Ernest Hemingway – Addio alle armi

S:1 – Ep.16

Ernest Hemingway è una persona qualunque.

Mai pensare che la guerra, non importa quanto necessaria, non importa quanto sia giustificata, non sia un crimine.” – Addio alle armi, Ernest Hemingway

Chi ci segue da tempo sa, che quando abbiamo a che fare con nomi e cognomi altisonanti come quello di Ernest Hemingway, e come è successo per Houdinì, non lo menzioneremo per quello che l’ha reso famoso, perché basta nominare “Per chi suona la campana” o “Il vecchio e il mare” per risvegliare un ricordo anche di chi Hemingway non l’ha mai letto, ma lo racconteremo per quello che ha fatto durante la prima guerra mondiale, quando era ancora una persona qualunque.

Sì, perché Ernest Hemingway la grande guerra l’ha fatta, l’ha fatta da volontario e l’ha fatta in Italia e questo episodio della sua vita gli ispirò “Addio alle armi”, pubblicato nel 1929.

Nato a Oak Park il 21 luglio 1899, aveva solamente dieci anni quando gli fu regalato il suo primo fucile da caccia che imparò presto a usare con grande maestria suscitando l’invidia dei compagni, tanto che un giorno, a causa di un bottino di quaglie che stava portando a casa, venne assalito da un gruppetto di ragazzi che lo picchiarono, fu probabilmente questo episodio che gli fece nascere il desiderio di imparare anche la boxe.

Dopo aver frequentato senza grande entusiasmo la scuola elementare, venne iscritto alla “Municipal High School” ed ebbe la fortuna di incontrare due insegnanti che, avendo notato l’attitudine del ragazzo per la letteratura, lo incoraggiarono a scrivere.

Nacquero così i primi racconti e i primi articoli di cronaca.

Nel 1917 ottenne il diploma ma rifiutò sia di iscriversi all’università, come avrebbe desiderato suo padre medico, sia di dedicarsi al violoncello come voleva sua madre ex aspirante cantante d’opera lirica.

Il 6 aprile 1917, gli Stati Uniti d’America entrarono in guerra e Hemingway, lasciato il lavoro da cronista del quotidiano locale, il “Kansas City Star”, si presentò come volontario per andare a combattere in Europa con il Corpo di spedizione statunitense del generale Pershing, come già stavano facendo molti giovani aspiranti scrittori che provenivano dalle università.

Ma nonostante l’ottima mira nell’utilizzo del fucile e la pratica della boxe venne escluso dai reparti combattenti a causa di un difetto alla vista, venne comunque arruolato nei servizi di autoambulanza come autista dell’ARC (American Red Cross) e destinato al fronte italiano nella città di Schio e, dopo due settimane di addestramento e dieci giorni trascorsi a New York, si imbarcò, il 23 maggio 1918, sulla Chicago diretta a Bordeaux, città nella quale sbarcò il 29 maggio.

Due giorni dopo giunse a Parigi ed ebbe modo, girando per la città, di vedere il disastro provocato nei vari quartieri dal cannone tedesco chiamato Parisgeschütz (spesso erroneamente confuso con la Grande Berta).

Il Parisgeschütz era il nome di un pezzo di artiglieria con il quale i tedeschi bombardarono Parigi durante la prima guerra mondiale, dal marzo all’agosto del 1918.

Quando fu usato per la prima volta i parigini credettero di essere bombardati da un dirigibile perché non sentivano rumori di aeroplani o cannoni.

Fu il più grande pezzo di artiglieria mai utilizzato da tutti gli eserciti nel corso del primo conflitto.

Da Parigi Hemingway proseguì poi in treno per Milano, dove rimase per alcuni giorni prestando opera di soccorso.

Nelle campagne circostanti, a Bollate, era infatti saltata in aria una fabbrica di munizioni e molte erano state le vittime tra le operaie, tutte donne perché gli uomini erano totalmente impegnati nel regio esercito.

Il venerdì 7 giugno 1918, alle ore 13,50, lo stabilimento Sutter & Thèvenot fu scosso da una devastante esplosione che provocò, fra le operaie addette alla produzione, oltre una sessantina di vittime.

Non fu mai possibile stabilirne il numero definitivo in quanto la violenza dello scoppio, avvenuto verosimilmente nel reparto spedizione dove vi era la massima concentrazione del materiale esplodente, disperse i resti di molti corpi, e nulla si seppe in seguito della sorte di moltissimi feriti.

Per il giovane Hemingway la vista dei corpi dilaniati dall’esplosione fu un trauma tremendo.

Da questa visione non si liberò mai, tanto da portarlo a scriverne, quattordici anni dopo, nel racconto “Una storia naturale dei morti” che divenne poi parte della raccolta de “I 49 racconti” pubblicati del 1938.

Scrisse al riguardo: “Quanto al sesso dei defunti, è un dato di fatto che ci si abitua talmente all’idea che tutti i morti siano uomini che la vista di una donna morta risulta davvero sconvolgente.

Dopo quella tremenda esperienza fu inviato a Vicenza e assegnato alla Sezione IV della Croce Rossa Internazionale statunitense, presso il lanificio Cazzola a Schio, nella quale tornò anche nel primo dopoguerra.

Nel capolavoro “Addio alle Armi” immagina di trascorrere un periodo a Gorizia da dove descrisse il fronte; ma nella realtà, durante quel periodo, Gorizia era sotto il controllo austriaco e lo scrittore non avrebbe potuto soggiornarci.

Malgrado il 15 giugno si fosse scatenata sul fronte italiano la battaglia del solstizio, alla Sezione IV la situazione era tranquilla e, per alcune settimane, Hemingway alternò il lavoro di soccorso a bagni nel torrente e partite di pallone con gli amici.

Iniziò anche a collaborare ad un giornale intitolato Ciao con articoli scritti sotto forma di epistola e conobbe, recandosi in un paese vicino alla Sezione, John Dos Passos.

Ma il diciottenne scrittore desiderava assistere alla guerra da vicino e così fece domanda per essere trasferito.

Fu mandato sulla riva del Basso Piave, nelle vicinanze di Fossalta di Piave e Monastier di Treviso, come assistente di trincea.

Ernest Hemingway aveva il compito di distribuire generi di conforto ai soldati in trincea, recandosi quotidianamente alle prime linee in bicicletta, ma durante la notte tra l’8 e il 9 luglio rimase ferito dalle schegge di un colpo di una bombarda austriaca mentre consegnava cioccolata ai soldati.

Due dei tre uomini che erano con lui restarono uccisi.

Ripresa coscienza dopo l’esplosione, Hemingway si caricò il terzo, gravemente ferito, sulle spalle, ma mentre stava recandosi al posto di medicazione, fu colpito alla gamba destra dalle schegge che gli penetrarono nel piede e in una rotula.

Si salvò anche perché questi frammenti della bombarda austriaca, che lo ferirono comunque gravemente, gli arrivarono dopo avere colpito in pieno il soldato italiano che stava trasportando e che, facendogli involontariamente da scudo, gli salvò la vita perdendo a sua volta la propria.

Poco dopo, un Hemingway semicosciente fu trasportato all’Ospedale 62, una struttura indipendente gestita dall’allora neutrale Repubblica di San Marino, situata nella frazione di Dosson di Casier, in una splendida dimora.

Il 15 luglio fu finalmente trasportato su un treno ospedale e il 17 venne consegnato all’Ospedale della Croce Rossa Americana a Milano, dove subì diversi interventi per rimuovere chirurgicamente le 227 schegge che gli avevano perforato le gambe.

Lì rimase tre mesi, durante i quali si innamorò di un’infermiera statunitense di origine tedesca, Agnes von Kurowsky che però era legata sentimentalmente al Tenente napoletano Domenico Caracciolo.

Agnes considerava il rapporto con Ernest Hemingway una relazione giovanile e fugace platonica.

Anche questa esperienza ispirò qualche anno dopo, come detto nel 1929, Addio alle armi.

La guerra però continuava. Hemingway, ormai guarito, a fine ottobre, venne trasferito sul fronte del Monte Grappa, dove si ammalò di nuovo, questa volta di epatite; venne rispedito ancora una volta a Milano dove però Agnes non c’era più.

Dimesso nuovamente dall’ospedale milanese, insieme al capitano e pittore americano Gamble, trascorse la sua convalescenza e il Natale del 1918 a Taormina, a Casa Cuseni, la dimora, oggi Museo, del pittore britannico Robert Kitson, dove scrisse “I Mercenari”, il suo primo racconto giovanile.

Decorato con la medaglia d’argento al valor militare italiana, il 6 di gennaio del 1919 fece ritorno a Oak Park, dove venne accolto come un eroe e dove gli fu assegnata la Croce di Guerra, conferitagli dagli Stati Uniti del presidente Thomas Wilson.

Dopo il rientro a casa, Hemingway ricominciò a scrivere, ad andare a pesca e a dare conferenze nelle quali raccontava i giorni drammatici trascorsi sul fronte italiano.

Nel 1922 Hemingway era un collaboratore del Toronto Star, scriveva articoli che in seguito furono raccolti in diverse antologie e, nell’aprile dello stesso anno, il giornale lo mandò a Genova come inviato alla Conferenza Internazionale Economica, terminata con l’accordo concluso a Rapallo.

In giugno tornò in Italia con la moglie, passando a piedi il valico del Gran San Bernardo e trascorrendo una notte all’Ospizio del Colle.

Da Aosta arrivò in treno a Milano come aveva fatto nel 1918 dove aveva conosciuto Agnes e da lì proseguì per Schio e a Fossalta di Piave, dove la sua carriera militare era effettivamente iniziata, dove era stato ferito, dove era stato decorato come un eroe.

Fossalta me la ricordavo ridotta dalle bombe a cumuli di macerie, al punto che neppure i topi ci potevano abitare”.

Così scrisse Ernest Hemingway sul “Daily Star” di Toronto nel luglio del 1922.

Dal 1957 cadde in una profonda depressione e, durante i frequenti ricoveri degli ultimi anni, fu più volte sottoposto ad elettroshock.

La depressione delirante che lo aveva colpito lo portò al suicidio: si sparò con un fucile il 2 luglio 1961.

La vita di ogni uomo finisce nello stesso modo. Sono i particolari del modo in cui è vissuto e in cui è morto che differenziano un uomo da un altro.” E.H.

Ma questa, è un’altra storia.

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Aurelio Baruzzi – Predatore di austriaci

S:1 – Ep.15

Aurelio Baruzzi è una persona qualunque.

Nasce a Lugo il 9 gennaio 1897, è figlio di Giovanni e di Pia Cortesi, si diplomò ragioniere all’Istituto tecnico di Ravenna trovando subito un impiego in una banca locale.

Ma la contabilità non era quello che voleva fare nella vita Aurelio, era un operativo e rinchiuso in una banca si sentiva come gli animali selvatici in gabbia.

Ben pochi uomini nel 1915, ma anche ai giorni nostri, avrebbero fatto la scelta di Aurelio, abbandonare un sicuro e confortevole posto in banca per rischiare di perdere la vita in guerra, l’aria bellica era sempre più intensa e un ingresso nelle ostilità era già prevedibile e previsto, l’Italia aveva bisogno di uomini come Baruzzi, così in febbraio, si arruolò volontario nel Regio esercito come allievo sergente del 41º Reggimento fanteria, col quale entrò nella prima guerra mondiale il seguente 24 maggio.

Nel dicembre di quell’anno fu nominato sottotenente di complemento e assegnato al 28º Reggimento fanteria.

Pochi giorni dopo, il 22 dicembre, ricevette una prima medaglia di bronzo al valor militare per il suo comportamento durante la Seconda battaglia dell’Isonzo, nei combattimenti sui monti Sabotino e Podgora.

Sull’Isonzo, il fiume che faceva da frontiera orientale con l’Austria-Ungheria, le aspre battaglie si susseguivano e nel corso della Sesta battaglia Baruzzi si rese protagonista di uno degli episodi più strabilianti della Grande guerra.

Durante questa offensiva, precedendo all’attacco del reggimento, il 6 agosto si lanciò all’assalto di una postazione d’artiglieria austriaca, alla testa di un piccolo reparto di bombardieri a mano, riuscendo a neutralizzarla e catturando quattro lanciabombe e i militari addetti al loro tiro.

L’indomani l’avanzata verso Gorizia era bloccata da una forte postazione nemica dotata di mitragliatrici, insediatasi in una galleria ferroviaria della linea Lucinico-Gorizia e inattaccabile dall’artiglieria italiana perché lasciata a proteggere l’arretramento delle linee austriache.

Ripetuti tentativi di attacco frontale erano falliti, con pesanti perdite umane per la fanteria italiana, gli austriaci si sentivano sicuri e protetti e non vi era operazione che riuscisse a stanarli da quel buco.

Baruzzi si sentiva forte del prestigio derivante dall’azione dei suoi bombardieri a mano del giorno precedente così propose ai suoi superiori di lasciargli guidare un nuovo assalto con una ventina di uomini.

Poca cosa a confronto a ciò che poteva contenere realmente quella galleria, ma l’idea era di riuscire a posizionarsi ai lati della stessa e trovarsi a distanza utile per lanciare all’interno delle bombe a mano incendiarie e fumogene di “tipo Thévenot”, in modo da consentire ai fanti di raggiungere l’obbiettivo con il minor numero di perdite possibile, gli pareva una strategia vincente in quel momento.

I suoi superiori però, ritenevano l’azione pressoché inattuabile, non se la sentirono di investire venti uomini in un’azione quasi suicida, avevano perso già troppe vite nei falliti tentativi precedenti e quindi, se ci voleva provare, poteva farlo ma gli vennero concessi solo quattro uomini.

Sentiti i quattro volontari, Baruzzi decise di tentare ugualmente.

All’alba dell’8 agosto i cinque militari italiani lasciarono la trincea e, non visti, riuscirono a portarsi all’imbocco della galleria, presidiata da alcuni ignari austriaci.

In quattro, il piano di lanciare fumogeni e bombe incendiarie era futile, la loro potenza di attacco sarebbe stata vana e si sarebbero trovati sommersi dal fuoco austriaco, Aurelio fece prigionieri le guardie nemiche e, sul momento, decise di cambiare completamente strategia.

Riuscì a convincerli di essere alla testa di un intero battaglione attestato d’intorno e pronto all’assalto, ad un loro tramite offrì la facoltà di resa, garantendo salva la vita ai prigionieri.

Ci fu una breve trattativa ma le condizioni vennero accettate e fu così che Baruzzi e i suoi quattro bombardieri a mano incanalarono verso le linee italiane la colonna di prigionieri austriaci, composta da duecento fanti e dai loro ufficiali, sotto gli sguardi increduli dei commilitoni.

L’azione comportò la cattura di ingenti scorte di materiale bellico, oltre ad aprire la via di Gorizia così, assicurati i prigionieri alla custodia italiana, Baruzzi e i suoi bombardieri a mano non si attardarono in convenevoli e, imboccata la galleria, si diressero speditamente verso Gorizia che raggiunsero in giornata, guadando l’Isonzo.

Arrivati nella città appena sgomberata dalle truppe austriache e semidistrutta dai bombardamenti, ne presero formalmente possesso innalzando la bandiera italiana sul pennone della stazione ferroviaria.

Il forte valore simbolico dell’atto e le eclatanti imprese dei giorni precedenti valsero a Baruzzi la medaglia d’oro al valor militare, assegnatagli il 4 settembre 1916 dal re Vittorio Emanuele III.

Per l’occasione venne organizzata una cerimonia in grande stile e la decorazione fu gli consegnata personalmente sul campo dal Duca d’Aosta, davanti alle rappresentanze schierate di tutti i Reggimenti della 3ª Armata, mentre alcuni aerei sorvolavano la spianata lanciando fiori.

«Comandante di un reparto di bombardieri a mano, si slanciava per primo in un camminamento austriaco, catturandovi uomini e materiali. Due giorni dopo, accompagnato da soli quattro uomini, irrompeva in un sottopassaggio della ferrovia apprestato a difesa, contro il quale si erano spuntati gli attacchi dei due giorni precedenti, intimando audacemente la resa a ben duecento uomini, che venivano catturati unitamente a due cannoni e ricco bottino di armi e materiale. Più tardi partecipava al passaggio a guado dell’Isonzo, si spingeva in Gorizia e nella stazione innalzava la prima bandiera italiana.»

Nell’ottobre successivo venne promosso tenente e inserito nei ruoli del servizio permanente per merito di guerra, meglio non farselo scappare un soldato di questa lena.

Nel 1917 non resistette alla tentazione di entrare nei Reparti d’assalto degli arditi del Reggimento, partecipando a varie azioni, e nell’ottobre dello stesso anno venne promosso al grado di capitano.

La carriera di Aurelio avanzava speditamente come la guerra che entrava nel suo ultimo anno, durante la Battaglia del Solstizio, il 19 giugno 1918, il suo battaglione di Arditi venne inviato a sostenere l’azione della Brigata “Perugia”.

Il reparto comandato da Baruzzi si spinse molto in profondità oltre le linee nemiche e nei pressi di Meolo venne accerchiato dagli austriaci e neutralizzato dopo un’accanita resistenza.

La notizia della scomparsa del capitano Baruzzi e del suo reparto di arditi sollevò una grande impressione sia tra i commilitoni, sia nell’opinione pubblica per la quale l’impavido Aurelio era ormai diventato una figura romanzesca e di significativo impatto, un esempio da seguire, sembrava indistruttibile.

Fu decorato con un’altra medagli di bronzo al valor militare: «Comandante del reparto arditi del reggimento, già duramente provato in precedenti combattimenti, in una critica situazione, alla testa dei propri uomini, contrattaccava il nemico che minacciava di aggiramento altri reparti, infliggendogli gravi perdite, inseguendolo e facendo numerosi prigionieri. Venuto a trovarsi isolato con pochi uomini a circa due chilometri avanti alle altre truppe, assalito da forze soverchianti, si difendeva strenuamente entro una casa, finché veniva circondato e sopraffatto.»

Ma nel bollettino di guerra del 30 giugno le autorità militari precisarono che, nonostante le ricerche sui luoghi dello scontro, il cadavere di Baruzzi non era stato trovato e che era possibile fosse ferito e fatto prigioniero.

Tale comunicato, forse emesso per dare una speranza e alleviare lo sconforto, si rivelò invece vero.

Infatti Aurelio era la seconda volta nella sua vita che veniva preso prigioniero e nella prima occasione era riuscito a fuggire dopo poche ore.

Questa volta gli austriaci erano ben decisi a non lasciarselo scappare, la sua fama era conosciuta anche da loro e lo trasferirono immediatamente prima a Lubiana e poi in un campo di prigionia in Austria.

Ma da Lubiana il 26 giugno ebbe la possibilità di inviare un messaggio alla famiglia: «Sono illeso. Saluti. Baruzzi».

La missiva giunse a Lugo il 7 luglio, la notizia rimbalzò immediatamente su tutti i quotidiani.

E mentre la stampa dava spazio al redivivo eroe italiano, nel campo di prigionia Baruzzi stava “prendendo le misure” ai suoi carcerieri e trovò ben presto il sistema di fuggire, riuscendoci.

Era lontano da casa e dai soldati italiani e bisognava raggiungerli, era disarmato e con una divisa italiana addosso ma era vivo e libero, così decise di attraversare le Alpi a piedi, verso la fine di luglio, comparendo alle sentinelle degli avamposti italiani.

Si presentò in ottima salute, armato e in compagnia di una pattuglia di fanti ungheresi che aveva incontrato nel viaggio e non si era fatto scappare l’opportunità di farli tutti prigionieri, come avesse fatto da solo e disarmato a farlo rimarrà un segreto dal capitano degli arditi.

Nel 1920 ci fu la crisi di Valona, fu una crisi militare che si svolse in Albania tra il Regno d’Italia, che occupava la baia di Valona assieme all’isola di Saseno dal 1914, e le forze nazionaliste albanesi.

Le ostilità scoppiarono in seguito alla divulgazione, da parte ellenica, dell’accordo Venizelos-Tittoni di Parigi, in base al quale sarebbe stato riconosciuto all’Italia un mandato della Società delle Nazioni sull’Albania in cambio di vantaggi territoriali greci nell’Epiro albanese.

Baruzzi c’era e grazie anche a lui il presidio italiano riuscì a mantenere Valona a fronte di quattro attacchi facendogli guadagnare una croce di guerra al valor militare:

«Comandante della riserva, manifestatosi un violento attacco nemico, riuniva prontamente i propri dipendenti e li scaglionava a rinforzo del tratto di linea già attaccato. Incitava tutti alla resistenza e alla calma, con l’esempio e con la parola; sebbene colpito da malore, continuava la sua opera attiva per tutta la durata del combattimento.»

Restò in servizio nell’esercito dopo la conclusione del conflitto, raggiungendo il grado di generale e descrisse in due libri gli eventi bellici a cui aveva preso parte.

Ma questa, è un’altra storia.

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Anthony Sayer – Il primo gran maestro

S:1 – Ep.14

Anthony Sayer è una persona qualunque.

Diremo poco su di lui, semplicemente è stato il primo gran maestro fondatore, nel 1717 della prima loggia massonica moderna riconosciuta.

Perché allora lo abbiamo scomodato per concludere lo speciale sugli attentati a Benito Mussolini?

Nel primo dei quattro attentati alla vita del capo del governo italiano negli anni 1925 e 1926, due massoni, il deputato socialista Zaniboni e l’ex generale del regio esercito italiano Capello, uno dei responsabili della disfatta di caporetto, vennero scoperti prima dell’attentato stesso grazie a Carlo Quaglia, uno studente di giurisprudenza a tempo perso e giornalista del periodico del Partito popolare «Il Popolo» ma, soprattutto, un informatore della polizia.

Zaniboni inizialmente dichiarò di voler sparare a Roberto Farinacci, il ras di cremona e massone anche lui, ma poi ritrattò e affermò che voleva veramente uccidere il Duce.

Non ci è dato a sapere se la sua prima dichiarazione fosse un disperato tentativo di distogliere l’attenzione proprio dal Farinacci all’inizio delle istruttorie o se fosse un modo qualsiasi per cercare di alleggerire un’eventuale condanna del tribunale speciale, organo istituito proprio da Mussolini e sotto al suo diretto comando.

Al processo, come si leggerà nei verbali, testimonierà anche lo stesso Mussolini: “Il capo del fascismo confermava di essere stato informato di un possibile attentato sia da Farinacci che dalla Direzione Generale di pubblica sicurezza, ma a queste voci non aveva dato grande peso, sapendo che sicuramente non avrebbe corso alcun rischio.

Il duce era perfettamente al corrente dell’esistenza di un contatto tra Quaglia e alcuni fiduciari che agivano per conto del ras di Cremona.”

Il duce era convinto che Zaniboni e Capello non agissero su mandato di Farinacci, o almeno questo dichiarò in aula.

Roberto Farinacci fu iniziato alla massoneria di Quinto Curzio a cremona nel 1915 ma venne espulso per indegnità, aderì poi alla gran loggia di piazza del Gesù ma anche qui venne espulso nel 1916 per aver tentato di venire esentato dal servizio militare.

Vicino a Mussolini fondò il fascio di combattimento di cremona nel 1921 e fu eletto deputato tra le file fasciste, poi si laureò in giurisprudenza con una tesi, pare, acquistata da un altro studente.

Contestò il patto di pacificazione tra socialisti e fascisti promosso proprio da Zaniboni, il primo attentatore, assumendo così la leadership dello squadrismo più intransigente.

Non soddisfatto del fascismo al potere, richiamò per una seconda ondata rivoluzionaria atta a cancellare totalmente il liberalismo.

Andò subito in contrasto con i personaggi simbolo del fascismo più moderato, come Gabriele d’Annunzio e lo stesso Mussolini che lo invitò più volte alla moderazione.

Dopo l’arresto dei presunti assassini di Matteotti, farinacci assunse la difesa di Dumini, capo della Ceka fascista, una sorta di servizio segreto politico, ma prima che si arrivasse alla sentenza finale, Farinacci fu obbligato alle dimissioni.

Antisemita, il “monco” Farinacci, che aveva perso una mano pescando con le bombe ma facendolo passare come ferita di guerra per il vitalizio, fu obbligato da Mussolini a devolvere in beneficienza la sua pensione di invalidità.

Dopo la condanna a trent’anni di Zaniboni, Mussolini decise di aiutare economicamente la figlia del deputato a terminare gli studi universitari e ridusse da 30 a 9 gli anni di reclusione del generale Capello.

I soldi per questo attentato, si scoprirà poi, provenivano da Tomáš Masaryk il capo del governo cecoslovacco, anche lui, neanche a dirlo, convinto massone.

Il fascismo non approvava la massoneria, o meglio, non approvava nessuna organizzazione di qualsiasi tipo al di fuori del fascismo stesso, quindi, non simpatizzava certamente per Zaniboni, Capello, Masaryk e lo stesso Farinacci e Mussolini non lo nascondeva.

5 mesi dopo avvenne il secondo attentato al Duce.

Violet Gibson, malata di mente nobile inglese gli sparò mancandolo per un soffio.

La “pazza” era arrivata in Italia da poco e riuscì a studiare i movimenti di Mussolini, procurarsi una pistola, imparare ad usarla e anche bene se si considera che comunque lo ferì di striscio al naso ed il tutto in uno stato in cui non parlava nemmeno la lingua e nel giro di pochi mesi.

Non poteva aver agito da sola, si sospettò di Cesarò, un nobile italiano, entrambi erano teosofici ed esoterici, Cesarò era anche lui un massone di altissimo livello.

Vari indizi pesavano su di lui: alcuni testimoni riferirono della presenza di un uomo, dall’aspetto corrispondente a quello del duca, che avrebbe parlato con la Gibson poco prima del fatto e nell’ultimo interrogatorio la donna fece proprio il nome di Cesarò, dicendo che effettivamente aveva parlato con lei e le aveva consegnato la pistola, dichiarazione poi ritrattata, non ci è dato a sapere se fu estorta, la prima o la seconda che sia.

Cesarò affermò di poter utilizzare l’ipnosi per convincere il volere altrui, anche a distanza, nel compiere azioni, certo serviva la persona giusta e sarebbe stato più facile se fosse stata debole mentalmente.

La descrizione calzava alla Gibson, uscita da un manicomio da poco, che aveva aggredito un’amica con un’arma da taglio e che aveva tentato il suicidio poco prima di arrivare in Italia, un capro espiatorio perfetto.

Mussolini fece ottenere l’infermità mentale alla Gibson e la rispedì nell’istituto mentale nel regno unito da dove proveniva, Cesarò non venne condannato per estraneità dei fatti.

Si pensò, anche in questo caso a coinvolgimenti internazionali sempre legati agli ambienti massonici.

Dopo altri 5 mesi avvenne l’attentato di Lucetti, un ex anarchico tornato dalla Francia.

Lanciò una bomba sull’auto del duce che rimbalzando sul cofano esplose ferendo dei passanti, ma non mussolini.

Almeno, questo bombe e pistole le aveva già usate durante la sua carriera da ex militare e antifascista prima di scappare a Marsiglia anche se la sorte gli fu avversa in quell’occasione.

Insieme a lui, uscirono i nomi di Sorio (che l’aveva ospitato), Vatteroni e Baldazzi (che gli aveva dato la pistola e un aiuto economico alla moglie dopo il suo arresto), tutti antifascisti convinti.

La bomba non si sa dove la trovò, o non lo disse mai.

Si pensò ad un’organizzazione su larga scala italiana ma non ci furono prove, non emersero nomi di massoni in questa occasione, almeno ufficialmente.

Arpinati, anche lui massone assodato, Bonaccorsi e Volpi linciarono, insieme ad altri, Anteo Zamboni, il quindicenne sospettato di aver sparato al duce a Bologna il mese successivo l’attentato dell’anarchico Lucetti.

Farinacci, sospettato di aver organizzato l’attentato se non quello che aveva sparato fisicamente al duce prima di mollare la pistola a terra davanti al ragazzo, venne riconosciuto anche da una prostituta poi sparita nel nulla che non poté mai dichiarare davanti ai giudici ciò che vide.

Testimoni furono il maresciallo Francesco Burgio che vide qualcuno spostare un soldato del cordone, alzare una pistola e fare fuoco, Vincenzo Acclavi diede un colpo al braccio che fece sbagliare di mira l’attentatore, Carlo Alberto Pasolini che vide la pistola davanti al ragazzo e lo bloccò e gli squadristi che lo linciarono.

Quindi, un ragazzino nemmeno tanto intelligente, o così veniva definito con il soprannome de il Patata, era riuscito ad organizzare un attentato a Benito Mussolini recandosi dove sarebbe passato, spostando la folta folla ed un militare del cordone di sicurezza e sparando dall’alto verso il basso, con una pistola acquistata evidentemente con il suo stipendio di fattorino nell’azienda tipografica del padre, pur disturbato da Acclavi che vide solo il braccio armato, braccio visto anche da Burgio ma ne loro ne nessun altro presente nella folla riuscì a testimoniare con certezza che fosse stato Anteo.

In quell’occasione Farinacci fu l’unico gerarca non invitato ufficialmente alle celebrazioni ma era presente a Bologna in quei giorni.

Dopo le varie condanne si ebbero grazia e indulgenza da parte di Mussolini, nei confronti di Capello alleggerendogli la pena e aiutando negli studi la figlia di Zaniboni, facendo dichiarare insana di mente la Gibson e rimandandola a “casa” nel Regno Unito praticamente impunita, con l’amnistia a Sorio e Vatteroni, i complici di Lucetti e in fine graziando i parenti di Anteo e, soprattutto, impartendo ordini a tutte le forze dell’ordine, pubbliche e politiche, di terminare le indagini sui suoi attentati.

Ma perché avrebbero attentato alla vita di Mussolini?

Il deputato socialista e ex ufficiale dell’esercito Zaniboni era un massone convinto antifascista e dopo l’omicidio Matteotti si convinse ulteriormente che il duce ne fosse la causa, diretta o indiretta.

Capello era massone ed era stato letteralmente cancellato come generale italiano, Diaz e perfino Cadorna vivevano di gloria della vittoria della prima guerra mondiale ma Caporetto era una macchia che non si toglieva facilmente dalla divisa di Capello.

E Masaryk?

Forse era veramente all’oscuro di tutto, mandò soldi aiutando da massone a massone.

Cesarò, nobile e massone anch’esso, credeva nella democrazia ovviamente minata dal fascismo e dal suo leader Mussolini, per sue stesse citazioni riportate: l’unico modo per ristabilirla sarebbe stato l’omicidio del Duce.

Lucetti, Sorio, Vatteroni e Baldazzi erano ex arditi anarchici estremisti e antifascisti e ci si aspetterebbe un attentato da loro, il perché è inutile dirlo.

Certo ci vuole comunque organizzazione e denaro per portarlo a termine ma nessun nome di massone uscì dall’indagine, come ci si aspetterebbe da ex militari addestrati.

Anteo non sa nessuno perché lo avrebbe fatto ma molti sanno perché lo avrebbe fatto Farinacci, massone, in completa discordanza con il Duce.

Chissà se Anthony Sayer, quando fondò per primo la massoneria, si sarebbe aspettato tutto questo più di due secoli dopo, in fondo, lui aveva unito solo gruppi che si ritrovavano in pub londinesi diversi per aiutarsi tra di loro.

Ma questa, è un’altra storia.

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Anteo Zamboni – Il killer ragazzino

S.1 – Ep.13

Anteo Zamboni è una persona qualunque.

Figlio di Viola Tabarroni e Mammolo Zamboni, che era un tipografo ex anarchico convertitosi al fascismo per ragioni economiche, faceva infatti parecchi affari stampando i fogli di propaganda della sezione bolognese, Anteo nasce a Bologna l’11 aprile 1911.

Di carattere solitario e taciturno, in famiglia veniva soprannominato il Patata, sembra per via della sua presunta scarsa intelligenza.

La sera di domenica 31 ottobre 1926, un mese dopo l’attentato di Lucetti e quando Anteo aveva solamente 15 anni, durante il quarto anniversario della sua nomina a primo ministro in seguito alla marcia su Roma, Mussolini si trovava a Bologna, dove si era recato il giorno prima per inaugurare lo stadio Littoriale.

Alla fine delle celebrazioni, il duce venne accompagnato verso la stazione a bordo di un’automobile scoperta, guidata da Leandro Arpinati.

Alle 17:40 il corteo aveva raggiunto l’angolo tra via Rizzoli e via Indipendenza.

Anteo Zamboni, un ragazzino che di professione faceva il fattorino nella tipografia del padre, era in questa via, appostato tra la folla sotto il primo arco di portico, ma mentre l’automobile rallentava per svoltare, Anteo sparò a Mussolini, mancandolo di poco.

O questo quello che venne riportato in seguito, perché in reazione a tale gesto, gli squadristi di Leandro Arpinati fra i quali Arconovaldo Bonacorsi e gli arditi milanesi capitanati da Albino Volpi, si gettarono sul quindicenne e lo linciarono uccidendolo.

Le indagini di polizia si svolsero inizialmente negli ambienti squadristi bolognesi, ipotizzando in un primo tempo un coinvolgimento di capisquadra locali come Arpinati, quest’ultimo, anch’egli ex anarchico, era buon amico di Mammolo Zamboni, il padre di Anteo ed era quello che guidava l’auto di Mussolini, ma le ricerche non diedero alcun risultato.

Un’ulteriore indagine sollecitata dal Ministero dell’Interno fu svolta ancora dai magistrati del Tribunale Speciale per la sicurezza dello Stato.

Questa nuova inchiesta vide coinvolti Roberto Farinacci e i suoi seguaci: il ras di Cremona, all’epoca caduto in disgrazia, fu indiziato come un possibile mandante.

Roberto Farinacci era anche il presunto bersaglio del primo attentato a Mussolini, quello del deputato Zaniboni, prima di ritrattare e ribadire che voleva colpire proprio il Duce.

A quel punto si concluse che anche questo attentato era stato opera di un elemento isolato, ancora una volta.

Tuttavia, le testimonianze discordanti dei presenti, tra cui quella dello stesso Mussolini e i dubbi suscitati dal fatto che un ragazzo quindicenne avesse maturato da solo un gesto del genere, portarono a ipotizzare una presenza sulla scena del crimine del fratello maggiore di Anteo, Lodovico, nonché la corresponsabilità di Mammolo, il padre, e della zia di Anteo, Virginia Tabarroni, come ispiratori dell’attentato.

Certo, fu provato che Lodovico non poteva essere presente al fatto dal momento che si trovava a Milano ed era rientrato a Bologna solo nella tarda serata del 31 ottobre, ma il Tribunale Speciale insistette con accanimento sull’ipotesi del complotto familiare, basando l’accusa unicamente sui trascorsi anarchici di Mammolo.

Ad un certo punto delle indagini uscì anche la testimonianza di una prostituta che dichiarò alle autorità di aver visto chi aveva sparato prima di gettare la pistola a terra di fronte ad Anteo, e ovviamente, non era stato il ragazzo ma una persona che assomigliava, per descrizione, proprio a Roberto Farinacci.

Ma la prostituta sparì e non poté mai ribadire ciò che vide davanti ad un giudice.

In poche parole l’attentato avvenne attraverso queste fasi: Il Duce arrivò in auto, nella calca della folla un colpo venne esploso ed il proiettile seguì una traiettoria dall’alto verso il basso, colpì il cordone dell’Ordine dei Santi Maurizio e Lazzaro che Mussolini indossava a tracolla, perforò il bavero della giacca del Duce, attraversò il cappello a cilindro del sindaco Umberto Puppini che questi teneva sulle ginocchia e si conficcò nell’imbottitura della portiera dell’automobile.

Il maresciallo Francesco Burgio, presente all’attentato, testimoniò che un individuo, allontanato bruscamente un soldato del cordone, aveva allungato il braccio destro in direzione dell’on. Mussolini facendo l’atto di sparare.

Per fortuna, cita, un maresciallo dei carabinieri, il sig. Vincenzo Acclavi del nucleo di Trieste, dava un brusco colpo al braccio dello sconosciuto; così che il colpo, esploso in quel momento, deviava e il Duce sfuggiva per miracolo al criminoso gesto dell’attentatore.

A quel punto la pistola cadde a terra, la folla si allargò e davanti ad essa rimase solamente Anteo Zanboni che veniva bloccato dal tenente del 56º fanteria che per primo individuò e bloccò il giovane attentatore, cioè Carlo Alberto Pasolini, e da alcuni squadristi milanesi.

Il sopraggiungere degli altri squadristi finì il lavoro di linciaggio, senza processo, senza prove, senza sentenza.

Ma come poteva un ragazzino di 15 anni essersi procurato una pistola, avere manualità nel suo utilizzo ed avere la forza di spostare un militare dell’esercito per esplodere un colpo dall’alto verso il basso?

Mammolo Zamboni, il padre di Anteo, che negli anni del processo e della detenzione aveva sempre proclamato l’innocenza del figlio e l’estraneità assoluta di tutta la famiglia alla vicenda, nel secondo dopoguerra, dopo la caduta del fascismo, sostenne invece che la paternità dell’attentato era proprio del figlio, il quale aveva agito “con pieno senso di responsabilità”.

A chi gli chiese il motivo di questo cambiamento di opinione, rispose che l’aver sostenuto l’innocenza di Anteo era stato, durante il processo giudiziario, l’unico modo per scagionare sé stesso e la famiglia, ma non funzionò.

I procedimenti penali condannarono a 30 anni di prigione lui e la cognata Virginia Tabarroni per aver comunque influenzato il giovane nelle sue scelte.

Lodovico e Assunto, i due fratelli maggiori di Anteo, anche se assolti dalle responsabilità dirette nel fatto, furono condannati a cinque anni di confino in quanto elementi potenzialmente pericolosi, rispettivamente a Ponza e a Lipari.

Nel 1932 il presidente del Tribunale Speciale Guido Cristini ammise in un colloquio privato di aver condannato entrambi “pur essendo innocenti, perché così gli era stato ordinato dal Duce”.

Per queste parole Cristini fu costretto a rassegnare le dimissioni.

È stata ipotizzata una complessa dinamica dell’attentato diversa da quella comunemente accettata e affermata dalle indagini.

Questa prende in considerazione i legami che esistevano fra Zamboni e Leandro Arpinati, sostenendo che dietro il gesto vi fosse un complotto di potere interno al fascismo, tra l’ala del fascismo intransigente legato a Roberto Farinacci e quello normalizzatore sostenuto da altri gerarchi.

La tesi cospirazionista prevede quindi che il gesto sia stato compiuto da altri, che avrebbero fatto cadere la colpa sul giovane ragazzo, grazie a uno scambio di persona più o meno premeditato.

A sostegno di questa ipotesi ci sono le testimonianze contraddittorie sulla fisionomia e l’abbigliamento dello sparatore, nonché la presenza sul luogo dell’attentato dello squadrista friulano Mario Cutelli, un violento sicario simpatizzante della fronda farinacciana.

Inoltre, diversi testimoni dichiararono che Farinacci, l’unico gerarca non invitato ufficialmente alle celebrazioni, era presente a Bologna in quei giorni: lo avevano riconosciuto aggirarsi, per lo più solo e accigliato, nel centro della città.

Durante le indagini, quando si profilò l’ipotesi del complotto fascista, le autorità imposero di non indagare ulteriormente, viste le gravi ripercussioni che ciò avrebbe avuto sull’opinione pubblica.

Mussolini stesso, dopo pochi anni di condanna al confino ai fratelli di Anteo, decise di graziarli.

Semplice buonismo elettorale o sapeva come erano andate veramente le cose?

D’altronde la grazia e l’indulgenza per i suoi cospiratori, Mussolini, l’aveva sempre avuta, nei confronti del generale Capello nel primo attentato alleggerendogli la pena e aiutando negli studi la figlia del deputato Zaniboni, facendo dichiarare insana di mente la Gibson nel secondo attentato rimandandola a “casa” nel Regno Unito praticamente impunita, con l’amnistia a Sorio e Vatteroni, i complici di Lucetti del terzo attentato e adesso graziando i fratelli di Anteo nel suo quarto attentato.

Ma non si fermò qui.

Dopo quest’ultimo tentativo di omicidio nei suoi confronti, Mussolini decise di aiutare tutte quelle persone anche solo sospettate di aver fatto parte dell’ultimo, o forse non solo dell’ultimo, attentato.

Arpinati, l’autista dell’auto di Mussolini e uno di quelli che linciarono Anteo, divenne presidente di molte sigle sportive, tra cui la FIGC fino al CONI nel 1931.

Bonacorsi, un altro dei primi che si gettò sul ragazzino, si laureò in giurisprudenza grazie all’intercessione dello stesso Mussolini, che in questo modo cercò di indirizzarlo verso una professione lontana dalle violenze squadriste.

A Volpi, grazie al personale interessamento del duce, vennero concessi nel 1931 la gestione del servizio di foraggiamento del bestiame in sosta e i servizi di stallazzo del mercato ortofrutticolo di Porta Vittoria.

Solo Farinacci non ebbe la stessa sorte degli altri, le critiche che riportava sul giornale nei confronti di numerosi gerarchi gli valsero il nomignolo di “suocera del regime”, inoltre le sue posizioni anticlericali crearono anche alcuni intoppi nel lavoro diplomatico che il regime andava intessendo con la Chiesa cattolica per l’elaborazione del Concordato che sarebbe stato poi sottoscritto nel 1929, fino a che, con la nomina a segretario nazionale del PNF di Achille Starace, Farinacci terminò la propria opposizione a Mussolini dedicandosi esclusivamente all’attività forense e allo sport.

Farinacci neutralizzato, Arpinati, Bonacorsi, Volpi, tutti sistemati e impegnati a pensare ad altro piuttosto che, magari, ad organizzare attentati e nessun attentato fu più compiuto nei confronti del duce.

Dopo il fallito attentato del capoluogo emiliano, il Duce tornò a visitare ufficialmente Bologna solo dieci anni dopo, il 24 ottobre 1936.

Ma questa, è un’altra storia.

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Gino Lucetti – L’anarchico solitario

S.1 – Ep.12

Gino Lucetti è una persona qualunque.

Nato a Carrara il 31 agosto 1900 da famiglia contadina benestante, da ragazzo lavorava nelle terre di Avenza, di proprietà della madre Adele Crudeli, e militava nell’organizzazione giovanile del Partito Repubblicano, in aperto contrasto con il padre Filippo, fervente anarchico carrarese.

Nel 1918, durante la prima guerra mondiale, fu chiamato alle armi e prestò servizio militare nei Reparti d’assalto, senza però partecipare ad alcun fatto d’arme, vista la quasi immediata fine delle ostilità.

Dopo la guerra, come accadde ad una parte degli Arditi d’Italia che poi furono il nucleo fondatore degli Arditi del Popolo, maturò una coscienza politica che lo portò ad opporsi al fascismo, aggregandosi agli anarchici individualisti.

Protagonista di vari scontri e risse di natura politica durante il Biennio rosso, continuò la sua opposizione ai fascisti locali anche negli anni successivi e, il 26 settembre 1925, al culmine di un diverbio estrasse una pistola e ferì il militante fascista e concittadino Alessandro Perfetti.

Il compagno di quest’ultimo, Antonio Vatteroni, sparò a sua volta, ferendo Lucetti al collo e all’orecchio mentre fuggiva.

Nonostante la ferita, riuscì a dileguarsi e imbarcarsi clandestinamente su un mercantile, riparando a Marsiglia.

L’11 settembre 1926, giorno fissato per la celebrazione del suo processo per l’aggressione ai fascisti in cui era l’imputato, Lucetti si appostò sul piazzale di Porta Pia a Roma e lanciò una bomba contro la Lancia Lambda Coupé de ville che trasportava Mussolini nel consueto tragitto da casa a Palazzo Chigi.

La bomba rimbalzò sul bordo superiore del finestrino posteriore destro dell’automobile e, qualche secondo dopo, esplose a terra ferendo otto passanti e lasciando illeso l’obiettivo.

Lucetti fu immediatamente immobilizzato da un passante e poi raggiunto dalla polizia.

Dalla perquisizione subito effettuata, Lucetti fu trovato armato anche di una pistola di piccolo calibro e di falsi documenti che lo identificavano come Ermete Giovannini, ma la sua vera identità uscì quasi immediatamente.

Nel corso delle indagini la polizia cercò invano le prove di un complotto, erano passati solamente altri 5 mesi dall’attentato della Gibson e appena 10 da quello del deputato Zaniboni, decisero quindi di arrestare la madre, il fratello e la sorella di Lucetti, vecchi amici carraresi e anche chi aveva alloggiato con lui in albergo.

Lucetti dopo l’arresto in commissariato dichiarò: “Non sono venuto con un mazzo di fiori per Mussolini. Ma ero intenzionato di servirmi anche della rivoltella qualora non avessi ottenuto il mio scopo con la bomba“, aggiunse anche che il piano lo aveva interamente elaborato da solo.

Questo terzo attentato cadenzato ogni 5 mesi e ravvicinato agli altri portò a dei cambiamenti nei vertici della polizia, subito il giorno seguente infatti, furono “dimissionati” il questore di Roma Vincenzo Pericoli e il capo della Polizia Francesco Crispo Moncada, quest’ultimo sostituito da Arturo Bocchini.

Bocchini fu nominato capo della polizia su indicazione di Luigi Federzoni, che divenne poi consigliere di Stato l’anno successivo.

Il compito che gli affidò Mussolini fu di ristabilire l’ordine in Italia e nel fare ciò gli accordò massima copertura politica e completa libertà d’azione, nonché il privilegio di riferire direttamente al presidente del Consiglio del proprio operato.

Bocchini era dal 1922 nella carriera prefettizia e figura chiave del regime fascista italiano, tanto da essere definito talvolta il “viceduce”.

Nonostante questo assecondò il disegno di Mussolini di dotarsi di una polizia autonoma dal Partito Nazionale Fascista.

Già l’anno prima era stato vietato a funzionari ed agenti l’iscrizione al partito.

Dopo il rimescolamento di carte, le indagini continuarono e si arrivò presto a capire che un rimpatriato clandestino antifascista che tornava in Italia per attentare alla vita del duce con una bomba e una pistola non poteva avere fatto tutto da solo e, quanto meno, da qualche parte aveva vissuto nei giorni precedenti.

La reazione delle autorità fasciste fu immediata, centinaia furono gli anarchici perquisiti e arrestati e tra questi emersero in particolare due nomi: Leandro Sorio e Stefano Vatteroni.

Leandro Sorio era già conosciuto da tempo, nato a Brescia il 30 marzo 1899, di professione cameriere, non pareva avere ideologie politiche palesemente dichiarate ma poi si trasferì a Roma nel 1920 e questo favorì un suo avvicinamento ai gruppi libertari.

Sorio fu accusato di avere ospitato Lucetti nella propria stanza dell’albergo Trento e Trieste dove lavorava.

Stefano Vatteroni, nato ad Avenza il 21 febbraio 1897, faceva lo stagnino.

Anarchico fin dall’adolescenza, prese parte attivissima alle lotte contro lo squadrismo apuano, prima di trasferirsi a Roma, dopo l’ascesa al potere di Mussolini, per evitare le rappresaglie dei fascisti locali.

Vatteroni si protestò estraneo ai fatti che gli furono contestati, ma non venne creduto dagli inquirenti perché fornì, secondo le autorità, “risposte contraddittorie” e perché aveva “compiuto un viaggio a Carrara nell’agosto del 1926, tre settimane prima dell’attentato, per donare tutti i suoi beni alla madre”.

Oltretutto Vatteroni è concittadino proprio di Gino Lucetti, l’attentatore.

Lucetti fu processato nel giugno 1927 davanti al Tribunale speciale e condannato a 30 anni di carcere.

Con lui furono condannati come complici, a pene di circa vent’anni, anche Leandro Sorio e Stefano Vatteroni.

«Sentenza n. 20 dell’11-6-1927 Pres. Sanna – Rel. Buccafurri. L’11 settembre 1926 l’anarchico Gino Lucetti attenta alla vita di Mussolini a Porta Pia in Roma. Due altri anarchici, a carico dei quali si può provare soltanto che sono amici del Lucetti, vengono ugualmente condannati a gravi pene. (Attentato a Mussolini, ferimento, tentativo di provocare pubblico tumulto). Lucetti Gino, Avenza (Ms), nato 31-8-1900, marmista, 30 anni; Vatteroni Stefano, Avenza (Ms), nato 21-2-1897, stagnino, 18 anni 9 mesi; Sorio Leandro, Brescia, nato 30-3-1899, cameriere, 20 anni»

Sull’organizzazione dell’attentato non è mai stata fatta piena luce.

Una parte della storiografia ha avanzato l’ipotesi che il gesto di Lucetti fosse stato accuratamente preparato e l’organizzazione avesse coinvolto numerose persone di varie città italiane.

Comunque sia, successivamente alle condanne, un altro nome emerse ed era quello di Vincenzo Baldazzi, uno dei massimi esponenti degli Arditi del Popolo, gruppo di cui faceva parte anche Lucetti.

Dopo l’attentato a Mussolini da parte sua, Baldazzi venne condannato a cinque anni di carcere, l’accusa fu di aver fornito la pistola a Lucetti, nelle cui intenzioni era forse finire il “duce” dopo aver fatto saltar l’auto blindata a colpi di bomba a mano, ed altri cinque anni li ebbe per aver fornito aiuto finanziario proprio alla moglie di Gino Lucetti dopo la sua condanna.

Sorio, Vatteroni e Baldazzi verranno poi inviati al confino.

Nel 1937 Leandro Sorio venne amnistiato, ma riarrestato una settimana dopo l’uscita dal carcere.

Sorio in prigione irrobustì e irrigidì la propria fede politica.

Le autorità sottolinearono la pericolosità dell’individuo e ne consigliarono l’invio al confino, provvedimento attuato nel settembre 1937, nelle isole di Ponza e Tremiti, dove Sorio frequentò poi principalmente elementi anarchici.

Stefano Vatteroni venne scarcerato nel febbraio 1937, grazie a varie amnistie e condoni, dopo aver scontato undici anni di reclusione e venne assegnato dalla Commissione provinciale di Roma il 5 aprile dello stesso anno al confino per cinque anni e deportato alle Tremiti, dove “mantiene pessima condotta politica” e venne, anche lui, nuovamente arrestato.

Condannato a un anno di carcere, lo scontò a Lucera e poi venne rimandato alle Tremiti.

Vincenzo Baldazzi nel ’36 venne preventivamente incarcerato e separato dal gruppo di Giustizia e Libertà.

Passò gli anni dal 1937 al 1943 fra Ponza, Ventotene e le isole Tremiti (al confino insieme a Sorio e Vatteroni).

Nel 1943 Lucetti fu liberato dagli Alleati da poco giunti a Napoli.

Lucetti prese quindi alloggio sull’isola d’Ischia, ma il 17 settembre 1943, durante un bombardamento effettuato da bombardieri tedeschi, cercò rifugio su di un motoveliero.

Il natante fu colpito e affondato trascinando Lucetti con sé.

Nonostante in soli 10 mesi il presidente del consiglio avesse già ricevuto 3 attentati alla sua vita, tutti per lui fortunosamente scampati, i tre eventi continuavano a sembrare NON correlati.

Anche l’unico filo che pareva unirli, quello della massoneria, pareva spezzato, di certo uno stagnino, un cameriere ed un marmista scappato di casa non potevano essere massoni, nemmeno di livello molto basso, tanto meno lo poteva essere Baldazzi, un ex ardito antifascista.

Forse, erano veramente tre fatti separati, forse, perché nei dubbi che rimanevano sull’ultimo attentato c’era quello che il gesto di Lucetti fosse stato accuratamente preparato e l’organizzazione avesse coinvolto numerose persone di varie città italiane e forse, tra quelle persone, c’erano anche dei massoni, forse proprio al vertice della piramide organizzativa.

Ma tutti quei “forse” non avevano dei nomi e non potevano essere arrestati ed interrogati dal neo capo della polizia Arturo Bocchini, il “viceduce” dovette accontentarsi di ciò che aveva scoperto.

Venuto a conoscenza che Lucetti era giunto appositamente dalla Francia, Mussolini, appena giunto a Palazzo Chigi, rivolse alla folla accorsa un infiammato discorso in cui accusò il governo della Francia di tollerare sul proprio suolo numerosi antifascisti.

Il Governo italiano, tramite l’ambasciatore Camillo Romano Avezzana, richiese alla Francia l’estradizione dei fuoriusciti italiani.

Il Governo francese negò tale possibilità invocando il rispetto delle leggi dell’ospitalità; ciò nonostante dichiarò che non avrebbe tollerato altri abusi da parte dei cittadini italiani là rifugiati.

Ma questa, è un’altra storia.

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Violet Gibson – La pazza inglese

S:1 – Ep.11

Violet Gibson è una persona qualunque.

Violet Gibson è figlia di Edward, avvocato e politico irlandese nominato barone di Ashbourne nel 1885 e Lord Cancelliere d’Irlanda, e della cristiana scientista Frances Colles, sperimentò la teosofia prima di diventare cattolica nel 1902.

Fu presentata come debuttante a corte durante il regno della regina Vittoria.

Rifiutando gli ideali, la religione e lo stile di vita britannici, diventò pacifista, venendo schedata da Scotland Yard.

Violet Albina Gibson soffrì di gravi problemi di salute per tutta la sua vita.

Ebbe un esaurimento nervoso nel 1922, venendo dichiarata “pazza” e internata in un istituto mentale per due anni.

Quando uscì dal manicomio tentò il suicidio all’inizio del 1925.

Nello stesso anno si trasferì a Roma.

Mercoledì 7 aprile 1926 Mussolini era appena uscito dal palazzo del Campidoglio, dove aveva inaugurato un congresso di chirurgia, quando la Gibson gli sparò un colpo di pistola, ferendolo di striscio al naso, solamente dopo 5 mesi il primo attentato fallito di Tito Zaniboni.

Secondo Arrigo Petacco e altri studiosi, a salvarlo sarebbe stato un saluto romano che porgeva proprio nel momento dello sparo: tirando indietro il capo e irrigidendosi come sua abitudine nel saluto, avrebbe inconsapevolmente portato la testa fuori dalla traiettoria.

La Gibson, faticosamente sottratta a un tentativo di linciaggio, fu condotta in questura; interrogata, non rivelò la ragione dell’attentato.

Si è supposto che la donna, allora cinquantenne, fosse mentalmente squilibrata all’epoca dei fatti e per questo, che potesse essere stata indotta a commettere il gesto da qualche istigatore sconosciuto.

A tal fine il giovane funzionario di polizia Guido Leto fu inviato a Dublino per raccogliere informazioni in maniera discreta.

Guido Leto era il funzionario che si era già interessato al primo attentato a Mussolini, era laureato in Giurisprudenza ed entrò nel servizio pubblico nel 1919.

A partire dal 1926 iniziò a lavorare con il capo della polizia Francesco Crispo Moncada.

Subito dopo l’attentato di Violet Gibson gli fu affidato l’incarico di raccogliere informazioni proprio a Dublino al fine di escludere che dietro all’evento vi fossero dei mandanti internazionali.

In fin dei conti, i soldi per il primo attentato provenivano dal capo del governo cecoslovacco Tomáš Masaryk e l’intrigo internazionale poteva prendere piede.

Nella capitale irlandese, Leto conobbe la governante della Gibson, la signorina Mc Grath, la quale rivelò come pure in passato la donna fosse stata soggetta a brusche crisi nervose e come qualche anno prima aveva improvvisamente aggredito un’amica con un temperino custodito nella borsetta.

La Mc Grath in seguito venne a Roma per testimoniare sullo stato di salute della Gibson, ma qualche mese prima Leto, rientrato in Italia, anticipò ciò che avrebbe detto lei riferendo del proprio convincimento che la Gibson fosse effettivamente una squilibrata ed avesse agito di propria iniziativa, e come dargli torto, aveva aggredito un’amica con un temperino, era stata internata due anni in un manicomio e aveva tentato il suicidio poco prima di giungere a Roma per sparare al Duce.

Nonostante questo, le indagini non escludevano nessuna pista e, poco dopo, furono sollevati pesanti sospetti all’indirizzo di Antonio Cesarò.

Don Giovanni Antonio Francesco Giorgio Landolfo Colonna Romano, duca di Cesarò e di Santa Maria dei Maniace e Reitano, marchese di Fiumedinisi, conte di Sant’Alessio, barone di San Calogero, di Giancascio e Realturco, signore di Joppolo, nacque a Roma il 22 gennaio 1878 ed era, neanche a dirlo, un nobile, ma entrò nel mirino delle indagini ugualmente.

Figlio del duca siciliano don Calogero Cesarò (che era stato deputato della sinistra storica) e della baronessa Emmelina de Renzis (sorella di Sidney Sonnino, ex presidente del consiglio italiano nel dopo guerra), sposò la nobildonna di origini russe Barbara dei Conti Antonelli, dalla quale ebbe due figlie.

Come questo nobile fu sospettato di tirare i fili della debole Gibson è presto detto, vari indizi pesavano su di lui: alcuni testimoni dell’attentato riferirono della presenza di un uomo, dall’aspetto corrispondente a quello del duca, che avrebbe parlato con la Gibson poco prima del fatto; nell’ultimo interrogatorio del 16 giugno 1926 la donna fece il nome del duca, dicendo che effettivamente aveva parlato con lei e le aveva consegnato la pistola.

La Gibson inoltre, aveva abitato nella stessa strada dove aveva sede il gruppo romano della Società Teosofica Indipendente, nel cui edificio abitò anche lo stesso Cesarò; nel 1927 una perquisizione in casa del duca portò alla scoperta di documenti che testimoniavano l’esistenza di un complotto di tendenza monarchica per rovesciare il regime, monarchia invocata anche da Zaniboni nella sua spontanea dichiarazione che lo condannò.

Infine, in un colloquio col principe Pietro Ercolani di Bologna, Cesarò aveva sostenuto che l’unico mezzo rimasto per ristabilire la democrazia in Italia era l’assassinio di Mussolini, da attuare non per mezzo di un attentato in un luogo pubblico, ma da qualcuno che avrebbe avuto la possibilità di avvicinarlo facilmente.

La Gibson in seguito ritrattò la confessione, genuina o estorta che fosse; Cesarò sostenne di aver conosciuto la donna a Monaco nel 1912 in occasione degli incontri della Società Teosofica ma di non averla più rivista in seguito e naturalmente negò di averle parlato poco prima dell’attentato, ma soprattutto, di averle consegnato la pistola.

Lo scrittore Claudio Mauri, nel libro “La Catena invisibile”, sulla base di documenti e testimonianze dell’epoca, ha avanzato l’ipotesi che Cesarò abbia fatto parte di una cosiddetta “catena magica”, costituita da cinque persone che, tramite suggestione ipnotica, avrebbero spinto la Gibson a compiere l’attentato.

Cesarò fu vicino al mondo dell’esoterismo di quegli anni.

A firma “Arvo” avrebbe scritto il fascicolo settimo del 1928 di “UR”, Magia delle statuette, due anni dopo l’attentato della Gibson, dove si delinea il potere della suggestione ipnotica e quello inerente alla possibilità di un controllo a distanza della volontà delle persone.

Ma anche dopo la ritrattazione di Violet molti dubbi rimasero, come poteva una squilibrata certificata in un paio di mesi aver studiato le mosse del Primo Ministro, aver appreso della sua presenza quel giorno all’inaugurazione della clinica, aver trovato una pistola e, soprattutto, aver sbagliato di un soffio il Duce, segno che la pistola, la Gibson, la sapesse usare e anche discretamente bene.

Se voglio sparare ad un bersaglio in movimento, di certo, non miro alla testa, ma al bersaglio grosso, cioè al corpo, se miro alla testa vuol dire che l’arma la conosco bene, l’ho già usata parecchie volte e sono cosciente delle mie potenzialità di tiratore.

Il fucile di precisione austriaco che doveva usare il deputato Zaniboni sarebbe stato utilizzato da un veterano di guerra, magari non era l’arma preferita e più utilizzata quando era nell’esercito ma di certo il deputato dei fucili, nella grande guerra, ne aveva già visti e usati, ma la Gibson?

Una nobildonna inglese del 1900, squilibrata, di certo non aveva la stessa confidenza con una pistola che un ex veterano poteva avere con un fucile, tanto è vero che, nella sua precedente aggressione, utilizzò un taglierino, arma bianca più istintiva, leggera e pratica che portava nella sua borsetta.

Più probabile che un uomo, altolocato, potesse venire a conoscenza dei movimenti del presidente del consiglio, più facile per lui procurarsi una pistola, più facile che lui, o chi per lui, avesse insegnato alla “pazza” come utilizzarla.

Un altro filo legava i due: la teosofia.

Nell’ambito della Società Teosofica del XIX secolo, la teosofia si configura essenzialmente come scienza esoterica.

Il termine “scienza” ha dunque qui un significato molto sui generis, basato sulla credenza che al di là delle conoscenze scientifiche, la loro intima verità fosse accessibile solo per via chiaroveggente e intuitiva.

I tre principi e scopi su cui si basa la Società Teosofica sono: formare un nucleo di fratellanza universale dell’umanità senza distinzioni di razza, sesso, credo, casta o colore; incoraggiare lo studio comparato delle religioni, filosofie e scienze; investigare le leggi inesplicate della Natura e le capacità latenti dell’uomo.

Ma ai primi del Novecento si ebbe poi una rottura della società teosofica ad opera di Rudolf Steiner, già membro egli stesso della Società, ma uscito da questa in polemica con le sue impostazioni culturali, alle quali contestava di voler limitare il libero arbitrio dell’uomo affidandolo alla tutela dei mahatma; questi ultimi, in connubio con logge massoniche occulte.

Cesarò appartenne inoltre alla Massoneria, fu membro della Gran Loggia d’Italia, dove raggiunse il 33º e ultimo grado del Rito scozzese antico ed accettato, stesso grado massonico raggiunto dal Generale Capello nella loggia Fides di Torino ed entrambi massoni come lo era anche il deputato Tito Zaniboni, Capello e Zaniboni autori, a quanto pare, dell’organizzazione del primo attentato a Mussolini 5 mesi prima, il 4 novembre 1925.

I due attentati non parevano correlati, il primo organizzato da un deputato socialista ex militare e un ex generale dell’esercito, pianificato o quasi, che avrebbe visto personale esperto maneggiare armi di precisione poco condivideva con il secondo, quasi improvvisato, perpetrato ad opera di una squilibrata inesperta d’armi forse manovrata da un nobile che poco centrava con esercito e politica, se non per parentele acquisite.

Un solo punto pareva unirli: la massoneria.

Le indagini seguirono il loro decorso ed anche la giustizia, l’attentatrice Violet Gibson venne assolta in istruttoria dal Tribunale speciale per totale infermità di mente e, successivamente, espulsa dall’Italia verso l’Inghilterra.

Rimase per trent’anni ricoverata in una clinica psichiatrica, il St Andrew’ s Hospital a Northampton, dove morì.

Le indagini su Cesarò non trovarono riscontri su eventuali frequentazioni tra la Gibson e il gruppo teosofico; inoltre la sorveglianza a cui il nobile era sottoposto fin dal 1925 e fattasi più intensa dal giugno 1926, non portò all’individuazione di movimenti o persone sospette.

Questo ulteriore atto terroristico scatenò un’ondata di sostegno popolare per Mussolini, che portò all’approvazione di leggi pro-fasciste e fornì il pretesto per liquidare definitivamente le opposizioni, consolidando ulteriormente il suo controllo sull’Italia.

Ma questa, è un’altra storia.

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Tito Zaniboni – Il deputato socialista

S:1 – Ep.10

Nei prossimi 5 episodi ci sarà uno speciale sugli attentati al Presidente del Consiglio del 1925/1926, tale Benito Mussolini.

Tra il 4 novembre 1925 e il 31 ottobre 1926, il Duce subì 4 attentati alla sua vita, tutti falliti, tutti mal organizzati e tutti avvolti dal mistero, almeno per noi.

Dopodiché non vi furono più tentativi.

Ma andiamo per ordine, buona ascolto e, se lo state anche guardando, buona visione.

Tito Zaniboni è una persona qualunque.

Zaniboni Nasce a Monzambano il 1º febbraio 1883 e dopo un breve periodo di emigrazione a Boston, negli Stati Uniti d’America, fra il 1906 e il 1908, compì il servizio di leva nell’8º Reggimento alpini, diventando sottotenente di complemento.

Veterano della prima guerra mondiale durante la quale combatté raggiungendo il grado di tenente colonnello, fu decorato di tre medaglie d’argento e una medaglia di bronzo al valor militare.

Aderì al Partito Socialista Italiano, nel quale militò nella corrente riformista, e fu eletto nel 1914 nelle sue liste come consigliere provinciale di Volta Mantovana.

Era un personaggio contraddittorio, fu segretario della Federazione delle Cooperative mantovane dal 1913 al 1915 e, come collaboratore del periodico Nuova Terra, scrisse numerosi articoli contro l’intervento militare, per poi passare su posizioni più interventiste.

La rapida carriera politica lo portò alle elezioni del 1921 dove fu eletto deputato con il Partito Socialista Italiano.

Zaniboni fu poi uno dei protagonisti del patto di pacificazione tra socialisti e fascisti dell’agosto dello stesso anno mentre, nell’ottobre dell’anno successivo, aderì al Partito Socialista Unitario di Matteotti venendo rieletto alle successive elezioni del ‘24.

Ma proprio il rapimento di Matteotti lo impressionò moltissimo, fu in prima linea nelle ricerche dello scomparso; l’evento lo sconvolse a tal punto che una notte scoperchiò 13 tombe nel cimitero del Verano, nella vana ricerca del cadavere del Matteotti.

Il ritrovamento del corpo del deputato socialista, il 16 agosto 1924, lo portò su posizioni nettamente antifasciste.

Ma Zaniboni divenne noto soprattutto per aver organizzato il primo tentativo di attentato contro Benito Mussolini, il 4 novembre 1925, l’anno dopo essere stato rieletto e lo stesso anno del ritrovamento di Matteotti.

Egli avrebbe dovuto far fuoco con un fucile di precisione austriaco da una finestra dell’albergo Dragoni, fronteggiante il balcone di Palazzo Chigi, da cui il duce si sarebbe dovuto affacciare per celebrare l’anniversario della vittoria.

Zaniboni però non sapeva che del suo gruppo, quello presumibilmente creato per organizzare l’attentato, faceva parte anche un informatore della polizia (tale Carlo Quaglia), e che quindi tutte le sue mosse erano state fino a quel momento sorvegliate dal questore Giuseppe Dosi.

L’operazione di polizia scattò quando Zaniboni, giunto in albergo, si apprestò a salire nella sua camera.

In un armadio fu trovato il fucile, e nei pressi di piazza San Claudio fu trovata parcheggiata una Lancia Dilambda, che Zaniboni aveva acquistato pochi giorni prima e che gli sarebbe servita, secondo gli inquirenti, per la fuga.

Zaniboni fu quindi arrestato tre ore prima dell’attentato, assieme a lui venne arrestato anche un ex generale dell’esercito italiano: Luigi Capello.

Nei giorni seguenti fu sciolto il Partito Socialista Unitario e chiuso il quotidiano La Giustizia, che ne era l’organo ufficiale.

Luigi Attilio Capello era nato ad Intra il 14 aprile 1859 ed era un generale italiano.

Durante la prima guerra si distinse guidando le sue truppe in una serie di costose offensive sul fronte dell’Isonzo che si conclusero con limitati successi tattici soprattutto a Gorizia e sulla Bainsizza.

Assegnato al comando della 2° Armata, venne sorpreso nelle fasi iniziali della battaglia di Caporetto e non riuscì a fermare l’avanzata del nemico prima di essere costretto a cedere il comando per seri motivi di salute.

Considerato uno dei responsabili, se non “IL” responsabile stesso della disfatta di Caporetto, non ritornò più in servizio.

Dopo la fine della Guerra si accostò in un primo tempo al Fascismo e partecipò alla Marcia su Roma, per poi divenirne fermo oppositore.

Mentre i comandanti italiani come Diaz e Badoglio furono fatti oggetto di onori da parte del regime, Capello fu emarginato, soprattutto a causa della propria appartenenza alla Massoneria, Massoneria a cui era iscritto, in un altro gruppo, anche il deputato Tito Zaniboni.

Il fascismo non approvava la massoneria, o meglio, non approvava nessuna organizzazione di qualsiasi tipo al di fuori del fascismo stesso, soprattutto se questa fosse stata potente e ramificata e contenente persone importanti come, per l’appunto, la massoneria.

Capello fu arrestato a Torino con l’accusa di aver preso parte all’organizzazione del fallito attentato contro Mussolini organizzato da Zaniboni.

Capello respinse tutte le accuse e dichiarò di aver avuto solo un incontro, il 2 novembre, con Carlo Quaglia, l’informatore della polizia, inviato da Zaniboni per potergli consegnare un prestito di 300 lire che serviva per finanziare una manifestazione di reduci antifascisti, ma di essere all’oscuro delle reali intenzioni del deputato socialista.

Secondo le informative della polizia però, la somma, giunta da Praga e consegnatagli da Quaglia, era stata elargita da un importante massone, il che fece prendere corpo all’idea che nella vicenda vi fosse uno “sfondo massonico”, mentre secondo il funzionario di polizia Guido Leto la responsabilità della massoneria italiana, pur data per scontata fin da subito in ambito politico, era stata poi ridimensionata in ambito giudiziario.

Ciononostante, essa giustificò per il regime fascista il varo delle leggi miranti alla soppressione della massoneria in Italia, varate già nello stesso anno.

Ma le responsabilità di Capello emersero ugualmente, e Zaniboni cercò inutilmente di scagionarlo dal fallito attentato; ammettendone però il coinvolgimento, disse: “Avevo notato la sua avversione alla mia azione e l’intenzione di staccarsi da me“.

Dal canto suo, Capello si giustificò sostenendo che la propria avversione al Regime non si spingeva comunque fino a voler compiere un attentato.

Il processo a Zaniboni incominciò l’11 aprile 1927, dopo la promulgazione delle leggi fascistissime.

In un primo tempo, durante l’istruttoria, Zaniboni respinse le accuse dichiarando di non aver avuto intenzione di uccidere nessuno, o tutt’al più Roberto Farinacci, il ras delle camicie nere di Cremona, ma non Mussolini. Infine, a sorpresa, nel dibattimento, rivendicò le proprie responsabilità:
«Dichiaro senz’altro che il giorno 4 novembre 1925 era mia intenzione sopprimere il Capo del Governo, Benito Mussolini. Se la polizia invece di giungere all’Albergo Dragoni alle 8.30 fosse giunta alle 12.30 io avrei senza alcun dubbio compiuto il mio gesto. Il delitto aveva lo scopo di rimettere il potere nelle mani di Sua Maestà il Re.»

Non è molto chiara questa ritrattazione del deputato con l’autodichiarazione di colpevolezza, sembrò quasi un modo per attirare l’attenzione su se stesso sfoderando una matrice monarchica e distogliendo, in questo modo, la luce dei riflettori dalla massoneria.

Zaniboni fu condannato per alto tradimento a trent’anni di reclusione.

Nel corso del processo ammise anche di aver ottenuto finanziamenti a tale scopo dal capo del governo cecoslovacco Tomáš Masaryk.

Il generale Capello fu condannato anche lui a trent’anni di carcere lo stesso anno, ma venne rimesso in libertà 9 anni dopo.

Sempre secondo Guido Leto la condanna abbreviata fu dovuta alla convinzione di Mussolini che, nonostante le prove, in realtà il generale fosse estraneo all’attentato, nonché per il riconoscimento degli importanti meriti di Capello acquisiti in Guerra; inoltre Mussolini dispose la requisizione di alcuni locali della clinica del dottor Cusumano a Formia, all’interno dei quali (e dell’annesso giardino) Capello ebbe libera circolazione durante la detenzione, seppur sotto vigilanza.

Nel 1935 Zaniboni spedì diverse lettere a Mussolini, ringraziandolo per aver aiutato economicamente la figlia a terminare gli studi universitari, e prese parte dal carcere alla campagna dell’oro alla patria per finanziare la guerra d’Etiopia, promettendo anche di mettersi al servizio del regime.

Altre lettere seguirono nel ’39, in cui egli fece altre dichiarazioni in favore del fascismo.

La stessa figlia Bruna inviò diverse missive di ringraziamento a Mussolini per il trattamento ricevuto, e dopo la laurea, fece dono a Mussolini della propria tesi.

Due massoni e una spia della polizia, mai accusata dell’attentato, cercarono di sparare al Duce dal balcone dell’hotel Dragoni di fronte a dove Mussolini stesso avrebbe parlato, chi avrebbe dovuto premere il grilletto era un veterano di guerra, un ufficiale, sicuramente più avvezzo all’uso della pistola che a quella di un fucile austriaco di precisione ma poco importa, la spia aveva fatto bene il suo lavoro e l’attentato era stato sventato.

Due processi, trent’anni di reclusione ad entrambi, il deputato aiutato poi dallo stesso bersaglio nel sostenere gli studi della figlia, il generale premiato per ciò che fece durante la guerra, anche se portò alla disfatta di Caporetto, anch’esso aiutato nello scontare la pena nel migliore dei modi, certo che se io fossi stato l’oggetto dell’attentato non so se sarei riuscito ad essere così clemente e benevolo nei loro confronti ma, fortunatamente, non sono Benito Mussolini.

Il generale Capello, quando venne scarcerato, trascorse gli ultimi anni di vita in un appartamento a Roma.

Alla fine della seconda guerra mondiale e dopo la caduta del fascismo, con il decreto del 26 dicembre 1947, al generale Capello furono restituite tutte le decorazioni militari di cui era insignito.

Il deputato Zaniboni venne scarcerato l’8 settembre 1943, fu chiamato da Badoglio a far parte del governo, ma rifiutò.

Verso la metà del febbraio del 1944 Badoglio gli affidò l’incarico di alto commissario “per l’epurazione nazionale dal fascismo”.

Erano anni difficili quelli, il ventennio fascista, imposto grazie alle camicie nere e alla loro pesante mano vivevano conflitti con il loro leader, Mussolini nei suoi discorsi stava condannando le violenze dei suoi camerata e optava per una linea più morbida, stava lavorando per creare il vaticano, voleva aggraziarsi i voti dei cattolici e ci stava riuscendo ma non poteva continuare con la linea dura iniziale.

Ma i suoi camerata la pensavano come lui?

Non tutti certamente, abituati ad imporsi con la violenza, molti, la violenza erano l’unica lingua che conoscevano per avere potere ed un Duce che non condivide più questa linea può diventare scomodo…

Ma questa, è un’altra storia.

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Albert Niemann – Un giovane chimico

S:1 – Ep.9

Albert Niemann è una persona qualunque.

Albert Friedrich Emil Niemann nacque nel Regno di Hannover ed era figlio di un preside di scuola.

Nel 1849 iniziò un apprendistato presso la farmacia del municipio di Gottinga , dove, a partire dal 1852, fu studente di dottorato presso la George August University ma è stato conosciuto principalmente come chimico.

Niemann e il collega chimico inglese Frederick Guthrie, pubblicarono nel 1860 quasi parallelamente la scoperta della stessa formula, il tioetere del cloroetano, più noto come iprite.

Un terzo chimico inglese come Guthrie, John Davy, li aveva anticipati nel 1812 con la scoperta di un’altra formula, il cloruro di carbonile che chiamò fosgene.

Le notizie di queste scoperte fecero rapidamente il giro del mondo e la paura che queste sostanze potessero essere utilizzate durante un conflitto spaventò tutte le nazioni, tanto che il 27 agosto 1874 la Dichiarazione di Bruxelles riguardante le leggi e gli usi durante la guerra, proibì specificatamente «l’uso di veleni o di armi avvelenate», ribadendolo poi il 4 settembre 1900 dove entrò in vigore la Conferenza dell’Aia, la quale in una dichiarazione proibì «l’uso di proiettili che diffondano gas asfissianti o dannosi».

Già, perché l’iprite e il fosgene altro non erano che armi chimiche.

Ma i più spaventosi gas impiegati per la guerra; l’iprite, conosciuto anche come “gas mostarda” per il caratteristico colore giallo che odorava di senape; e il fosgene, un gas incolore estremamente tossico e aggressivo dal tipico odore di fieno ammuffito; furono comunque utilizzati nella prima guerra mondiale nonostante le dichiarazioni di Bruxelles e la conferenza dell’Aia.

Niemann probabilmente non fu il primo a sintetizzare il gas mostarda, forse fu Guthrie, ma fu tra i primi a documentarne gli effetti tossici nei suoi esperimenti.

Si dovrebbe sapere che si tratta dello stesso gas più potente che arriva rapidamente in una certa posizione, senza che prima si verifichi alcun dolore, ma dopo un’ora di volo si verifica un’eruzione cutanea e fino a Nei giorni successivi si verifica un’eruzione cutanea molto lunga e notevolmente più grave sotto un forte vento.

E’ spaventosamente ovvio che il suo utilizzo sarebbe stato solamente uno: militare; e sia gli inglesi che i tedeschi lo conoscevano dal 1860.

Nel 1916 i francesi ne avevano preso in considerazione l’impiego scartandolo però per difficoltà tecniche: la produzione su scala industriale ebbe inizio in Francia e in Gran Bretagna solo verso la fine della prima guerra mentre i tedeschi già li producevano da tempo.

Infatti l’iprite fu utilizzato per la prima volta proprio dai germanici nel 1917 mentre due anni prima, nel 1915, sempre loro, avevano già utilizzato il fosgene.

Quest’ultimo gas, il fosgene, è un veleno particolarmente insidioso perché non provoca effetti immediati: in genere, i sintomi si manifestano tra le 24 e le 72 ore dopo l’esposizione, facendo sì che le vie respiratorie si riempiano di liquido; la morte sopraggiunge per combinazione di emorragie interne.

Venne impiegato la prima volta nel 1915 dall’esercito tedesco contro le truppe francesi attraverso il lancio di apposite bombe.

L’anno successivo toccò agli italiani che, sul Monte San Michele, subirono per la prima volta un attacco chimico da parte degli austro-ungarici.

In questo caso però le bombole di gas non furono lanciate, ma vennero aperte creando così una nube tossica che venne poi sospinta dal vento.

L’iprite è un vescicante d’estrema potenza, l’esposizione a dosi molto elevate comporta danni gravissimi all’apparato respiratorio; sono descritte anche forme di cecità.

La morte può sopraggiungere in tal caso in una settimana circa.

Fu utilizzata per la prima volta durante la prima guerra mondiale nel settore belga di Ypres, da cui il nome, il 12 luglio 1917 per iniziativa di Erich von Falkenhayn e Alberto di Württemberg dell’esercito tedesco.

Le sue caratteristiche d’azione per contatto e lunga persistenza ambientale e le lesioni che procura, lo resero subito un’arma innovativa in una guerra che cercava nella tecnologia un aiuto per sfuggire all’immobilità della trincea: la diffusione avveniva essenzialmente tramite proiettili d’artiglieria, di rado tramite bombe d’aereo.

In economia di guerra e testato gli effetti dei gas sui nemici, quando si andava all’attacco nelle trincee avverse bisognava risparmiare preziosi proiettili.

I nemici, storditi, svenuti, agonizzanti venivano finiti con la baionetta o con mazze ferrate di cui Germania e Austria Ungheria si erano dotati.

Non approfondiremo ulteriormente gli orrori provocati dall’utilizzo di queste tremende armi chimiche lasciando a voi giudicare quanto una guerra possa diventare terribile in ogni suo studio, questo, sciaguratamente ancora ai giorni nostri.

Con la comparsa dei gas nei campi di battaglia gli eserciti si adoperarono anche per prevenirne gli effetti distribuendo ai soldati delle rudimentali maschere antigas.

Non conoscendo però la composizione chimica delle sostanze, molte non funzionavano.

L’esercito italiano (ma anche altri) ne distribuì un esemplare che NON fu in grado di contrastare né il fosgene né l’yprite.

D’altronde la stessa conoscenza sulla chimica era talmente bassa che i soldati furono istruiti, in caso di mancanza di maschere durante un attacco chimico, ad infilarsi un tozzo di pane bagnato in bocca coprendo poi il viso con un fazzoletto, meglio se intriso di urina.

I rapporti ufficiali dichiararono circa 1.176.500 casi di intossicazione non letale, e 85.000 vittime direttamente causate da agenti chimici durante la prima guerra che portò il 6 febbraio 1922, dopo la fine della Grande Guerra, alla Conferenza sulle armi di Washington che proibì l’uso di gas asfissianti, velenosi e di qualunque altro genere.

Fu firmata da Stati Uniti, Gran Bretagna, Giappone, Francia ed Italia, ma la Francia obiettò che altri precedenti trattati non erano mai entrati in vigore, e come dargli torto d’altronde, fosgene e iprite li avevano subiti per primi.

La Germania e i neo stati di Austria, Bulgaria e Ungheria non firmarono ma dopo la guerra il Trattato di Versailles proibì alla Germania sconfitta di importare o sviluppare armi chimiche.

Trattati con disposizioni simili furono firmati per Austria, Bulgaria e Ungheria.

Fu infine nel 1925, durante la Conferenza sul controllo del commercio internazionale di armi e munizioni, che la Francia propose un protocollo che vietava l’uso delle armi chimiche e su proposta della Polonia, il testo venne esteso alle armi biologiche.

Successivamente, il 7 settembre 1929 entrò in vigore il Protocollo di Ginevra, vietando l’uso di gas velenosi e di armi batteriologiche.

Ma la chimica sperimentale a scopi militari durante la prima guerra mondiale studiava anche altre sostanze, e le adottava direttamente sul campo, come i gas contro i nemici in barba alle convenzioni firmate o come i nuovi “farmaci” sui propri soldati.

Nel XIX secolo, vi era un grande interesse tra i chimici europei per gli effetti delle foglie di una pianta scoperta in America Latina .

Nel 1855 il chimico Friedrich Wöhler , professore ordinario di chimica all’Università di Gottinga, fece importare in Germania delle foglie di coca da Karl von Scherzer e le diede proprio a Niemann, il protagonista di questo racconto, il suo studente neo laureato.

Nel 1859, Niemann isolò la cocaina dalle foglie di coca e sviluppò quindi un processo di purificazione migliorato.

Scrisse dei “prismi trasparenti incolori” dell’alcaloide e disse che “le sue soluzioni hanno una reazione alcalina, un sapore amaro, favoriscono il flusso di saliva e lasciano un peculiare intorpidimento, seguito da una sensazione di freddo quando applicate sulla lingua”.

Pubblicò la sua scoperta nel 1860, lo stesso anno in cui pubblicò il gas mostarda, e questa invenzione gli valse il dottorato di ricerca pubblicata sulla rivista Archiv der Pharmazie .

Ma come utilizzare la cocaina in guerra?

Perché quello si voleva fare, la diffusione iniziò tra i piloti francesi e tedeschi durante la prima guerra mondiale, passò poi a venire mescolata con alcool o the tra le truppe, la chiamavano la “bevanda dell’eroe” per il coraggio che infondeva ma non solo, quello che noi oggi chiamiamo comunemente ecstasy venne sintetizzata per la prima volta agli inizi del 900 dalla società farmaceutica tedesca Merck che cercava una sostanza che facesse dimagrire.

Ancora una volta l’impero tedesco dimostrò di investire molto nella ricerca chimica.

Venne chiamata Mdma ma non fu mai messa sul mercato, durante la prima guerra però venne somministrata ai soldati in trincea per poter loro permettere di sopportare meglio la fame, il freddo e di affrontare il nemico.

Le droghe, infatti, erano in grado di tramutare gli uomini in soldati e combattenti, facendo compiere loro azioni altrimenti impensabili, infondendogli un coraggio ulteriore a quello dimostrato normalmente, facendo risparmiare denaro per sfamarli o vestirli e non facendogli sentire il dolore delle ferite ricevute in battaglia.

Albert Friedrich Emil Niemann morì il 19 gennaio 1861 all’età di 27 anni nella sua città natale Goslar.

Niemann lavorò molto a contatto con il gas mostarda e con la cocaina e, probabilmente, fu questo che provocò la sua giovane morte come la induce a chi, ai giorni nostri, ne fa uso.

Dagli oppiacei assunti dai contingenti internazionali in Afghanistan a quelli dell’Uck nel Kosovo; dall’anfetamina dei Top Gun e dalle forze speciali statunitensi alle metanfetamine prodotte dai nazisti della seconda guerra mondiale ieri e dallo Stato Islamico oggi, passando per il boom di psicofarmaci prescritti a reduci e soldati, la somministrazione di droghe ai militari è un’usanza oscura che ha radici antiche ma che ancora oggi viene tollerata.

Ma questa, è un’altra storia.

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Henry Tandey – L’uomo del destino

S:1 – Ep.8

Henry Tandey è una persona qualunque.

Nacque a Leamington il 30 agosto 1891, figlio di James Tandey uno scalpellino ex-soldato.

Prima di arruolarsi, frequentò la locale St Peter’s School e trascorse gran parte della sua giovinezza in un orfanotrofio, dopodiché si dedicò a lavorare come assistente di caldaia in un albergo.

Volontario nell’Esercito Britannico nel 1911, dopo l’addestramento di base, fu assegnato nei Green Howards in Sudafrica.

Nell’ottobre 1914, quando l’Impero britannico entrò nella prima guerra mondiale, Tandey prese parte nella prima battaglia di Ypres dove fu ferito a una gamba durante la battaglia della Somme.

Il 5 maggio 1917, dopo essere stato dimesso dall’ospedale militare, venne trasferito al 9º Battaglione e il 27 novembre, durante la battaglia di Passchendaele, fu ferito una seconda volta.

Dopo due mesi di cura in Inghilterra, tornò al 3º Battaglione, poi al 12º e in fine fu arruolato nel Reggimento Duca di Wellington.

Il 28 luglio 1918, durante la seconda battaglia di Cambrai, Tandey fu responsabile dei bombardamenti contro le trincee tedesche impegnati sulle linee a ovest di Canal du Nord.

Quel giorno, durante un assalto, Tandey prese due suoi commilitoni, si precipitò sotto il fuoco nemico e bombardò una trincea, catturando nel frattempo più di 20 prigionieri nemici.

Il 12 settembre, il 5º Battaglione fu coinvolto nel villaggio di Havrincourt e in quell’occasione Tandey, avendo soccorso diversi feriti sotto il fuoco nemico il giorno precedente, condusse un nuovo attacco bombardando alcune trincee tedesche e facendo, anche in quell’occasione, molti prigionieri.

Il 28 settembre, nel corso della battaglia di Cambrai-San Quintino, il ventisettenne Tandey impegnò un attacco a sorpresa contro una postazione tedesca nel villaggio di Marcoing quando il suo plotone fu bloccato dal fuoco di una mitragliatrice nemica.

Strisciò in avanti sotto il fuoco nemico, trovò la postazione e la abbatté con il supporto di una squadra armata anch’essa di mitragliatrice.

Dopodiché organizzò una difesa di un canale controllato dai tedeschi, per consentire ai suoi commilitoni la traversata del ponte.

Quella stessa sera, durante un altro assalto, Tandey e altri otto compagni furono circondati da numerosi soldati tedeschi, ma Henry, nonostante fosse gravemente ferito una terza volta, guidò una carica alla baionetta contro il nemico e rifiutò di lasciare la posizione fino alla fine dell’attacco.

Essendosi distinto per il combattimento, fu decorato con la Distinguished Conduct Medal il 5 dicembre 1918 e quindi con la Victoria Cross il 14 dicembre.

Il 13 marzo 1919 il The London Gazette pubblicò un articolo secondo cui Tandey era stato decorato con la Military Medal per l’azione a Havrincourt e quest’ultimo fu dimesso dal servizio attivo.

Nonostante questo, si è ri-arruolato nel 3º Battaglione del Reggimento Duca di Wellington il giorno successivo e il 18 marzo fu promosso caporale.

Il 17 dicembre fu decorato dal re Giorgio V a Buckingham Palace.

Prestò servizio con il 3º Battaglione fino al 4 febbraio 1921, quando fu assegnato al 2º Battaglione ma quattro giorni più tardi propose di tornare con il grado di soldato semplice.

Servì con il 2º Battaglione a Gibilterra, in Turchia e infine in Egitto.

Si congedò dall’esercito il 5 gennaio 1926 con il grado di sergente.

Dopo il congedo, Tandey si trasferì a Coventry e si dedicò al mestiere di guardia della sicurezza presso una fabbrica appartenente alla compagnia automobilistica Triumph Motor Company, si sposò due volte e non ebbe figli.

Morì per cause naturali il 20 dicembre 1977 all’età di 86 anni.

Secondo le sue ultime volontà il suo corpo fu cremato e le sue ceneri furono disperse presso il cimitero militare di Marcoing il 23 maggio 1978, lo stesso luogo della battaglia di Cambrai-San Quintino.

Fino a qui abbiamo raccontato la storia di un valoroso soldato inglese, ferito tre volte in battaglia, che ha abbattuto parecchi nemici tedeschi in guerra e per questo ha ricevuto vari encomi, fino a qui, la storia di Tandey è simile a quella di parecchi altri militari come lui.

Ma c’è un particolare che distingue Tandey dagli altri, non riguarda i tedeschi uccisi ma bensì, quelli a cui non ha sparato avendone l’occasione, anzi, per essere più precisi, QUELLO in particolare a cui non ha sparato proprio a Marcoing, dove ha voluto che le sue ceneri fossero disperse dopo la sua dipartita.

Per sua stessa ammissione l’inglese ha dichiarato che durante la Grande Guerra non aveva mai sparato a un soldato tedesco ferito, disarmato o in fuga, ma aveva fatto di tutto per uccidere un nemico in battaglia per legittima difesa.

Certo, nel 1918, non sapeva bene a chi NON aveva sparato a Marcoing, ma 22 anni dopo si ricordava ancora di quel nemico ferito nel mirino del suo fucile che lo fissava e del suo indice incapace di premere il grilletto.

Tandey raccontò in un’intervista pubblicata sul Sunday Graphic nel 1940, un fatto di cronaca secondo cui sostenne di avere incontrato il futuro dittatore nazista Adolf Hitler proprio nel giorno della battaglia di Marcoing.

Hitler, gravemente ferito da una scheggia in una trincea del locale villaggio francese, ebbe infatti un incontro ravvicinato con Tandey, il quale, vedendolo incapace di difendersi, decise di risparmiargli la vita dopo avergli puntato la sua arma; Hitler fece un cenno di ringraziamento prima di lasciare andare Tandey.

Durante la prima guerra mondiale, Hitler si arruolò dapprima come volontario ottenendo il grado di caporale nelle campagne di Francia e Belgio.

Nel 1917 fu ferito anch’esso ad una gamba durante la battaglia delle Somme ricevendo la Croce di ferro come onorificenza.

Effettivamente, Il 28 settembre 1918, dopo aver trascorso due settimane di congedo a Berlino, Hitler fu ferito da una scheggia in una trincea nel villaggio di Marcoing durante la battaglia di Cambrai-San Quintino in Francia, mentre era in corso un assalto a sorpresa da parte di un plotone britannico del Reggimento Duca di Wellington, la storia raccontata da Tandey reggeva al decorso storico.

Nel 1938, durante la conferenza di Monaco, Tandey ricevette i saluti di Hitler da parte del Primo ministro britannico Arthur Chamberlain.

Quest’ultimo, nel corso dell’incontro con il dittatore nel Berghof, aveva anche notato un dipinto (inizialmente conservato e commissionato nel 1923 dai Green Howards nel Richmond Museum) del pittore Fortunino Matania, raffigurante un soldato britannico mentre trasporta un commilitone ferito nel corso della prima battaglia di Ypres, al che Hitler rispose al primo ministro che il soldato raffigurato era proprio Tandey.

A quanto pare il Führer aveva visto nel 1918 un articolo di giornale sulla decorazione di Tandey e aveva conservato il ritaglio dopo averlo riconosciuto come colui che gli aveva risparmiato la vita.

Tuttavia, quando Hitler prese il potere in Germania nel 1933, questi diede degli ordini ai suoi ufficiali di condurre un’indagine sulle operazioni militari dell’Esercito Britannico nella prima guerra mondiale.

Nel 1936 uno dei membri dello staff investigativo, il dottor Otto Schwend, chiese ai Green Howards di fargli pervenire la riproduzione del quadro e il comandante del reggimento, il tenente colonnello Earle, accolse la richiesta, dopodiché la riproduzione del dipinto di Matania venne recapitata proprio nelle mani del Führer, che lo fece appendere nel suo omonimo rifugio alpino bavarese.

Nel corso dell’intervista, l’ex-soldato britannico, dopo che la sua città fu decimata dai bombardamenti della seconda guerra mondiale, confermò il gesto con queste parole:
«Non potevo sparare a un uomo ferito, così l’ho lasciato andare… Avessi saputo allora cosa sarebbe diventato quel caporale! Ora, davanti a tutti questi morti e feriti di Conventry, Dio sa quanto mi dispiace averlo risparmiato.»

Ma sulla veridicità di questo evento sussistono molti dubbi e, anzi, successive verifiche documentali sembrano dimostrarne la falsità.

La prima incongruenza viene proprio dal dipinto della residenza bavarese del Führer, a quanto pare Hitler aveva affermato di aver riconosciuto nel dipinto un soldato incontrato nel 1918, ma il dipinto raffigura una battaglia realmente avvenuta nel 1914.

Il dottor David Johnson, biografo del soldato Tandey, getta ulteriori dubbi sulla storia.

Ha sottolineato che anche se la data fosse stata accurata, sarebbe stato improbabile che il soldato Tandey fosse stato riconoscibile dal dipinto.

Era stato ferito durante la battaglia del 1918 e, a differenza del dipinto, sarebbe stato “estremamente trasandato e coperto di fango e sangue”.

Forse ancora più convincente è il fatto che il dottor Johnson sostiene che non c’era modo che il soldato semplice Tandey e il caporale Hitler si fossero incrociati perché il 17 settembre l’unità di Hitler era stata spostata circa 80 km a nord di quella del soldato Tandey, che si trovava a Marcoing, vicino a Cambrai, nel nord della Francia.

L’incontro tra i due uomini avrebbe dovuto aver luogo il 28 settembre 1918, ma i documenti conservati presso l’Archivio di Stato bavarese dimostrano che Hitler era in congedo tra il 25 e il 27 settembre.

“Ciò significa che Hitler era in licenza o stava tornando da una licenza in quel momento oppure si trovava con il suo reggimento a 50 miglia a nord di Marcoing”, ha affermato il dottor Johnson.

Al suo ritorno in Gran Bretagna, si presume che il signor Chamberlain abbia telefonato al soldato Tandey per comunicargli i dettagli dello scambio di battute avuto con Hitler ma gli archivi della British Telecom aggiungono ulteriori dubbi: Tandey non aveva un telefono.

Alla fine, non abbiamo prove del mancato colpo sparato di Tandey ad Adolf Hitler ma, purtroppo, abbiamo fin troppe prove di ciò che il Führer fece dopo quel 28 settembre 1918 a Marcoing.

Ma questa, è un’altra storia.

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Cher Ami – Il volo della salvezza

S:1 – Ep.7

Cher Ami è una persona qualunque.

Beh, ad essere onesti, questa volta, definire Cher Ami una persona qualunque risulta difficile; creduto maschio fino alla fine, Cher Ami venne insignita con la Croce di guerra e la medaglia Oak Leaf Cluster per i suoi eroici servizi resi nel 1918, al suo ritorno negli Stati Uniti.

Prima però di parlare di Cher Ami, dobbiamo obbligatoriamente raccontare la storia della 77° Divisione dell’esercito Usa, impegnata nella battaglia delle Argonne nella sua seconda fase ad ottobre 1918, verso la fine della prima guerra mondiale e di quello che gli successe che gli valse il soprannome di “il battaglione perduto”.

L’offensiva dell’Argonne avvenne tra il 26 settembre e l’11 novembre 1918, lungo il Fronte occidentale della prima guerra mondiale.

Questo fa parte dell’offensiva dei cento giorni, nella quale gli eserciti alleati costrinsero alla ritirata i tedeschi e riconquistarono gran parte del territorio francese occupato dall’Impero tedesco.

L’offensiva venne condotta principalmente dalle forze statunitensi dell’American Expeditionary Forces guidato dal generale John J. Pershing che, peraltro, mostrarono gravi carenze tattiche e mancanza di esperienza; i ripetuti attacchi frontali vennero respinti dalle forze tedesche schierate a difesa sulla cosiddetta Linea Crimilde dove fino al 1 novembre 1918 gli americani furono praticamente bloccati.

L’offensiva delle Argonne costò pesanti perdite al corpo di spedizione statunitense e costituisce ancora oggi la battaglia della storia in cui le truppe americane subirono il maggior numero di morti e feriti.

L’attacco iniziò alle 5:30 del 26 settembre con risultati alterni: il V e il III Corpo incontrarono notevoli difficoltà nell’avanzare, a causa dell’inesperienza, alcuni non raggiunsero l’obbiettivo a causa della formidabile resistenza tedesca e fu praticamente fermata nella sua avanzata, ma il giorno successivo, il 27 settembre, la maggior parte delle compagnie iniziarono ad avere successo.

Il 29 settembre furono dispiegate 6 divisioni tedesche per contrastare l’avanzata americana, ma furono respinti dalla 35ª divisione, dal 128º battaglione e dalla 129ª batteria da campagna comandata da Harry Truman.

Nonostante i successi americani, la resistenza tedesca era accanita; la 35ª divisione statunitense subì gravi perdite, molti dei suoi ufficiali caddero ma, nonostante lo sbandamento, riuscì ad avanzare di 9 km in profondità nelle linee tedesche fino a Somme-Py e a nord-ovest di Reims (la battaglia di Saint-Thierry).

Congiuntamente i progressi francesi furono più ampi e favoriti dal campo di battaglia, più aperto e largo delle fitte e difficili foreste delle Argonne.

La seconda fase della battaglia iniziò il 4 ottobre; durante i primi attacchi, nella sua veloce avanzata contro i tedeschi, la 1ª divisione germanica creò un vuoto nelle linee nemiche, ed è in questa fase che si andò a delineare la vicenda del “battaglione perduto”.

Questo battaglione della 77ª divisione rimase scollegato dalle linee amiche e bloccato in postazioni avanzate nelle Argonne a causa dell’attacco subito che isolò due reggimenti e un battaglione americani.

Durante l’offensiva, lanciarono una serie di sanguinosi assalti frontali per sfondare le linee tedesche, principalmente lungo la Stellung Kriemhilde della Linea Hindenburg tra il 14 e il 17 ottobre.

Alla fine del mese, le truppe statunitensi erano avanzate di circa 16 km, e avevano conquistato la foresta delle Argonne, mentre sulla loro sinistra i francesi avanzarono di una trentina di km.

Ma il battaglione perduto?

Il 3 ottobre 1918 il maggiore Charles Whittlesey e altri 500 soldati rimasero intrappolati in una piccola depressione su un lato della collina dietro le linee nemiche senza cibo, munizioni e sotto il fuoco amico delle truppe alleate le quali non conoscevano la loro posizione.

Circondati dalle forze tedesche, molti membri della divisione vennero uccisi e feriti durante i primi due giorni della battaglia, solo 194 di loro sopravvissero.

Vedendosi completamente isolato dalle truppe amiche, e sotto stretto assedio nemico, Whittlesey cercò di comunicare utilizzando dei messaggi spediti attraverso piccioni viaggiatori.

Durante la prima guerra mondiale i piccioni viaggiatori erano molto usati.

Grazie alla loro affidabilità e alla capacità di attraversare inosservati intere aree, venivano utilizzati per consegnare messaggi tra truppe che non avrebbero potuto comunicare altrimenti.

I piccioni riescono a localizzare un punto esatto d’arrivo perché hanno la genetica propensione all’orientamento geomagnetico, in altre parole hanno una potente bussola interna, molto più complessa di quella umana, in grado di percepire il campo magnetico terrestre che, aggiunto allo spiccato olfatto che gli consente di riconoscere gli odori tipici del suo nido d’origine, li rende quasi infallibili nel raggiungerlo.

Ma la loro sorte ben presto fu segnata: i tedeschi venuti a conoscenza della strategia, iniziarono a sparare a tutti i piccioni intercettati, consapevoli del fatto che potevano portare informazioni importanti.

Durante l’offensiva sulle Argonne vennero utilizzati 442 piccioni che portarono 403 messaggi.

È stato calcolato che durante il corso della Grande Guerra il 95% dei piccioni portò a termine la missione.

Il maggiore Charles White Whittlesey lo sapeva e liberò il primo volatile che riportava il messaggio “Many wounded. We cannot evacuate” (“Molti feriti. Non possiamo ritirarci”) ma fu immediatamente abbattuto.

Venne quindi spedito un secondo uccello con il messaggio “Men are suffering. Can support be sent?” (“Gli uomini stanno soffrendo. Potete darci supporto?”) ma anche quest’ultimo venne ucciso prima di giungere a destinazione.

Ne rimaneva solamente uno e si chiamava Cher Ami.

Cher Ami (Caro Amico in francese) è stato un esemplare femmina di piccione donato da un gruppo di amatori alla divisione Signal Corps che venne successivamente addestrato dai “pigeoneers” dell’Esercito degli Stati Uniti d’America operativa in Francia durante la prima guerra mondiale.

Cher Ami venne inviata con una nota nell’astuccio agganciato alla zampa sinistra:
«We are along the road parallel to 276.4. Our own artillery is dropping a barrage directly on us. For heaven’s sake, stop it»
«Ci troviamo lungo la strada parallela alle coordinate 276,4. La nostra stessa artiglieria sta effettuando uno sbarramento proprio sopra di noi. Per l’amor di Dio, fermatevi»

Quando Cher Ami spiccò il volo, i tedeschi la videro sbucare dai cespugli e aprirono il fuoco; per alcuni istanti Cher Ami volò schivando le pallottole a lei dirette, ma venne colpita.

Nonostante fosse ferita, la volatile riuscì ugualmente a recapitare il messaggio al quartier generale della divisione percorrendo 40 km in soli 65 minuti.

Cher Ami effettuò con successo la consegna nonostante le ferite riportate al petto e all’occhio, giungendo a destinazione completamente ricoperta di sangue e con una zampa quasi del tutto staccata dal corpo ma grazie al suo aiuto i 194 uomini ancora vivi della 77ª riuscirono a salvarsi.

Al 31 ottobre gli americani erano avanzati di una quindicina di chilometri e sulla loro sinistra i francesi di una trentina, raggiungendo il fiume Aisne.

Gli americani si trovarono di fronte in tutto circa 31 divisioni tedesche in questa fase, ma la spinta alleata non si fermò, vennero catturate le difese tedesche permettendo alle truppe francesi di attraversare il fiume Aisne, da dove avanzarono catturando Le Chesne .

Negli ultimi giorni i francesi conquistarono l’obbiettivo primario, ossia il nodo ferroviario di Sedan, e il 6 novembre le forze americane liberarono i territori tutt’intorno.

Cher Ami divenne l’eroina della 77° divisione.

I medici dell’esercito riuscirono a salvarle la vita ma furono costretti ad amputarle la zampa ferita, così le costruirono una protesi utilizzando dei piccoli pezzi di legno.

Quando terminò la convalescenza e fu di nuovo in forze per volare, Cher Ami venne caricata su una nave diretta verso gli Stati Uniti d’America alla presenza del generale John Pershing in persona.

Al suo arrivo negli Stati Uniti d’America, Cher Ami fu considerata uno dei più grandi eroi americani della Grande guerra.

Venne insignita con la Croce di guerra e la medaglia Oak Leaf Cluster per i suoi eroici servizi di consegna messaggi.

Si calcolò infatti che durante i suoi dodici viaggi compiuti da Verdun a Rampont riuscì a recapitare con successo ogni comunicazione percorrendo una distanza media di 30 chilometri in un tempo di 24 minuti.

L’offensiva delle Argonne contribuì alla sconfitta finale dell’esercito germanico, ormai dissanguato e demotivato, con vari problemi interni al paese che si ripercuotevano anche tra le file dell’esercito.

Nonostante lo sbandamento morale degli avversari, gli alleati con questa ultima offensiva non riuscirono comunque a cacciare i tedeschi dalla Francia, né a distruggerli completamente: all’11 novembre, giorno dell’Armistizio di Compiègne, i tedeschi, con le truppe ancora sotto le armi, le trincee piene di uomini, le artiglierie in posizione e i soldati sul suolo francese e belga, si sentirono traditi da coloro che avevano consegnato la vittoria agli Alleati al tavolo dei negoziati.

Cher Ami morì a Fort Monmouth nel New Jersey il 13 giugno 1919 a causa delle ferite ricevute in battaglia.

Il suo corpo fu imbalsamato e conservato presso lo Smithsonian Institution, successivamente trasferito nel National Museum of American History dove è attualmente esposto.

Cher Ami fu sempre ritenuta un maschio; solo durante la procedura di imbalsamazione si scoprì che era in realtà di sesso femminile, infatti nei documenti di guerra veniva sempre indicata al maschile e questo errore di genere continua ancora oggi su molti testi di storia militare.

Ma questa, è un’altra storia.

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