via Rákóczi.

Attorno al febbraio del 1912 si sposò con Mária, una donna di quindici anni più giovane di lui che aveva conosciuto da poco.

In quegli anni usava molto conoscere donne “da marito” tramite annunci vari come faceva anche il parigino Landru, e ad uno di quegli annunci di Kiss rispose proprio Mària, nello stesso periodo Kiss divenne amico del capo della polizia locale, il detective Kártoly Nagy; Kiss era conosciuto dagli abitanti del posto per la sua gentilezza.

Usciva spesso per motivi ignoti e trascorreva molte giornate a Budapest; tornava alle prime ore del mattino ma lavorava in maniera costante come lattoniere, un mestiere che gli permetteva di guadagnare bene.

Nel dicembre del 1912, dieci mesi dopo essersi sposato con Mària, Kiss scoprì che la moglie lo tradiva con un certo Pál Bihari, ne conseguì un litigio e il giorno dopo, Kiss, diffuse la notizia che la moglie era scappata con l’amante, e di fatti Mària e Pàl non si videro più a Cinkota.

In quegli anni, successivamente a quell’evento, iniziarono nella zona attorno a Budapest una serie di scomparse di donne, tutte giovani e in cerca di marito, ma non sempre se ne segnalava la scomparsa, a volte scappavano per amore o perché rimaste in cinta e l’onta della famiglia non si lavava facilmente, meglio una figlia scomparsa che in dolce attesa e magari senza marito.

Questa serie più numerosa di sparizioni durò fino almeno al novembre del 1914 e solamente quando furono denunciate dalle loro famiglie la scomparsa di Julianna Paschak e Erzsébet Komáromi la polizia di Budapest iniziò le ricerche.

Intanto scoppiò la prima guerra mondiale e Kiss, austroungarico, nel novembre del 1914 fu chiamato alle armi.

La partenza per la guerra lo aiutò a dileguarsi dalla sua città, Cinkota, lasciando a casa solamente la signora Jakubec.

Nel 1912, due anni prima dell’inizio della grande guerra e della obbligata partenza al fronte, Kiss assunse una governante, la Jakubec per l’appunto, che non si preoccupò mai delle voci delle scomparse di quel periodo.

Certo, il giorno dopo ogni sparizione nel giardino della casa di Bèla Kiss comparivano dei bidoni di metallo, tanto che un giorno l’amico detective Nagy, insospettito da ciò, chiese a Kiss cosa contenessero, la guerra era alle porte e non si poteva più rimandarla, egli rispose che “si era fatto una scorta di benzina, nel caso in cui la guerra fosse iniziata”.

Il poliziotto e la gente del posto si erano fatti l’idea che Kiss con quei fusti contrabbandasse liquore ma dopo che ammise ciò, tutti gli credettero, non era certo l’unico preoccupato in quel periodo pre bellico di far scorte di materiali primari.

Nel luglio del 1916, mentre Kiss era al fronte non si sa dove, il proprietario della sua ex-casa, giunto sul luogo per ristrutturare l’appartamento, notò alcuni bidoni di metallo nel giardino dai quali usciva un forte tanfo di putrefazione; avvisò la polizia che accorse sul luogo insieme ad un medico legale.

La scoperta fu agghiacciante, dentro ai fusti c’erano i cadaveri svestiti di alcune donne con segni di strangolamento sul collo, in un fusto fu ritrovato perfino la garrota utilizzata; in altri i cadaveri erano immersi nell’alcol.

Continuando a perlustrare la casa e le sue pertinenze, la polizia scoprì che in cantina c’erano sette barili, che contenevano una salma ciascuno: tra di esse c’erano quelle della moglie Mária Kiss e dell’amante Pál Bihari.

Si scoprì che Bèla Kiss, durante un litigio con la moglie quando scoprì del tradimento, la colpì con un bastone in testa e la strangolò con una garrota, un cavo di metallo pieghevole, la soffocò così forte da reciderle la gola e successivamente uccise anche Bihari per poi diffondere la notizia che i due amanti fossero scappati assieme.

Nella legnaia c’erano nascosti altri due morti; nel pollaio ce n’era un altro ancora, ma non finirono velocemente le macabre scoperte, in una stanza della casa, che Kiss aveva chiuso a chiave, c’erano le lettere, i gioielli e i vestiti appartenenti alle donne uccise; nella stessa stanza si trovarono anche dei libri che parlavano di veleni o strangolamenti.

Dietro alla scrivania, nascosto assieme alle lettere, c’era un album fotografico con le foto di circa 100 donne.

Il killer aveva proibito alla governante Jakubec di entrarci, ma le consegnò comunque la chiave, dalle lettere la polizia stabilì che aveva ricevuto 174 proposte di matrimonio e che ne aveva accettate 74.

Quindi Kiss intrattenne rapporti epistolari con almeno 74 donne.

Molti altri corpi vennero recuperati: era fortemente sospettato di almeno 30 omicidi ma, in luce dei ritrovamenti, la polizia ne verbalizzò solamente 24, tra cui ovviamente la moglie e l’amante, poi c’erano le due donne scomparse segnalate alla polizia a cui si aggiungevano Katalin Varga, la prima donna che si presentò da Kiss e che fu picchiata e strangolata la sera stessa, la signora Schmeidak, una vedova che si presentò da Kiss la settimana successiva e che due giorni dopo il killer stordì sbattendole la testa contro la parete e poi strangolò, e Margit Tóth, che si trasferì a Cinkota nel 1906 e si presentò da Kiss: lui la obbligò a scrivere una lettera da spedire alla madre, avrebbe dovuto fingere di essere partita per gli Stati Uniti d’America a seguito di un fallimento in amore, fu strangolata e fatta a pezzi anche lei e la lettera venne spedita poi per sviare i sospetti.

Il suo modus operandi era presso che sempre quello, caratteristica e firma dei serial killer: attirava le vittime del paese, tutte giovani donne, con dei finti annunci matrimoniali in casa e, dopo averle stordite con delle forti percosse, le strangolava con una garrota.

Per non farsi riconoscere usava un nome fittizio, “Herr Hoffmann” o “Elemér”.

Probabilmente uccideva le donne perché non era mai riuscito a perdonare Mària, nemmeno dopo averla uccisa, e a seguito dell’incidente con la moglie nutriva un profondo risentimento verso di loro, risentimento che forse si alleviava di poco dopo un omicidio ma che poi tornava tormentandolo nuovamente.

La governante apprese delle azioni di Kiss dalla polizia ed era presente durante il ritrovamento dei corpi sparsi per casa all’interno dei fusti maleodoranti, non era mai entrata nella stanza a lei proibita nonostante ne possedesse la chiave, era terrorizzata, fu sottoposta comunque ad un interrogatorio nel quale si dichiarò innocente, venendo infine scagionata dagli omicidi.

La polizia accertò, con il procedere delle indagini, che Kiss non aveva un complice.

La notizia del mostro di Cinkota fece velocemente il giro dell’Ungheria e le forze dell’ordine si misero in contatto con l’Esercito Austroungarico per fermare l’assassino seriale.

Il problema principale era che i nomi “Béla” e “Kiss” erano molto diffusi in quegli anni tra gli ungheresi; gli agenti si sarebbero trovati di fronte a migliaia di presunti serial killer che in quel momento erano impegnati nelle battaglie in luoghi sperduti per combattere la prima guerra mondiale.

Inizialmente, nel maggio del 1916, prima della macabra scoperta, circolava la notizia che Kiss fosse morto in battaglia e il 4 ottobre dello stesso anno le autorità vennero informate che Kiss era invece morto per una grave forma di tifo l’anno precedente, ma la notizia venne rettificata e l’Esercito affermò in un telegramma che era certamente morto in un ospedale da campo nella Serbia orientale dopo essere stato ferito in un combattimento.

La polizia voleva essere sicura che il serial killer fosse veramente defunto e si presentò per l’identificazione, tuttavia quando il cadavere venne scoperto, la polizia scoprì che non era quello di Kiss, o meglio, i documenti erano i suoi ma il killer, dopo aver appreso in giro la notizia che era stato scoperto, aveva scambiato i propri documenti d’identità con quelli di un altro soldato appena morto.

Quest’altro uomo aveva 20 anni ed era di carnagione chiara, mentre Kiss ne aveva circa 40 ed era di carnagione scura, il killer era ancora probabilmente vivo… e libero ancora di uccidere.

Da quel momento in poi gli agenti raccolsero alcune prove di avvistamento, ma non tutte potevano essere verificate: una di esse diceva che era stato imprigionato con l’accusa di furto con scasso in Romania; un’altra diceva che era morto di febbre gialla in Turchia, una segnalazione riferì che era stato avvistato mentre passeggiava su un ponte a Budapest nella primavera del 1919, quando la guerra, nel frattempo, era terminata.

All’inizio del 1920, un soldato disertore francese riferì alla polizia della Sûreté che aveva ascoltato un commilitone parlare “di come fosse bravo a strangolare le donne con una garrota”; questo commilitone si faceva proprio chiamare “Herr Hoffmann”, come uno dei suoi pseudonimi utilizzato da Kiss nei suoi annunci matrimoniali, ma quando la polizia ungherese apprese la notizia e cercò di raggiungerlo, il killer era fuggito nuovamente.

Dodici anni dopo, nel 1932, un poliziotto chiamato Henry “Camera Eye” Oswald riconobbe Kiss mentre usciva dalla metropolitana di New York a City Square, Kiss si accorse di essere spiato e si dileguò subito tra la folla, era scappato per la terza volta.

Oswald ritenne che egli vivesse da qualche parte nella city.

Nel 1936 la polizia venne avvisata che Kiss lavorava come portiere, custode e bidello in uno stabile; quando i poliziotti giunsero sul luogo, non trovarono nessuno: scoprirono che il portiere se n’era andato proprio il giorno prima.

Da quel momento sparì definitivamente.

Non è escluso che possa avere continuato a uccidere dopo l’ennesima fuga ma…

questa, è un’altra storia.

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Henri Landru – Barbablù

S:1 – Ep.23

Henri Désiré Landru è una persona qualunque.

Con Henri Landru iniziamo una serie di 4 puntate dedicate ai serial killer più feroci del periodo della grande guerra, predatori spietati, portatori di divise dei vari eserciti o che comunque, in un qualche modo, ne hanno fatto parte, assassini seriali di donne e di uomini.

In questi episodi vi racconterò dell’ungherese Bèla Kiss – Il mostro di Cinkota, del russo Vasilij Komarov – Il lupo di Mosca e di Carl Großmann, Fritz Haarmann e Karl Denke i macellai tedeschi

Tre tedeschi, un russo, un ungherese e un francese, 6 persone qualunque che non potevano fermarsi dall’uccidere in maniera seriale per le più svariate motivazioni personali ma andiamo per ordine, il primo è un francese.

Henri Landru nasce a Parigi il 12 aprile 1869, data che anni dopo festeggerà in modo del tutto diverso, di certo il suo peggior compleanno.

Figlio di un autista e di una sarta, Henri cresce sano, mostrando intelligenza ma anche una certa timidezza.

I voti a scuola non sono eccellenti ma neppure pessimi, tanto da permettergli di superare i vari gradi delle scuole fino ad iscriversi alla facoltà di ingegneria meccanica.

Nel frattempo arriva la chiamata alle armi, periodo durante il quale Henri dimostra disciplina e applicazione ottenendo i gradi di sergente; ma non è quella la vita che Henri vuole fare e quando finalmente poté scegliere, lasciò l’esercito.

Nel 1898, tolti i panni del militare, ha un’idea innovativa, una bicicletta a motore di sua invenzione, ribattezzata modello “Landru” ma il progetto, mai realizzato, ottiene comunque l’appoggio finanziario di vari investitori, Landru, appena intascato i soldi, sparisce.

Non fu l’unico raggiro nella vita di Henri, sull’onda di soldi facili senza lavorare, escogita altre truffe successive, tra cui quella del rigattiere che però lo portano inevitabilmente in carcere, e proprio lì rinchiuso Henri medita quella che, secondo lui, lo porterà alla facile ricchezza senza fatica.

Si accorge che, leggendo le rubriche sui quotidiani dedicate ai cuori solitari, sono tante le donne, spesso vedove e benestanti, che anelano al matrimonio nella vita e per questo, grazie anche alla monotonia della vita da carcerato, inizia a pubblicare inserzioni sentimentali, proponendosi come signore di mezza età, colto e agiato, desideroso di convolare a giuste nozze.

La prima vittima a cadere nella sua fitta ragnatela è una giovane ricca vedova di Lille alla quale Henri, appena uscito dal carcere, riesce a estorcere la ragguardevole cifra di 15000 franchi.

La Francia venne impegnata nel frattempo nella prima guerra mondiale, 1.350.000 vittime fra i soli militari francesi erano una vera e propria fucina di vedove, molte giovani e con ancora una vita davanti desiderose di compagnia, quelle benestanti erano quelle che a Henri, ovviamente, piacevano di più.

Ma cosa farci poi con le vedove, soprattutto se avevano anche figli, una volta che gli aveva estorto il denaro?

Purtroppo era semplice, perché Henri diventò in fretta un omicida seriale.

Grazie alla sua eloquenza, riusciva a far firmare alle sue vittime una procura che gli permetteva di far man bassa dei loro conti bancari, ottenuto questo aspettava il momento giusto e le strangolava, faceva poi sparire i corpi facendoli a pezzi e bruciandoli nel forno situato nella cucina della sua villa.

Questo era il suo modus operandi, vedova dopo vedova, fino a contarne almeno una decina.

Benché fosse alquanto isolata, la villa di Henri era comunque relativamente vicina ad alcune abitazioni, i cui residenti non potevano fare a meno di notare il frequente odore pestilenziale emanato dal fumo che usciva dal camino in periodi in cui il riscaldamento non era nemmeno necessario.

Insospettiti, avvisarono così più volte la polizia, invitandola a perquisire la villa, ma ad ogni modo Landru riuscì a restare a lungo nell’ombra, grazie alla cautela utilizzata nel compiere i suoi efferati crimini.

Egli, infatti, una volta che il cadavere si era incenerito e il fuoco spento, puliva accuratamente il forno dalla cenere che poi spargeva nei campi vicini, eliminando così tutte le tracce e le possibili prove che avrebbero potuto incriminarlo.

Petit, o Fremyet, Guillet erano solo alcune firme da lui utilizzate negli annunci, cambiava spesso testo per non essere identificato e collegato ad altri annunci, a volte era un vedovo padre di due figli, a volte un semplice vedovo dal cuore infranto o talvolta semplicemente un cuore solitario, comunque era purtroppo sempre Henri Landru.

Tutto funzionava a meraviglia fino a che non fu arrestato il 12 aprile 1919, giorno del suo cinquantesimo compleanno, con l’accusa di truffa ed appropriazione indebita in seguito alle denunce sporte da alcuni parenti delle vittime dopo la loro scomparsa.

Ben presto, dall’analisi di vari indizi concordanti, l’accusa si trasformò in quella dell’omicidio di almeno dieci donne e di un ragazzino che accompagnava una delle vittime, la prima per l’esattezza.

Quel giorno, il 12 aprile alle 9.00 in punto, suonò il campanello di casa Landru, aprendo la porta mentre Fernande Segret, forse la futura undicesima vittima, dormiva ancora nel suo letto, piombarono a casa sua alcuni poliziotti guidati dall’ispettore Jules Belin che lo prelevarono con la forza.

L’ispettore aveva raccolto le testimonianze di parenti e amici vari delle dieci vittime ufficiali di Henri, tra cui quella di Laure Bonhoure che aveva riconosciuto Henri all’uscita di un negozio sotto braccio ad una donna bionda che non conosceva, ma conosceva Henri perché aveva frequentato l’amica Celestine Buisson, di cui nessuno aveva più notizie da tempo.

Se la polizia durante la prima guerra mondiale aveva a che fare con problemi, diciamo così, più gravi di donne vedove che sparivano di tanto in tanto, nel 1919, a cannoni fermi, era ora di occuparsi anche di quelle scomparse, ritardatario lavoro portato avanti anche dall’ispettore Belin.

Il processo, che all’epoca ebbe un’enorme eco mediatico dato dal fatto che non c’era più bisogno di riportare i fatti della prima guerra mondiale, si aprì il 7 novembre 1921 davanti alla Corte d’assise di Seine-et-Oise nella sede di Versailles.

Henri Landru negò fin dall’inizio di essere l’autore dei crimini, ammettendo tuttavia di aver truffato le presunte vittime.

Manifestò a più riprese un atteggiamento spesso provocatorio nei confronti della corte, arrivando perfino ad esclamare, più e più volte: “Mostratemi i cadaveri!”.

La cucina a legna nella quale aveva bruciato i corpi fu trasportata nell’aula del tribunale, mentre una meticolosa perquisizione del giardino della casa di Gambais rivelò frammenti di ossa umane e molti denti, ma anche resti di animali.

Sebbene le prove materiali fossero scarse, teniamo presente che la scienza forense non aveva l’esperienza dei giorni nostri, la giuria fu influenzata da un’agendina di Landru in cui erano meticolosamente registrate, di suo pugno, le spese del viaggio di andata di ogni vittima, mentre erano del tutto assenti le spese del viaggio di ritorno, di questo fatto egli non riuscì a dare alcuna spiegazione convincente.

Emersero così dei nomi, nel 1915 la prima vittima fu proprio Jeanne-Marie Cuchet, una giovane vedova di trentanove anni scomparsa assieme al figlio Andrè e, sempre nello stesso anno, la stessa sorte colpì Thèrese Laborde-Line, Marie-Angèlique Guillin e Berthe-Anne Collomb.

L’anno successivo, nel 1916, svanì nel nulla Andrèe-Anne Babelay a soli 19 anni e Cèlestine Buisson, l’amica dell’ultima segnalatrice, seguirono poi negli anni successivi Louise-Jòsephine Jaume, Anne-Marie Pascal e, nel gennaio 1919, Marie-Thèrèse Marchadier, vedova e proprietaria di una pensione proprio a Parigi.

Vincent de Moro-Giafferi, il suo avvocato, uno dei più famosi in Francia, lo difese strenuamente, nonostante le prove mancava la “regina”, e cioè i corpi, o almeno uno, delle vittime dichiarate, l’avvocato continuò asserendo sì le truffe, come già ammesse da Landru, ma non certo gli omicidi di cui Henri era accusato.

I giornali divulgano notizie e avevano pronto il nomignolo, Barbablù, come il protagonista della fiaba di Charles Perrault, l’uxoricida responsabile delle morti delle sue sei mogli, ma di fronte a una serie di testimonianze schiaccianti e a numerosissime prove circostanziali, né Henri e né il suo avvocato poterono evitarne la condanna a morte, pronunciata il 30 novembre 1921.

Landru ascoltò serafico la lettura del verdetto emesso dalla giuria, quasi non lo riguardasse, come se lui fosse lì per puro caso o per un palese errore giudiziario e trascorse i pochi mesi che lo separavano dalla ghigliottina sereno, in linea con lo stile che aveva sempre avuto fin dal primo giorno del processo.

Anatole Deibler, il più famoso boia della Francia di cui si poteva vantare, nella sua lunga carriera, ben 395 esecuzioni, durante la notte del 25 febbraio 1922, montò la ghigliottina nel piazzale della prigione di Saint Pierre e attese l’alba.

La richiesta di grazia, inviata ad Alexandre Millerand, all’epoca presidente della repubblica francese, fu rifiutata il 24 febbraio 1922, il giorno prima dell’arrivo di Deibler.

Al sorgere del primo sole Henri Ladru, uscito tranquillo dalla sua cella, venne accompagnato nel cortile della prigione di St. Pierre a Versailles, dove era stato allestito il patibolo e la ghigliottina e alle 6.05, dopo che le autorità del carcere ebbero concesso l’ultimo desiderio al condannato a morte e cioè quello di essere sbarbato, pare fosse un vezzo personale per, parole sue, piacere di più alle donne, lasciò cadere la lucida lama sul collo di Barbablù, decapitandolo.

La ghigliottina, quel tremendo attrezzo inventato proprio in Francia nel XVIII secolo e che giustiziò reali come il re Luigi XVI e Maria Antonietta d’Asburgo ma anche artisti come il poeta Chènier o il padre della chimica moderna Lavoisier questa volta, aveva definitivamente fermato un serial killer.

La sua testa mozzata e mummificata è conservata nel Museum of Death di Hollywood.

Ma questa, è un’altra storia.

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Maria Plozner Mentil – Un angelo della trincea

S:1 – Ep.22

Maria Plozner Mentil è una persona qualunque.

Maria nacque a Timau, una piccolissima frazione del comune di Paluzza in provincia di Udine, nel 1884 e il 9 gennaio 1906 sposò Giuseppe Mentil, anch’egli di Timau, dal quale ebbe quattro figli.

Durante il periodo di neutralità dell’Italia, l’Austria aveva potenziato il suo sistema difensivo attorno al passo di Monte Croce Carnico, a mt. 1360 d’altezza, occupando le cime del Pal Piccolo -mt. 1886- e Pal Grande -mt. 1809- a destra del passo e la Creta di Collinetta -mt. 2188-, che si erge alla sua sinistra; dalla quota 1829 della Creta di Collinetta, un robusto trincerone blindato ed in parte coperto, protetto da reticolati e cavernette con mitragliatrici e cannoncini da trincea, si collegava alla linea difensiva sul Pal Piccolo comprendente i 2 cocuzzoli a quota 1859 e 1866, per finire alla cima del Pal Grande.

Da parte italiana si era provveduto a rendere impraticabile la strada ed i sentieri di collegamento delle malghe con Timau, perché la zona, aspra e dirupata, non permetteva grossi lavori difensivi.

Ci troviamo in territorio friulano, precisamente nella regione storico-geografica della Carnia che tra l‘agosto 1915 e l‘ottobre 1917, quando l’Italia ruppe lo stato di neutralità schierandosi contro l’impero austroungarico e tedesco, era un territorio a ridosso del confine austriaco, militarmente bipartito nei sotto-settori But-Degano e Fella.

La zona era strategica sia dal punto di vista del Regio Esercito Italiano, come possibile via per conquistare la Carinzia subito al di là del passo di Monte Croce Carnico, sia da quello nemico, come porta principale per l’invasione italiana.

Vette contese da entrambi gli schieramenti, che si trovavano asserragliati in trincee scavate nella pietra, quasi completamente isolati dai più vicini centri abitati.

Negli anni della prima guerra mondiale, Maria Plozner con i figli piccoli e il marito Giuseppe al fronte sul Carso arruolato nel glorioso corpo degli alpini, rispose, come molte altre donne del luogo, all’appello fatto dell’esercito che richiedeva dei volontari per trasportare i rifornimenti dalle retrovie alla prima linea; diventò così una portatrice, o come le chiamavano gli stessi alpini impegnati sul fronte, un “angelo delle tricee”.

Il settore era comandato dal Gen. Clemente Lequio, con quartier generale a Tolmezzo. Nella zona Carnia erano dislocate 2 brigate di fanteria e 16 battaglioni alpini, l’Austria aveva in linea la 92° divisione comandata dal Gen. Rohr. La densità delle truppe era di circa un uomo ogni 1,5 metri di fronte.

Un esercito di così grandi dimensioni necessitava di rifornimenti continui: vettovaglie, munizioni, attrezzatura, medicine e in zone così impervie, un approvvigionamento giornaliero tramite automezzi era praticamente impossibile.

Più che in altri settori del fronte, in Carnia le difficoltà iniziali furono immediatamente palesi per l’esercito italiano. La deposizione fatta dal deputato Michele Gortani nell’inchiesta di Caporetto permette di scoprire alcuni particolari sorprendenti e grotteschi:

“mancava dunque, dicevo, tutto quello che occorre per la guerra in trincea […]. Alle bombe a mano in Carnia supplì per qualche tempo il generale Lequio con un impianto improvvisato […]: aveva acquistato un notevolissimo stock di coppelle mestolo per cucina, le faceva congiungere, praticava un foro nel centro di una di esse e vi applicava un cilindretto di latta […] per l’esplosivo.”

Ciononostante, gli Alpini e i Feldjäger impegnati nell’alta Val But dettero vita a dei durissimi scontri nei pressi dello strategico Passo di Monte Croce Carnico. I primi si impossessarono del Pal Piccolo e del Pal Grande mentre i secondi occuparono il Freikofel.

I comandi però erano intenzionati a creare una linea di controllo sicura e quindi entrambi gli eserciti avevano ricevuto l’ordine di scalzare i rispettivi avversari da queste cime.

Nel giugno e nel luglio del 1915 Alpini e Feldjager si fronteggiarono furiosamente senza però ottenere risultati: tutte le vette furono occupate solo parzialmente e le prime linee si trovavano a pochi metri l’una dall’altra.

Così, già nelle prime settimane i soldati ebbero a che fare con una guerra di posizione logorante che solo l’inverno riuscì a fermare momentaneamente.

Le salmerie dei battaglioni non bastavano e d’inverno non erano impiegabili, le uniche vie utilizzabili per raggiungerli erano sentieri e mulattiere percorribili esclusivamente a piedi e ciò prevedeva il trasporto di materiali a spalla, da fondo valle, dove erano ubicati magazzini e depositi militari, fino in cima alle Alpi Carniche, per permettere alle forniture di raggiungere le prime linee.

Per tali trasporti diventava sconveniente impiegare i soldati già schierati sul fronte: ciò avrebbe tolto forza ed efficacia all’esercito belligerante.

La forza media presente in questi territori si aggirava intorno ai 10-12 mila uomini.

Essi dovevano essere vettovagliati ogni giorno, riforniti di munizioni, medicinali e attrezzi vari.

I magazzini ed i depositi militari erano dislocati in fondo valle e non c’erano rotabili che consentissero il transito di automezzi né di carri trainati da animali.

L’unico sistema per raggiungere la prima linea del fronte, in alta montagna, era il trasporto a spalla seguendo i sentieri o le mulattiere, sia in estate che in inverno.

Ma dato che per effettuare questi rifornimenti non si potevano sottrarre militari alla prima linea senza danneggiare l’efficienza operativa, il Comando Logistico della Zona e quello del Genio furono costretti a chiedere aiuto alla popolazione civile, ma gli uomini validi erano tutti alle armi e nelle case erano rimasti solo gli anziani, i bambini e le donne.

E le donne di Paluzza e Timau, avvertendo la gravità di quella situazione, non esitarono ad aderire al pressante invito che con toni drammatici veniva loro rivolto e si misero subito a disposizione dei Comandi Militari per trasportare a spalla quanto occorreva agli uomini della prima linea. Alcune di loro erano quindicenni.

Venne così costituito un Corpo di ausiliarie, composto da civili di tutte le età, non arruolate in senso militare, ma distinte da un’autodisciplina esemplare.

Non vestivano una divisa, il loro equipaggiamento era scarno, costituito da semplici, quanto fondamentali particolari: una gerla, una sorta di cesta in vimini intrecciata a forma di cono rovesciato e aperta in alto, con due cinghie di corda per poter essere trasportata che riempivano di tutto il necessario e che poteva arrivare a pesare oltre 30 kg, un braccialetto rosso recante il numero dell’unità militare d’assegnazione e un taccuino su cui venivano annotati i materiali trasportati e i viaggi giornalieri.

Con tali premesse, per 26 lunghi mesi, le portatrici carniche, questo il nome loro assegnato e con cui vengono ancora oggi ricordate, fecero la spola dai paesi a fondo valle fino in cima ai monti, giorno dopo giorno, partendo all’alba e rientrando nel pomeriggio.

Giunte a destinazione con il cuore in gola, curve sotto il peso della gerla in una così disumana fatica, specie d’inverno quando per avanzare affondavano nella neve fino alle ginocchia, scaricavano il materiale, sostavano qualche minuto per riposare, per far sapere agli alpini di reclutamento locale le novità del paese e magari per riconsegnare loro la biancheria fresca di bucato ritirata, da lavare, nei viaggi precedenti.

L’indomani all’alba si ricominciava daccapo con nuova lena.

Un collegamento tra depositi e prime linee, tra il mondo civile rimasto ai piedi delle montagne e il mondo della guerra, a decine di metri di dislivello.

Ma non mancavano certamente i rischi anche per loro, i “cecchini” austriaci non facevano differenza e sparavano su tutto quanto si muoveva, indistintamente e, come detto, in alcuni tratti le trincee erano estremamente vicine tra loro, aumentando la precisione del fuoco dei cecchini.

Fu così che il 15 febbraio 1916, una di esse, Maria Plozner Mentil, mentre si stava riposando assieme all’amica Rosalia Primus, venne colpita da uno di loro; seppur trasportata immediatamente all’ospedale di Paluzza, spirò il giorno dopo.

Non rimase altro che avvisare il marito Giuseppe, Alpino in linea chiamato d’urgenza per dargli la triste notizia e lasciare quattro piccoli orfani di madre.

Come succedeva spesso per mariti e padri, e molto più raramente per le madri, di Maria rimase solo la Medaglia d’oro al valor militare e, come purtroppo usava in quegli anni, la medaglia arrivò solamente nel 1997 quando l’allora Presidente della Repubblica Oscar Luigi Scalfaro le conferì con “Motu Proprio” come rappresentante di tutte le Portatrici, la medaglia, 81 anni dopo la scomparsa sul fronte di Maria:

«Madre di quattro figli in tenera età e sposa di combattente sul fronte carsico, non esitava ad aderire, con encomiabile spirito patriottico, alla drammatica richiesta rivolta alla popolazione civile per assicurare i rifornimenti ai combattenti in prima linea. Conscia degli immanenti e gravi pericoli del fuoco nemico, Maria PLOZNER MENTIL svolgeva il suo servizio con ferma determinazione e grande spirito di sacrificio ponendosi subito quale sicuro punto di riferimento ed esempio per tutte le “portatrici carniche”, incoraggiate e sostenute dal suo eroico comportamento. Curva sotto il peso della “gerla”, veniva colpita mortalmente da un cecchino austriaco il 15 febbraio 1916, a quota 1619 di Casera Malpasso, nel settore ALTO BUT ed immolava la sua vita per la Patria. Ideale rappresentante delle “portatrici carniche”, tutte esempio di abnegazione, di forza morale, di eroismo, testimoni umili e silenziose di amore di Patria. Il popolo italiano Le ricorda con profonda ammirata riconoscenza.»

Alla sua memoria venne dedicata nel 1955 una caserma nel comune di Paluzza (unica caserma dell’Esercito Italiano dedicata ad una donna). La caserma venne poi dismessa nel 2001 e ceduta al Comune che ne demolì una parte pericolante lato strada che portava al vicino confine austriaco.

Maria fù l’unica portatrice carnica abbattuta dal fuoco nemico ma non l’unica colpita, tre di loro rimasero ferite nei vari viaggi: Maria Muser Olivotto e Maria Silverio Matiz entrambe di Timau, lo stesso paese di Maria e Rosalia Primus da Cleulis.

L’ultima portatrice carnica vivente è stata Gallizia Angela Rovedo fu Silvestro, nata a Bevorchians (Moggio Udinese) il 13 settembre 1903, operò sui monti della Vall’Aupa, fra il monte Cullar e la Crete dal Cronz ed è morta a Bergamo il 23 novembre 2005 all’età di 102 anni.

Ma questa, è un’altra storia.

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Giuseppe Aonzo – L’impresa di Premuda

S:1 – Ep.21

Giuseppe Aonzo è una persona qualunque.

Giuseppe nacque a Savona il 24 maggio 1887 nella zona del porto e respirò sin da subito l’aria salmastra del mare, crescendo ascoltando i racconti dei marinai quali favole dell’infanzia.

Il percorso di studi lo portò a diplomarsi al locale istituto nautico e sin da subito prese il mare su battelli mercantili.

Svolse il servizio militare di leva ovviamente in marina, venendo arruolato nel 1907.

Il 1º gennaio 1908 venne nominato allievo timoniere e nel maggio dello stesso anno ottenne il grado di timoniere fino ad arrivare a sottocapo timoniere.

Il 12 novembre 1908 venne posto in congedo illimitato.

Crebbe lavorando nella marina mercantile e, grazie alla sua competenza e passione, dedizione e caparbietà, divenne capitano di lungo corso.

Durante la prima guerra mondiale, dopo l’entrata in guerra del Regno d’Italia contro l’Impero austro-ungarico, venne chiamato alle armi per necessità dalla Regia Marina italiana e la sua esperienza marinaresca, nonché la qualifica di capitano di lungo corso, gli permisero di essere inquadrato con il grado di capo nocchiere di 2ª classe.

Dopo poco tempo venne nominato guardiamarina di complemento trasferito dalle navi grigie alla flottiglia MAS di stanza a Venezia, diventando Comandante del mezzo navale più piccolo, ma più insidioso, della Marina italiana.

Il Motoscafo armato silurante o Motoscafo antisommergibili, più conosciuto con la sigla MAS, era una piccola imbarcazione militare usata come mezzo d’assalto veloce e antisommergibile dalla Regia Marina durante la prima e la seconda guerra mondiale.

Fondamentalmente si trattava di un motoscafo da 12 a 30 tonnellate di dislocamento che arrivava ad un massimo di una decina di uomini di equipaggio, l’armamento era costituito da due siluri e alcune bombe di profondità antisommergibile, oltre a una mitragliatrice o a un cannoncino.

Dal 1º marzo 1918 l’ammiraglio Miklós Horthy assunse il comando della Imperial-Regia marina da guerra austro-ungarica, in sostituzione dell’ammiraglio Maximilian Njegovan.

Con la nomina di Horthy, anche Paolo Thaon di Revel percepì la possibilità che il nuovo comandante austriaco attuasse un’azione di flotta fuori dagli schemi consolidati.

Fino a quel momento, lo sbarramento del Canale d’Otranto era stato attaccato diciannove volte e, in quattro di queste, era presente l’ammiraglio Horthy quale comandante del Novara.

Era quindi molto probabile che il nuovo comandante intendesse dare un segnale di cambiamento nella conduzione della guerra e che il canale d’Otranto, a lui ben noto, rientrasse nei suoi piani.

Segnali di un nuovo imminente attacco si ebbero con una incursione aerea, il 9 giugno, per cui l’ammiraglio Revel dispose che quattro sommergibili francesi venissero posizionati in agguato a nord di Durazzo, mentre gli italiani F10 e F14 furono posti rispettivamente davanti a Pola e al canale di Faresina.

I sospetti non erano infondati: il comando supremo austro-ungarico aveva infatti preparato una potente offensiva, che prevedeva l’impiego di gran parte della flotta.

Il loro compito consisteva nel rimanere nelle posizioni assegnate fino alle 07:30 del giorno 11, ora alla quale rientrare in caso di mancato contatto con le navi italiane.

Si pensava, infatti, che l’azione del gruppo d’attacco avrebbe indotto il comando italiano a far uscire i propri incrociatori corazzati da Brindisi e Valona per inseguire il naviglio austriaco, incrociatori che si sarebbero poi trovati accerchiati dalle maggiori unità austriache, supportate da un largo impiego di sommergibili e aerei.

Il Viribus Unitis e il Prinz Eugen, all’alba dell’11 giugno, raggiunsero in orario la loro posizione a metà strada tra Brindisi e Valona, mentre i due gruppi Szent István e Tegetthoff, nonostante piccoli problemi alla Szent István, che ne ritardarono la marcia, partirono anch’essi alla volta delle posizioni assegnate.

Nel frattempo, il 9 giugno erano partiti da Ancona, per una missione nel medio Adriatico, il MAS 15 del capitano di corvetta Luigi Rizzo e capo timoniere Armando Gori e il MAS 21 del nostro guardiamarina Giuseppe Aonzo.

Fino alle 02:00 del giorno 10 i due MAS dovevano stazionare fra Gruiza e Banco di Selve, in prossimità dell’isola di Premuda, per accertare la presenza di sbarramenti di torpedini; al termine di questa fase dovevano rimanere in agguato fino all’alba per ricongiungersi alle torpediniere d’appoggio.

I ritardi accumulati dal gruppo austriaco comportarono però che, alle 03:15, le unità austriache attraversassero la zona di pattugliamento dei due MAS, che a quell’ora stavano dirigendo da Lutestrago al punto di riunione con le torpediniere.

«Alle 03:15, essendo a circa 6,5 miglia da Lutorstrak avvisto, leggermente a poppavia del traverso e sulla dritta, una grande nuvola di fumo…[…] Decisi perciò di approfittare della luce incerta per prevenire l’attacco e perciò invertivo, seguito dal MAS 21 la rotta dirigendo sulle unità nemiche alla minima velocità. […] Avvicinando il nemico mi accorsi che si trattava di due grosse navi scortate da 8 a 10 cacciatorpediniere […]»
(Rapporto del capitano di corvetta Luigi Rizzo.)

Rizzo, nel tentativo di colpire una delle due grosse navi dalla minima distanza possibile, manovrò tra due caccia che fiancheggiavano la Szent István, aumentò la velocità a 12 nodi, riuscendo a passare fra le siluranti, e, da una distanza non superiore a 300 metri, lanciò entrambi i siluri del MAS.

I due siluri colpirono la nave sollevando alte colonne d’acqua e fumo.

La reazione della torpediniera 76 non si fece attendere: si lanciò all’inseguimento del MAS di Rizzo, aprendo il fuoco da una distanza di 100-150 metri.

Rizzo decise allora di sganciare due bombe antisommergibile, una delle quali scoppiò, inducendo la torpediniera a desistere.

Il MAS 21 di Giuseppe Aonzo lanciò i suoi siluri contro l’altra unità maggiore, la Tegetthoff, da una distanza di 450-500 metri; uno dei siluri colpì la nave, l’altro staccandosi tardivamente dalle tenaglie a causa di un problema tecnico, sfilò a poppavia della corazzata.

Anch’egli fu quindi inseguito da una torpediniera, che riuscì a distanziare per dirigere in sicurezza per il rientro.

La Szent István evidenziò subito dei grossi danni provocati dai siluri del MAS 15; l’acqua penetrò nei locali macchine di prora e di poppa e così si dovettero fermare le macchine.

Ogni quarto d’ora circa lo sbandamento della corazzata cresceva di circa 1° e la Tegetthoff provò più volte a prendere a rimorchio la nave, ma solo alle 05:45 riuscirono a passare la prima gomena, quando lo sbandamento aveva raggiunto i 18° circa.

In quel momento l’inclinazione subì un improvviso aumento e la cima dovette essere recisa; verso le 06:00 la nave iniziò a capovolgersi, per poi affondare del tutto.

Tra gli ufficiali vi furono 1 morto e tre dispersi; tra l’equipaggio i morti furono 13, 72 i dispersi e 29 i feriti.

Alle 07:00 i due MAS raggiunsero Ancona e immediatamente partirono due idrovolanti, che avvistarono alcune unità della classe Tatra in prossimità di isola Grossa e Promontore, con rotta sud.

Alle 9 altri velivoli si alzarono in volo e la ricognizione su Pola confermò l’assenza delle quattro dreadnought.

Gli austriaci, vanificato l’effetto sorpresa su cui era basata l’intera operazione, dovettero rientrare alle loro basi.

Il Tegetthoff rientrò a Pola all’alba dell’11 giugno, così come il gruppo Viribus-Prinz Eugen, che raggiunse il porto alle ore 19.

Giuseppe Aonzo, Luigi Rizzo e Armando Gori avevano appena portato a termine ciò i libri di storia ricorderanno come: L’Impresa di Premuda.

Il contraccolpo psicologico dell’azione di Premuda ebbe grosse ripercussioni sul morale austro-ungarico, tanto che nel restante corso della guerra, la k.u.k. Kriegsmarine non compì più nessuna operazione navale, asserragliando le proprie navi nei porti.

I siluri di Rizzo e Aonzo, con quest’azione, fecero svanire l’elemento sorpresa e troncarono la missione nemica sul nascere, costringendo la flotta austriaca a rinunciare definitivamente all’ambizioso progetto.

L’azione di Premuda convinse inoltre definitivamente gli Alleati a lasciar cadere la questione relativa all’istituzione dei comandi navali in Mediterraneo, lasciando il totale controllo dell’Adriatico all’Italia.

A dimostrazione del grande risultato dell’azione dei MAS, il Comandante in Capo della Grand Fleet, l’ammiraglio inglese David Beatty, fece giungere all’ammiraglio Lorenzo Cusani, comandante della flotta italiana, il seguente telegramma: «La Grand Fleet porge le più sentite congratulazioni alla flotta italiana per la splendida impresa condotta con tanto valore e tanta audacia contro il nemico austriaco».

A riconoscimento dell’eroismo dimostrato in azione, il capitano Luigi Rizzo venne insignito della Croce di Cavaliere dell’Ordine Militare di Savoia, ma in seguito al suo rifiuto per i suoi ideali repubblicani, l’onorificenza fu commutata in una medaglia d’oro al valor militare, onorificenza che venne assegnata anche al guardiamarina Aonzo con queste parole: «Comandante di piccola silurante in perlustrazione nelle acque di Dalmazia, assecondava con pronta intelligenza, immediata decisione e mirabile ardimento il comandante della sua sezione nel portare a fondo l’attacco contro una poderosa forza navale nemica. Superata la linea fortissima delle scorte, procedeva risolutamente all’attacco di una delle corazzate e, con animo gagliardo, straordinaria abilità e fortunata audacia, lo portava a compimento esplicando così le più belle doti di perizia militare e marinaresca.»

Dopo la fine della prima guerra mondiale gli fu concesso dalla Regia Marina, su sua richiesta, il congedo per ritornare a solcare i mari al comando delle petroliere.

Dal 16 agosto 1940, con il grado di capitano di fregata di complemento, partecipò alla seconda guerra mondiale al comando dei piroscafi Rossigni, Italia e Diamante.

Terminato il conflitto, fu trasferito nella riserva per raggiunti limiti di età e il 24 maggio 1945, esattamente trent’anni dopo lo scoppio della prima guerra mondiale, riprese il suo lavoro alla Standard Oil, che nel frattempo era diventata Esso Standard.

Morì a Savona il 1º gennaio 1954. Il 22 settembre 2007 la caserma della Capitaneria di porto di Savona è stata intitolata a Giuseppe Aonzo.

Il 13 marzo 1939 la Marina Militare, allora Regia Marina, decise la data ufficiale per celebrare la propria festa, e scelse il 10 giugno, come ancora oggi è, in ricordo dell’azione compiuta nel corso della prima guerra mondiale che viene ricordata come l’impresa di Premuda.

Ma questa, è un’altra storia.

https://www.youtube.com/watch?v=aci3eX4Qdeo

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Emmy, Oscar, Blakie – Valorosi felini

S:1 – Ep.20

Emmy Oscar Blackie è una persona qualunque.

No, questa volta non possiamo dirlo perché Emmy, Oscar e Blakie erano tre GATTI qualunque.

Durante la Prima guerra mondiale furono circa 500.000 i gatti presenti al fronte, nelle trincee e sulle navi da guerra.

Il loro compito ufficiale era quello di dare la caccia ai topi, benché alcuni fossero utilizzati per rilevare i gas venefici.

Emmy era il gatto di bordo della RMS Empress of Ireland.

Era una gatta soriana arancione che non aveva mai perso un viaggio.

Tuttavia, il 28 maggio 1914, Emmy scese dalla nave mentre era in porto a Quebec City.

L’equipaggio la riportò sulla nave, ma la gatta se ne andò di nuovo.

La Empress of Ireland salpò senza di lei e questo fu considerato dall’equipaggio un terribile presagio.

La mattina dopo la nave entrò in collisione con il mercantile norvegese Storstad mentre attraversava la foce del fiume San Lorenzo, in mezzo alla nebbia.

Affondò rapidamente, uccidendo 1 012 persone, ma non Emmy.

Sulle navi la presenza dei gatti era quasi obbligatoria, per questioni igieniche, cacciando i topi ed evitando che andassero a contaminare i cibi nelle stive, e per questioni psicologiche, in quanto oggi noi chiameremo pet therapy il conforto che un gatto apportava agli uomini psicologicamente debilitati dai lunghi viaggi in mezzo al mare.

Prima dell’inizio della seconda guerra mondiale ci fu il riarmo della Bismarck in funzione di un nuovo sviluppo della Kriegsmarine dopo che Hitler denunciò gli accordi anglo-tedeschi relativi alle limitazioni agli armamenti e dopo che erano decadute le precedenti limitazioni imposte dal Trattato di Versailles.

Il piano di riarmo navale tedesco prevedeva un numero di grandi navi che non poteva competere con la Royal Navy, ma che fosse qualitativamente all’avanguardia.

Tra i risultati di questa politica vi fu una corazzata che poteva considerarsi tra le più potenti del suo tempo.

Il varo della Bismarck avvenne il 14 febbraio 1939 ad Amburgo alla presenza di Hitler, Raeder, Keitel, Göring, Goebbels, Hess, Ribbentrop, Himmler, Bormann e von Schirach, a sottolineare l’importanza che si dava all’evento.

Il comandante dell’OKM (Oberkommando der Marine), ammiraglio Raeder, decise di utilizzare la Bismarck per proteggere le navi di superficie da interferenze delle corazzate britanniche, oltre che, naturalmente, per attaccare i mercantili che rifornivano la Gran Bretagna.

L’esecuzione dell’operazione Rheinübung prevedeva il grado massimo di segretezza, ma la squadra fu avvistata dall’incrociatore svedese Gotland, quindi l’ambasciata inglese a Stoccolma ne fu immediatamente informata.

Immediatamente iniziò il pattugliamento del mare del Nord da parte della Home Fleet, ma la squadra fu avvistata in un fiordo presso Bergen dalla ricognizione della RAF.

La Royal Navy mosse immediatamente l’Hood e la Prince of Wales da Scapa Flow per averle in area di operazioni appena la Bismarck fosse stata intercettata.

La squadra tedesca fu avvistata il 24 maggio 1941 l’Hood apriva il fuoco sul Prinz Eugen, dando inizio alla battaglia dello Stretto di Danimarca.

Ma la Hood venne centrata, un proiettile perforò i pontoni corazzati e scoppiò in una santabarbara contenente i proiettili e provocando un’enorme esplosione che spezzò in due parti la nave inglese.

L’Hood affondava con tutto il suo equipaggio (3 superstiti), e la Bismarck e il Prinz Eugen cessavano il fuoco sulla Prince of Wales, che, pesantemente danneggiata, rompeva il contatto con la squadra tedesca ritirandosi.

Nel corso del combattimento la Bismarck aveva incassato tre colpi dalla Prince of Wales: mentre due di questi avevano provocato danni non troppo pesanti, il terzo però aveva provocato una perdita di nafta e un allagamento dei serbatoi che impedivano alla nave di tenere la piena velocità; la Bismarck quindi dovette puntare su un porto amico.

Appena fu noto l’esito della battaglia dello Stretto di Danimarca, l’Ammiragliato inglese spostò tutte le navi che aveva a disposizione nell’Atlantico, dalla King George V fino alle vecchie corazzate della Prima guerra mondiale.

Alla Bismark mancavano meno di 700 miglia per raggiungere Brest, ma non sarebbero state miglia facili con tutte le forze britanniche disponibili che convergevano verso di lei.

Individuata, l’Ark Royal lanciò gli Swordfish che giunsero a contatto con la nave tedesca.

Gli aerosiluranti misero a segno due colpi, uno a centro nave che, esplodendo sulla cintura corazzata, non provocò danni, e uno sulla poppa che segnò il destino della Bismarck danneggiando il meccanismo di controllo del timone, che rimase bloccato.

La Home Fleet arrivò. La prima nave ad aprire il fuoco fu il Rodney seguito dopo un minuto dalla King George V, quest’ultima non riuscì a colpire il bersaglio con le sue artiglierie mentre il Rodney aveva messo sulla Bismarck 4 colpi provocando danni che, uniti ad altri due colpi che arrivarono dalla King George V successivamente, a prua e a poppa, trasformò la Bismarck in un pontone per il tiro delle navi britanniche, ormai ravvicinate a meno di 9 km: a quel punto circa 300 colpi centrarono la nave tedesca.

Alle 10.36 del 27 maggio la Bismarck scomparve sotto la superficie del mare, con le eliche ancora in moto e la bandiera da guerra a picco, solo 116 persone su un equipaggio di oltre 2 200 sopravvissero e assieme a loro c’era anche Oscar.

Oscar, soprannominato poi Sam l’inaffondabile, fu il gatto di bordo della corazzata tedesca Bismarck.

Quando fu affondata, Oscar fu catturato dal cacciatorpediniere Cossack, una delle navi responsabili della distruzione di Bismarck.

Il 24 ottobre seguente, 5 mesi dopo aver affondato la Bismark, mentre scortava un convoglio diretto da Gibilterra al Regno Unito, la Cossack venne colpita da un siluro lanciato dall’U-Boot U-563 tedesco, comandato da Klaus Bargsten, che uccise 159 uomini dell’equipaggio compreso il capitano.

Venne presa a rimorchio da un rimorchiatore che iniziò il traino verso Gibilterra, reso impossibile il giorno seguente dal peggiorare delle condizioni atmosferiche, la nave affondò il 27 ottobre nell’Atlantico circa 100 miglia ad ovest di Gibilterra, ma Oscar se la cavò anche in questa occasione e, salvato assieme ai pochi uomini sopravvissuti, divenne il gatto della nave della portaerei Royal.

Il 13 novembre 1941, due settimane dopo l’affondamento della Cossak, mentre ritornava a Gibilterra da una missione, la Ark Royal venne colpita da un siluro lanciato dal sommergibile tedesco U-81 al comando del Kapitänleutnant Friedrich Guggenberger.

Il progressivo allagamento istantaneo soffocò le prese delle caldaie, cosicché la nave, non equipaggiata con motori Diesel di riserva, perse ogni fonte di alimentazione, compresa quella destinata alle pompe.

Venne ordinato alla HMS Legion di raccogliere tutti i 1487 membri dell’equipaggio, e Oscar che ancora una volta si salvò dall’ennesimo affondamento, e di trasportarli a Gibilterra.

Ormai conosciuto come Unsinkable Sam per essere sopravvissuto ai tre affondamenti delle navi, gli fu dato un nuovo lavoro come cacciatore di topi negli edifici per uffici del Governatore Generale di Gibilterra.

Forse era giunto il momento di non mettere più Oscar su nessuna nave.

Sulla Prince of Wales, la nave pesantemente danneggiata dalla Bismark nella battaglia dello stretto di Danimarca c’era anche Blackie, il gatto di bordo.

Dopo che fu rimessa in sesto, la HMS Prince of Wales, durante il secondo conflitto, raggiunge fama mondiale perché portò il Primo ministro Winston Churchill attraverso l’Atlantico dove, nell’agosto 1941, si incontrò segretamente con il Presidente statunitense Roosevelt per diversi giorni in un porto sicuro.

Questo incontro ha portato alla dichiarazione della Carta Atlantica, ma mentre Churchill stava per risalire sulla Prince of Wales, Blackie si avvicinò.

Churchill si chinò per dire addio a Blackie, e il momento fu fotografato e riportato nei media mondiali.

Il 10 dicembre 1941, scatenando immediatamente nuovi frenetici preparativi per sferrare finalmente un attacco in forze per distruggere le navi da battaglia nemiche, l’ammiraglio giapponese Matsunaga organizzò una formazione da ricognizione con nove aerei Nell e due Aichi E10A Hank, per agganciare con sicurezza la squadra britannica; poi, senza attendere nuove notizie più precise sui rilevamenti, fece partire le forze di attacco principali.

Un ultimo attacco di bombardieri Nell della 6ª squadriglia del Kokutai Mihoro, sferrato con bombe, mise ancora a segno un colpo (nonostante la Prince of Wales rispondesse sempre al fuoco), assestando il colpo di grazia alla corazzata ammiraglia.

La Prince of Wales, che aveva ormai imbarcato oltre 18.000 tonnellate di acqua, si inclinò a dritta e si capovolse; il cacciatorpediniere Express si era già avvicinato per recuperare l’equipaggio e per poco non fu rovesciato dalla deriva antirollio della corazzata; ma fortunatamente permise di salvare molti più uomini: i morti furono alla fine 327 su un equipaggio di 1.612 ufficiali e marinai.

La nave affondò a 65 miglia a sud-est di Kuan-Tan, portando con sé anche il comandante Leach e l’ammiraglio Phillips ma non Blackie che sopravvisse all’affondamento della Prince of Wales da parte dell’aviazione giapponese e fu portato a Singapore con i 1612 sopravvissuti.

Ma prima di Emmy, Oscar e Blackie ci fù Jenny che era il nome del gatto della nave a bordo del Titanic, fu trasferita dalla imbarcazione gemella del Titanic, la Olympic e partorì la settimana prima che il Titanic salpasse da Southampton.

Abitualmente Jenny e i suoi cuccioli stavano nella cambusa, accuditi dai camerieri che li nutrivano con gli avanzi di cucina, non è noto il destino di Jenny e della sua cucciolata ma secondo il racconto dello sguattero che l’aveva adottata, Jim Mulholland, allo scalo di Southampton Jenny trasportò i gattini a terra prima di sbarcare lei stessa.

Questa azione premonitrice avrebbe convinto lo stesso Mulholland a sbarcare, rimanendo a Southampton, il Titanic salpò per il suo viaggio inaugurale e sappiamo tutti come andò a finire.

Ma questa, è un’altra storia.

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Margaretha Zelle – La danzatrice di Shiva

S:1 – Ep.19

Margaretha Geertruida Zelle è una persona qualunque.

Figlia di Adam Zelle che possedeva un negozio di cappelli ed era proprietario di un mulino e di una fattoria e di Antje van der Meulen, aveva tre fratelli.

Margaretha aveva una carnagione scura e i capelli e gli occhi neri, caratteristiche fisiche che la differenziavano notevolmente dai suoi connazionali olandesi.

Nel 1889 gli affari del padre incominciarono ad andar male, tanto da costringerlo a cedere la sua attività commerciale ed il dissesto economico provocò dissapori nella famiglia che portarono alla separazione dei coniugi e al trasferimento del padre ad Amsterdam, la madre morì l’anno dopo.

Nel 1895 Margaretha rispose all’inserzione matrimoniale di un ufficiale, il capitano Rudolph Mac Leod che viveva ad Amsterdam, in licenza di convalescenza dalle colonie d’Indonesia e l’11 luglio 1896, ottenuto anche il consenso paterno, Margaretha sposò il capitano Mac Leod.

Abitarono inizialmente ad Amsterdam, ebbero un figlio e poi si trasferirono a Giava dove il capitano riprese il servizio attivo.

L’anno dopo si spostarono vicino a Malang, dove il 2 maggio 1898 nacque una figlia ma presto la famiglia venne sconvolta dalla tragedia della morte del piccolo primogenito Norman, che morì avvelenato.

La causa non fu mai scoperta pienamente, pare una medicina somministrata dalla domestica indigena ai figli della coppia, moglie di un subalterno del neo promosso al grado di maggiore Mac Leod che gli aveva inflitto una punizione.

Rudolph, Margaretha e la piccola Non, si dislocarono nuovamente a Giava, dove il maggiore Mac Leod, raggiunta la maturazione della pensione, il 2 ottobre 1900 diede le dimissioni dall’esercito e cedendo forse alle richieste della moglie, riportò, agli inizi del 1902, la famiglia nei Paesi Bassi.

Sbarcati ad Amsterdam i due coniugi tornarono per breve tempo a vivere nella casa di Louise Mac Leod, sorella del maggiore, e poi per loro conto in un appartamento ma Margaretha fu lasciata dal marito, chiedendo la separazione e affidando la figlia al padre di lei.

Decisa a tentare l’avventura della grande città, nel marzo del 1903, Margaretha andò a Parigi, dove non conosceva nessuno: molto bella d’aspetto cercò di mantenersi facendo la modella presso un pittore e cercando scritture nei teatri, ma con risultati alquanto deludenti.

Forse giunse anche a prostituirsi per sopravvivere, nella vana attesa del successo.

Il fallimento dei suoi tentativi la convinse a tornare nei Paesi Bassi, ma l’anno seguente tornò nuovamente a Parigi e prese alloggio al Grand Hotel, divenendo l’amante del barone Henri de Marguérie.

Presentatasi dal signor Molier, proprietario di un’importante scuola di equitazione e di un circo, Margaretha, che in effetti aveva imparato a cavalcare a Giava, si offrì di lavorare e, poiché una bella amazzone può essere un’attrazione, fu accettata.

Ebbe successo e una sera si esibì durante una festa in casa del Molier in una danza giavanese, o qualcosa che sembrava somigliarle: Molier rimase entusiasta di lei.

La sua danza era, a suo dire, quella delle sacerdotesse del dio orientale Shiva, che mimavano un approccio amoroso verso la divinità, fino a spogliarsi, un velo dopo l’altro, del tutto, o quasi.

Trasferitasi in un più modesto alloggio, una pensione presso gli Champs-Élysées, sempre a spese del Marguérie, il suo vero esordio avvenne nel febbraio 1905 in casa della cantante Kiréevsky, che usava invitare i suoi ricchi amici e conoscenti a spettacoli di beneficenza.

Il successo fu tale che i giornali arrivarono a parlarne: lady Mac Leod, come ora si faceva chiamare, replicò il successo in altre esibizioni, ancora tenute in case private dove più facilmente poteva togliersi i veli del suo costume, e la sua fama di «danzatrice venuta dall’Oriente» incominciò a estendersi per tutta Parigi.

Notata da monsieur Guimet, industriale e collezionista di oggetti d’arte orientali, ricevette da questi la proposta di esibirsi in place de Jéna, era però necessario cambiare il suo nome, troppo borghese ed europeo: così Guimet scelse il nome, d’origine malese, di Mata Hari.

Mata Hari alternò le esibizioni tenute nelle case esclusive di aristocratici e finanzieri, agli spettacoli nei locali prestigiosi di Parigi, appariva vestita con sottili veli traslucidi dei quali si spogliava uno dopo l’altro durante l’esibizione, finché non le rimanevano solo i gioielli orientali che portava e, sebbene il suo numero consistesse nello spogliarsi lentamente, lei non mostrò mai il suo piccolo seno nudo, perché la imbarazzava.

Mentre l’esercito tedesco invadeva il Belgio per svolgere quell’operazione a tenaglia che, con l’accerchiamento delle forze armate francesi, avrebbe dovuto concludere rapidamente la guerra, Mata Hari era già partita per la Svizzera, da dove contava di rientrare in Francia; tuttavia, mentre i suoi bagagli proseguirono il viaggio verso la terra francese, lei venne trattenuta alla frontiera e rimandata a Berlino.

Il 14 agosto 1914, il funzionario del consolato olandese rilasciò a Margaretha Geertuida Zelle, «alta un metro e settantacinque», di capelli, in quell’occasione, biondi, il visto per raggiungere Amsterdam.

Divenuta prima l’amante del banchiere van der Schalk e poi, dopo il trasferimento a L’Aia, del barone Eduard Willem van der Capellen, il 24 dicembre 1915 Mata Hari tornò a Parigi, per recuperare il suo bagaglio e tentare, nuovamente invano, di ottenere una scrittura da Djagilev, ebbe appena il tempo di divenire amante del maggiore belga Fernand Beaufort che, alla scadenza del permesso di soggiorno, il 4 gennaio 1916, dovette fare ritorno nei Paesi Bassi.

Furono frequenti le visite nella sua casa de L’Aia del console tedesco Alfred von Kremer, che proprio in questo periodo l’avrebbe assoldata come spia al servizio della Germania per avere informazioni sull’aeroporto di Vittel, in Francia, dove ella poteva recarsi col pretesto di far visita al suo ennesimo amante, il capitano russo Vadim Masslov, ricoverato nell’ospedale di quella città.

Ma la ballerina in quel periodo era già sorvegliata dal controspionaggio inglese e francese quando, il 24 maggio 1916, partì per la Spagna e da qui, il 14 giugno, per Parigi dove tramite un ex-amante, il tenente di cavalleria Jean Hallaure, che era anche, senza che lei lo sapesse, un agente francese, il 10 agosto si mise in contatto con il capitano Georges Ladoux, capo di una sezione di controspionaggio francese, per ottenere il permesso di recarsi a Vittel.

Ladoux le concesse il visto e le propose di entrare al servizio della Francia, proposta che Mata Hari accettò, chiedendo l’enorme cifra di un milione di franchi, giustificata dalle conoscenze importanti che ella vantava e che sarebbero potute tornare utili alla causa francese.

Qui, oltre a inviare informazioni sulla sua missione agli agenti tedeschi nei Paesi Bassi e in Germania, ricevette anche istruzioni dal capitano Ladoux di tornare nei Paesi Bassi via Spagna, ma durante una sosta della nave a Falmouth, nel Regno Unito, fu arrestata perché scambiata con una ballerina di flamenco, Clara Benedix, sospetta spia tedesca.

Interrogata a Londra e chiarito l’equivoco, dopo accordi presi con Ladoux, Scotland Yard la respinse in Spagna, sbarcò l’11 dicembre 1916.

A Madrid continuò il doppio gioco, mantenendosi in contatto sia con l’addetto militare all’ambasciata tedesca, Arnold von Kalle, sia con quello dell’ambasciata francese, il colonnello Joseph Denvignes, al quale riferì di manovre dei sottomarini tedeschi al largo delle coste del Marocco.

Il von Kalle comprese che Mata Hari stava facendo il doppio gioco e telegrafò a Berlino che «l’agente H21» chiedeva denaro ed era in attesa di istruzioni: la risposta fu che l’agente H21 doveva rientrare in Francia per continuare le sue missioni e ricevervi 15 000 franchi.

Il 2 gennaio 1917 Mata Hari rientrò a Parigi e la mattina del 13 febbraio venne arrestata nella sua camera dell’albergo Élysée Palace dal capo della polizia Priolet con cinque ispettori e rinchiusa nella prigione di Saint-Lazare, von Kalle l’aveva venduta ai francesi.

Di fronte al titolare dell’inchiesta, Mata Hari adottò inizialmente la tattica di negare ogni cosa, dichiarandosi totalmente estranea a ogni vicenda di spionaggio, ma poi, con il passare dei giorni, Mata Hari non riuscì a giustificare agli occhi della Corte le somme che il van der Capelen, suo amante, le inviava dai Paesi Bassi, né le somme ricevute a Madrid dal von Kalle, che tentò di giustificare come semplici regali.

Dovette anche rivelare un particolare inedito, ossia l’offerta ricevuta in Spagna di lasciarsi ingaggiare come agente dello spionaggio russo in Austria.

Riferì anche della proposta fattale dal capitano Ladoux di lavorare per la Francia, una proposta che cercò di sfruttare a suo vantaggio, come dimostrazione della propria lealtà nei confronti della sua amata Francia.

L’accusa non aveva, fino a questo momento, alcuna prova concreta contro Mata Hari, la quale poteva anzi vantare di essersi messa a disposizione dello spionaggio francese.

Il fatto è che il controspionaggio non aveva ancora messo a disposizione del capitano Bouchardon le trascrizioni dei messaggi tedeschi intercettati che la indicavano come l’agente tedesco H21.

Quando lo fece, due mesi dopo, Mata Hari dovette ammettere di essere stata ingaggiata dai tedeschi, di aver ricevuto inchiostro simpatico per comunicare le sue informazioni, ma di non averlo mai usato e di non avere trasmesso nulla ai tedeschi, malgrado i 20.000 franchi ricevuti dal console von Kramer che ella, sostenne, considerò solo un risarcimento per i disagi patiti durante la sua permanenza in Germania nei primi giorni di guerra.

I tanti ufficiali francesi dei quali fu amante, interrogati, la difesero, dichiarando di non averla mai considerata una spia.

Al contrario, il capitano Georges Ladoux negò di averle mai proposto di lavorare per i servizi francesi, avendola sempre considerata una spia tedesca.

Il processo, tenuto a porte chiuse, ebbe inizio il 24 luglio e dopo meno di un’ora venne emessa la sentenza secondo la quale l’imputata era colpevole di tutte le otto accuse mossele: «In nome del popolo francese, il Consiglio condanna all’unanimità la suddetta Zelle Marguerite Gertrude alla pena di morte».

Il 15 ottobre, ricambiato più volte il saluto con cortesi cenni del capo, fu blandamente legata al palo; rifiutata la benda, poté fissare di fronte a sé i dodici fanti ai quali era stato assegnato il compito di giustiziarla: uno di essi, secondo regola, aveva il fucile caricato a salve, ma gli altri no.

Morì per fucilazione portando con sé i suoi segreti.

Ma questa, è un’altra storia.

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Walt Disney – Fantasia e realtà

S:1 – Ep.18

Walt Disney è una persona qualunque.

Parlare di Walt Disney nel contesto del pre e post periodo della grande guerra non è facile tenendo conto dell’importanza, anche questa volta, del peso del nome di questa persona qualunque ma come abbiamo fatto con Houdinì e Hemingway, ci proveremo comunque.

Walt Disney, vero nome Walter Elias Disney Jr nasce a Chicago il 5 dicembre 1901 da Flora Call ed Elias Disney; quarto di cinque figli, il padre era di discendenza inglese e precedentemente francese, la madre di discendenza tedesca.

Nel 1918, mentre in Europa imperversava la prima guerra mondiale, lasciò la scuola e si impegnò come autista volontario di ambulanze dopo aver modificato, con l’aiuto di un amico, la data di nascita indicata sul passaporto in modo da poter essere reclutato.

Fece parte della divisione delle ambulanze della Croce Rossa statunitense in Francia fino al 1919.

Questo, molto semplicemente, fu l’impegno di Walt Disney durante la grande guerra, niente di eclatante o eroico sia ben chiaro, ma comunque lui volle andare, perfino falsificando il suo documento, lui ci andò.

Tralasceremo quella sua parte stupenda di vita in cui diventa un famoso vignettista e autore di cortometraggi, in cui fonda società che rivoluzionarono poi il mondo del cinema, in cui ancora detiene il record di Premi Oscar vinti avendone ricevuti, in 34 anni di carriera per i suoi cortometraggi e documentari, 26 statuette su 59 candidature totali di cui tre onorari e un Premio alla memoria Irving G. Thalberg e, nel 1956, un David di Donatello per il miglior produttore straniero per Lilli e il vagabondo.

Gli Oscar onorari gli furono assegnati, nel primo caso, per la creazione di Topolino; e nel secondo, per Biancaneve e i sette nani, «riconosciuto come un’innovazione cinematografica significativa che ha incantato milioni di persone ed è stato pioniere di una nuova area d’intrattenimento nel campo del cartone animato»; e, infine, «per lo sbalorditivo contributo all’avanzamento dell’uso del sonoro nel cartone animato, grazie alla produzione di Fantasia».

Fu candidato per tre volte ai Golden Globes, ma ne ricevette solo due onorari, per Bambi (1942) e Deserto che vive (1953), oltre al Cecil B. DeMille Award nello stesso anno.

Otto pellicole da lui prodotte sono state inserite nella Biblioteca del Congresso venendo ritenute «culturalmente, storicamente ed esteticamente significative»: Steamboat Willie (1928), I tre porcellini (1933), Biancaneve e i sette nani (1937), Fantasia, Pinocchio (1940), Dumbo (1941), Bambi (1942) e Mary Poppins (1964), l’unico dopo la fine della seconda guerra mondiale.

Per cosa ne parleremo allora?

Sappiamo tutti che, dopo la prima guerra mondiale, ci fu il nazionalsocialismo hitleriano in Germania e l’italico fascismo mussoliniano che ci portò al secondo conflitto mondiale.

Le voci secondo cui Walt Disney fosse un antisemita sessista razzista simpatizzante nazista abbondano, ed è ormai un’idea radicata nella testa di molti che queste non siano solo voci, ma in realtà: da dove nascono?

La più famosa accusa, quella della sua simpatia per la filosofia Hitleriana, è forse quella relativa all’incontro con Leni Riefenstahl.

La Riefenstahl aveva realizzato nel 1934 Il Trionfo della Volontà, forse il più famoso – e da quel punto di vista, riuscito – film di propaganda nazista in assoluto, la sua amicizia con Adolf Hitler era così acclarata da farle guadagnare nel tempo il triste appellativo di “regista del Reich”, poi girò Olympia che è il film-documentario sulle Olimpiadi di Berlino del 1936, passate alla Storia per essere le Olimpiadi dove Hitler mostrò al mondo intero la potenza del Terzo Reich e dove l’esaltazione del nazismo era presente in ogni singolo momento delle competizioni.

Da allora le riprese di un evento sportivo si conformarono alla sua regia, che praticamente inventò la cerimonia dell’accensione della torcia olimpica e diede il via a innovazioni tecniche sia dal punto di vista delle riprese che del montaggio, pensate che il carrello per la macchina da presa posto all’interno degli stadi per riprendere gli atleti, soluzione usata ancora oggi, è nato lì.

Disney la incontrò poco dopo la famigerata Kristallnacht, la Notte dei Cristalli che vide la Gestapo e le SS rendersi protagoniste di una notte di devastazione e deportazione ai danni delle persone di religione ebraica in Germania, Cecoslovacchia e Austria.

Ma bisogna tenere conto che erano entrambi grossi imprenditori dello spettacolo e, con le dovute distinzioni, entrambi lavoravano come cineasti alla costruzione della propaganda per il proprio paese, oltretutto, nella Germania di Hitler i film americani erano banditi, in quanto secondo il Führer “Hollywood era controllata dagli ebrei”.

L’anno prima, nel 1937, Walt Disney e il fratello Roy si erano recati in Germania durante un tour europeo volto a promuovere Biancaneve e i sette nani e a quanto pare cercarono di fare pressioni affinché il divieto venisse tolto, o almeno ammorbidito, ma senza successo.

Girano molti frame accusatori che vedono i personaggi Disney in uniforme nazista, cortometraggi con svastiche, bambini dal tratto inconfondibilmente disneyano ritratti a braccio teso e altre nefandezze simili ma in questo caso basterebbe informarsi un minimo per scoprire che quelle immagini fanno tutte parte di una serie di film propagandistici contro il nazismo realizzati dal Walt Disney Studio.

Education for Death: The Making of the Nazi (1943) è uno dei 32 cortometraggi commissionati dal governo americano alla Disney tra il 41 e il 45, con lo scopo di sensibilizzare il popolo statunitense contro le posizioni assolutiste del Reich nazista.

Altre immagini note sono quelle di Paperino che legge il Mein Kampf, il famoso libro-manifesto di Adolf Hitler, ma anche in questo caso si tratta di tutto l’opposto, infatti il film si intitola Der Fuehrer’s Face e si fa bellamente beffa del dittatore tedesco, in una storia che vede il papero fare un incubo nel quale si trova a lavorare per la Germania nazista, salvo poi svegliarsi e abbracciare la Statua della Libertà.

Il corto, di 8 minuti, si conclude con un primissimo piano di Hitler che si prende un pomodoro in faccia, ai Premi Oscar del 1943 vinse la statuetta per il Miglior Cortometraggio di Animazione.

Difficile anche in questo caso pensare che i premi conferiti dall’Academy of Motion Picture Arts and Sciences (AMPAS), un’organizzazione professionale onoraria costituita da personalità (per lo più statunitensi) che hanno portato avanti la loro carriera nel mondo del cinema quali attori, registi, produttori e altre professioni cinematografiche, e quindi, in quel periodo storico in guerra CONTRO l’invasione nazista, avrebbero premiato un filmato che la sostenesse.

E l’antisemitismo? Esiste una famosa scena ne I Tre Porcellini (1933) dove il Lupo Ezechiele si traveste da venditore ambulante ebreo, conciato con tutti gli stereotipi razzisti del caso.

La scena fu successivamente modificata, rianimando il personaggio e lasciandogli l’accento yiddish e in seguito fu ammorbidita ancora di più, attualmente le versioni in vendita mostrano un aspetto del lupo ben diverso da quello iniziale.

Su questo c’è ben poco da dire: la presa in giro razziale è evidente, ma è altrettanto evidente che all’epoca tutti gli studios statunitensi, non solo di animazione, calcavano la mano sugli stereotipi razzisti, facendosi beffe di ebrei, neri e italiani e Disney, in questo, non era differente.

Ma parliamo dello stesso Walt Disney che a libro paga aveva parecchi lavoratori ebrei che non hanno mai, nemmeno se pungolati in interviste atte a dimostrare il contrario, avuto niente da ridire sul proprio datore di lavoro, descritto come persona gentile e disponibile nei confronti di chiunque.

Parliamo dello stesso Walt Disney che nel 1955 venne insignito del premio “Uomo dell’Anno” dall’Organizzazione B’nai B’rith, la più antica e potente associazione ebraica che si occupa di diritti civili, arduo credere che si siano sbagliati premiando un antisemita.

Sulle accuse di razzismo ci sono anche sotto la lente di ingrandimento i corvacci neri di Dumbo, altro stereotipo razziale: era il 1940 e nel 1946, una massiccia campagna di Disney nei confronti dell’Academy, fece sì che a James Baskett, protagonista nero de I racconti dello Zio Tom, venisse assegnato un Oscar onorario, si tratta del primo Premio Oscar onorario assegnato in assoluto a un attore afroamericano e fu merito di Disney.

Abbiamo la prova di una lettera inviata dalla Walt Disney Productions nel 1938 a Mary V. Ford, una ragazza che aveva mandato il curriculum all’azienda.

Le viene risposto che in Disney alle donne non era concesso di lavorare nel processo artistico perché quello era un compito affidato ai “giovani uomini”, e che quindi qualunque domanda da parte di una donna per entrare nella scuola Disney non veniva presa in considerazione.

Le donne si occupavano di inchiostrare e dipingere i fotogrammi creati e disegnati dagli uomini, Sessismo?

Puro ed evidente ma negli Stati Uniti com’era la situazione del lavoro femminile fino al 1938?

Identica.

Prima della Seconda Guerra Mondiale il lavoro femminile veniva scoraggiato, in quanto ritenuto degradante per la figura della donna che doveva essere mantenuta dall’uomo.

Le donne lavoratrici appartenevano per lo più alle classi meno agiate e le poche del ceto medio che lavoravano lo facevano negli ambiti valutati “per le donne”: erano insegnanti, sarte, modiste.

Gli uomini inoltre erano preoccupati da due cose: pensavano che l’ingresso delle donne nel mondo del lavoro avrebbe aumentato la concorrenza e di conseguenza diminuito i loro salari, e pensavano che se le donne avessero iniziato a lavorare avrebbero dedicato meno tempo e attenzione alle cose per le quali invece erano destinate: la cura della casa e la crescita dei figli.

E, onestamente, in quegli anni questa filosofia non era solo rinchiusa nei confini degli Stati Uniti ma diffusa anche in tutta Europa, pensate solo cosa aveva scritto Hitler sul suo Mein Kampf o cosa diffondeva Mussolini nei suoi discorsi per rendersene conto di persona.

Inutile dire che la Seconda Guerra Mondiale rivoluzionò tutto quanto, per forza di cose.

Ma questa, è un’altra storia.

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Remo Pontecorvo – Il caimano del Piave

S:1 – Ep.17

Remo Pontecorvo è una persona qualunque.

Pontecorvo era un ragazzo romano, vigoroso ed agile che fin da bambino dimostrò “attitudine” verso l’acqua del suo Tevere, sia attraverso il nuoto, che attraverso il canottaggio.

Arruolatosi nell’esercito inizialmente come Bersagliere in Libia nel 1911, divenne poi Capitano nella Prima Divisione d’Assalto, nata pochissimi giorni prima della Battaglia del Solstizio, di un nucleo di Arditi nuotatori.

Tra l’altro, al fronte, perse l’amato fratello Decio.

Riconosciuta dopo questa Battaglia la necessità di un corpo speciale di nuotatori, per quattro mesi continui Remo Pontecorvo, assunto l’incarico dal generale Ottavio Zoppi, giorno e notte, sotto piogge battenti e con temperature rigide, non si dette riposo finché non fu pronto un manipolo di “Caimani”.

Vi parteciparono elementi provenienti dalle Fiamme Nere e dalle Fiamme Rosse, quali il Sotto Tenente Bizzarri, il Tenente Minasi, il Tenente De Carolis, il Tenente Bettagna, il Tenente Borghi ed il Tenente Frabasile, non mancò nemmeno il famosissimo Ettore Muti, ribattezzato in seguito da D’Annunzio, Gim dagli occhi verdi.

Dei 400 e più volontari offertisi da tutti i reparti della Prima Divisione d’Assalto, solo 82 riuscirono a superare le prove di abilità e di allenamento nelle acque dei fiumi veneti Bacchiglione, Brenta e Sile diventando così “i caimani del Piave”.

Successivamente di questi 82 “incursori” ben 50 perirono in missioni militari.

Ma chi erano i “caimani del Piave”?

I Caimani del Piave, o Caimani Neri del Piave, furono un reparto di fanteria di marina, composto da nuotatori addestrati per attraversare i fiumi a nuoto allo scopo di condurre ricognizioni, azioni di sabotaggio o portare ordini, impiegato da parte italiana durante la prima guerra mondiale sul fronte del Piave.

Essi erano uno speciale reparto di volontari composto originariamente dai migliori elementi della Brigata “Marina” poi ribattezzata San Marco della Regia Marina, posti al comando dell’allora capitano di corvetta Vittorio Tur comandante del Battaglione “Caorle”.

L’armamento principale era costituito da un pugnale, la divisa era costituita da semplici calzoncini da bagno.

Conducendo azioni per lo più notturne, inoltre, erano soliti ricoprirsi con una mistura di grasso per proteggersi dal freddo, e nerofumo per mimetizzarsi nel buio, inoltre indossavano, quando non si immergevano, un’uniforme completamente nera dalla testa ai piedi, probabilmente derivata dall’ uniforme da fatica della Marina, per favorire le azioni notturne oltre le linee nemiche, da qui il nome “I caimani NERI del Piave”.

Negli anni di inizio secolo per la formazione al combattimento corpo a corpo i marinai della Regia Marina, già destinati in Estremo Oriente, erano divenuti qualificati esperti di jujutsu e judo e, alcuni di questi esperti secondo quanto il Comandante Tur raccontava agli allievi delle Scuole di Pola nel 1928, erano stati utilizzati in qualità di istruttori dello speciale nucleo di arditi.

Così i “Caimani” con piccole zattere parzialmente sommerse, usate principalmente per trasportare bombe a mano e materiali e fatte avanzare con il solo movimento dei piedi, raggiungevano la riva opposta del fiume per esplorarne i luoghi nella tenebra più completa, cercando di individuare le postazioni nemiche.

Quando un obiettivo adatto veniva individuato, si provvedeva a neutralizzarne tutte le sentinelle, silenziosamente, con le armi bianche.

L’avamposto, colto di sorpresa, con azione decisa e rapidissima veniva assaltato e distrutto a colpi di petardo.

Diventato il loro capitano, Remo Pontecorvo aveva escogitato un bizzarro modo di nuotare sotto i ciuffi di fogliame, alla maniera dei selvaggi, per non farsi scorgere dal nemico; scendere in acqua strisciando prima nel terreno, come gli alligatori per evitare spruzzi, tonfi e rumori, attraversare il fiume con il favore delle tenebre utilizzando una tecnica di nuoto ad imitazione di quella degli alligatori, ovvero esponendo dall’acqua solamente la testa appena sopra alle narici, quanto bastava per respirare.

Aveva anche inventato bracciali pneumatici adatti a portare biglietti e ordini al sicuro dall’umidità e aveva curato i più minimi particolari, cercando di prevenire ogni necessità e ogni pericolo.

I nuotatori d’assalto erano divenuti in breve tempo preziosi elementi d’azione, addestrati ad attraversare il fiume, nuotando silenziosamente, a gettarsi sui posti avanzati e sulle pattuglie in ricognizione, lavorare silenziosamente di pugnale e ripassare il fiume riportando prigionieri, materiali ed informazioni.

Durante la Battaglia di Vittorio Veneto, il Comando della Divisione d’Assalto situato sulla sponda destra e precisamente sul Montello, si trovò nell’impossibilità di comunicare coi propri reparti che combattevano sull’altra sponda, perché il fortissimo tiro di sbarramento nemico aveva fatto saltare ponti e passerelle.

In più la velocità della corrente dell’acqua era di circa quattro metri al secondo, velocità che avrebbe scoraggiato ogni possibilità di passaggio con imbarcazioni.

Pontecorvo, richiesto dal Colonnello Campi, ad una sua precisa richiesta di tentativo di passaggio del Piave rispose “Presente”!

Il Capitano Remo chiamò a raccolta i suoi Arditi e così cominciò il discorso: “Ho bisogno per ora di quattro uomini soli, ma che siano uomini votati alla morte.

Mettetevi d’accordo fra voi; darò precedenza a chi non ha famiglia.

Chi vuole seguirmi faccia un passo avanti!”

Indistintamente tutti avanzarono, pregando il Capitano di esser scelti.

Pontecorvo tra i suoi Arditi scelse il Sergente Perini, il Caporal maggiore Broggi, il Caporal maggiore Foce e il Caporale Emanuelli.

Il 27 ottobre 1918, pronti i cinque Arditi, una volta sul posto, si chinarono a baciare l’acqua del fiume sacro raccolta tra le mani, in una sorta di rito religioso.

Il nucleo sotto un fitto bombardamento poté toccare la sponda opposta e giungere alla Piana della Sernaglia, dove Pontecorvo in persona recò ordini, consegnò piccioni viaggiatori e ricevette dai Generali De Gasperi, Paolini, Gabrielli, dal Maggiore Gatti e da altri comandanti dei Reparti d’Assalto, preziosi ragguagli sull’andamento dell’azione.

A notte fonda i cinque “Caimani del Piave” riattraversarono le acque sempre più tumultuose.

Sulla riva sinistra perirono due Arditi e sulla riva destra altri due.

Pontecorvo rimase solo, sfinito dalla stanchezza, intirizzito dal freddo, lacerato nei piedi e al corpo per aver attraversato boschetti d’acacie e reticolati nemici, non si arrese e tolto un cavallo ad un soldato di cavalleria si precipitò, seminudo nel mese di ottobre, dal Generale Ottavio Zoppi portandogli le notizie ricevute, illustrandogli le fasi di combattimento e chiedendogli un fuoco di sbarramento sulla località di Fontigo.

Nei giorni seguenti il gruppo, ormai meritatosi il mitico appellativo di “Caimani del Piave”, continuò con il pugnale tra i denti, di giorno e di notte, a mettere in atto fulminee azioni di sorpresa, gettando scompiglio fra le file nemiche.

Remo Pontecorvo fu ovviamente uno dei medagliati della prima guerra mondiale, la Medaglia d’Argento al Valore Militare a lui conferita sul campo di battaglia cita: “Pontecorvo Remo, di Roma, Capitano Reparti Nuotatori Prima Divisione d’Assalto. Seppe organizzare un nucleo di nuotatori in modo che, impiegato nel passaggio a nuoto del Piave per trasmissione notizie, rese preziosi servizi. Primo fra gli ufficiali del proprio reparto sotto il tiro nemico che aveva interrotto i ponti sul Piave, lo attraversava a nuoto, impiantando un servizio di trasmissione e recapito ordini e notizie, che fu poi efficacemente continuato dai suoi successori. In particolari circostanze seppe vincere difficoltà che parevano insormontabili, assolvendo mirabilmente il mandato ricevuto“. (Piave, Ottobre 1918).

L’ultimo «Caimano del Piave» che fu tra gli ottantadue valorosi prescelti da Pontecorvo per numerose audaci imprese svolte nell’ultimo anno di guerra sul Piave, è morto il 7 settembre 1968 all’ospedale del Buon Pastore di Roma: si chiamava Filippo Tosi ed era decorato di Medaglia d’Argento al Valore Militare.

Tosi Filippo da Roma, soldato XI Reparto d’Assalto – “Con raro ardimento si offriva volontariamente a prendere parte ad una rischiosa ricognizione durante la quale dava prova di bravura e di sprezzo del pericolo finché cadeva gravemente colpito”.

Medio Piave, 17 Giugno 1918. Grave ferita che non gli impedì di diventare un “Caimano” quattro mesi dopo”.

Ma tra quegli ottantadue caimani ci fu un altro protagonista indiscusso, Giuseppe Voltarel, classe 1892, detto il “Manareta”.

Nativo di Candelù di Maserada ed espertissimo del Piave, dato che lì praticamente ci nacque, dopo Caporetto fu assegnato proprio a Candelù, coi suoi Bersaglieri del Reggimento VIII, della XXIII Divisione.

Lui aveva l’incarico di attraversare il Piave a nuoto, per ricevere dai parenti e conoscenti notizie degli spostamenti delle truppe austriache.

Come guida, portava al di là del Piave anche soldati italiani, per varie missioni militari.

Guidò perfino Emanuele Filiberto, Duca D’Aosta e comandante in capo della III Armata; entrando nella leggenda dei Caimani del Piave.

Questo piccolo grande uomo, che morì nel 1975, riusciva ad attraversare a nuoto il Piave, le linee di reticolato, passare tra le trincee austriache sia andando che tornando senza mai farsi scoprire, come facesse, questo ancora adesso rimane un mistero.

Sono famosi gli episodi di Arditi che varcarono il Piave a nuoto per andare a neutralizzare gli avamposti nemici sulla sponda opposta.

Anch’essi vestiti con le sole mutande rimboccate al ginocchio ma armati di moschetto, tascapane con petardi, giberne e pugnale tra i denti, raggiungevano la sponda avversaria per eliminare le postazioni di mitragliatrice, raccogliere preziose informazioni, osservando la disposizione delle difese nemiche e catturando prigionieri da interrogare.

Il più eclatante e famoso esempio è quello del giorno 12 settembre 1918, sul Basso Piave, dove questi intrepidi Arditi nuotatori ingannarono il nemico occupato a colpire imbarcazioni piene di fantocci, creati appositamente.

Ma questa, è un’altra storia.

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