Alfred Ewing – Room 40

S:2 – Ep. 56

Alfred Ewing è una persona qualunque.

Alfred nasce a Dundee, in Scozia, era il terzo figlio del reverendo James Ewing, un ministro della Chiesa libera di Scozia, studiò alla West End Academy e alla High School di Dundee, mostrò un precoce interesse per la scienza e la tecnologia.

In una famiglia i cui interessi principali erano clericali e letterari, traeva piacere dalle macchine e dagli esperimenti, il poco denaro che possedeva veniva speso in utensili e prodotti chimici, la soffitta domestica era diventata il suo laboratorio personale.

Ewing vinse una borsa di studio all’Università di Edimburgo, dove studiò fisica sotto Peter Guthrie Tait prima di laurearsi in ingegneria, durante le vacanze estive lavorò alla posa di cavi telegrafici, tra cui una linea in Brasile.

Nel 1878, su raccomandazione di Fleeming Jenkin, Ewing fu reclutato per aiutare la modernizzazione del Giappone dell’era Meiji come uno degli o-yatoi gaikokujin (stranieri assunti), in qualità di professore di ingegneria meccanica presso la Tokyo Imperial University, ebbe un ruolo determinante nella fondazione della sismologia giapponese, portò avanti molti progetti di ricerca sul magnetismo e le sue indagini sui terremoti lo portarono a contribuire allo sviluppo del primo sismografo moderno.

Nel 1883, Ewing tornò nella sua nativa Dundee per lavorare presso l’ University College Dundee e nel 1890 assunse l’incarico di professore di meccanica e meccanica applicata all’Università di Cambridge, era un caro amico di Sir Charles Algernon Parsons e collaborò con lui allo sviluppo della turbina a vapore, nel 1898 Ewing fu eletto professore associato al King’s College.

L’8 aprile 1903, il Times annunciò che il Consiglio dell’Ammiragliato aveva selezionato Ewing per il nuovo incarico di Direttore dell’Istruzione Navale a Greenwich.

All’inizio della prima guerra mondiale, nell’agosto 1914, né la Germania né il Regno Unito possedevano una stabile organizzazione per l’intercettamento dei messaggi radio del nemico e la decodifica di quelli che risultavano cifrati; la Royal Navy britannica possedeva un’unica stazione di ascolto per l’intercettazione situata a Stockton, ma un certo appoggio venne fornito dagli impianti del servizio postale e della Marconi Company, nonché da semplici privati che avevano accesso ad apparecchiature radio personali.

Un gran numero di messaggi tedeschi intercettati prese ad affluire alla Naval Intelligence Division dell’Ammiragliato, ma non vi erano molte idee su come gestire questo afflusso di informazioni: il retroammiraglio Henry Oliver, alla direzione della Intelligence Division dal 1913, non disponeva di personale esperto nella decifratura delle comunicazioni in codice e decise quindi di rivolgersi a un amico, il nostro protagonista: Alfred Ewing, direttore della Naval Education, professore di ingegneria e radioamatore dilettante il quale coltivava come hobby l’elaborazione di cifrari.

Visto che la formazione di personale esperto non era ritenuta una priorità, stante la supposta breve durata del conflitto in corso, a Ewing fu chiesto di mettere assieme un proprio gruppo di collaboratori di fiducia che lo aiutasse nel compito di decifrare i messaggi tedeschi intercettati.

Ewing si rivolse inizialmente al personale delle accademie navali di Osborne House e Dartmouth, stante il periodo di vacanze scolastiche e l’assegnazione degli studenti a compiti attivi; tra i primi a essere selezionati vi fu il professor Alastair Denniston, reclutato per la sua conoscenza del tedesco ma divenuto poi braccio destro di Ewing e secondo in comando nella nascente struttura; vari altri collaboratori vennero poi reclutati temporaneamente alla nascita del nuovo centro di decifratura, tra cui il direttore dell’accademia di Osborne – Charles Godfrey, i due istruttori navali Parish e Curtiss e lo scienziato e professore di matematica Henderson del Greenwich Naval College.

Questi volontari lavorarono alla violazione dei cifrari tedeschi a fianco delle loro normali occupazioni e l’intera organizzazione dovette inizialmente operare dall’ufficio ordinario di Ewing il quale continuò a esercitare le sue funzioni di direttore della Naval Education.

Due delle prime reclute di Ewing furono anche R. D. Norton, ex funzionario del Foreign Office, e Lord Herschell, linguista ed esperto conoscitore della Persia: nessuno di loro aveva una qualche conoscenza in materia di crittografia, ma furono selezionati per la loro conoscenza del tedesco e l’affidabilità dimostrata nel mantenere i segreti.

Un’organizzazione simile a quella messa in piedi da Ewing fu sviluppata dalla Military Intelligence del War Office: la struttura, nota come MI1b, era diretta dal colonnello Macdonagh il quale propose che le due organizzazioni lavorassero assieme.

Poco successo fu ottenuto dalle due strutture tranne che nell’organizzazione di un sistema di raccolta e archiviazione dei messaggi, almeno fino a quando i servizi di intelligence francesi non ottennero delle copie dei cifrari militari tedeschi; le due organizzazioni britanniche lavorarono quindi di concerto nella decifratura delle comunicazioni dell’esercito tedesco riguardanti le operazioni sul fronte occidentale.

Un amico di Ewing, un avvocato di nome di Russell Clarke, e un suo amico, il colonnello Hippisley, avvicinarono Ewing per spiegargli di come avevano intercettato dei messaggi radio tedeschi; Ewing li reclutò entrambi e insieme a un altro volontario, Leslie Lambert, li assegnò a una stazione di guardia costiera vicino a Hunstanton nel Norfolk: Hunstanton e la stazione di Stockton divennero poi il cuore del sistema di intercettazioni radio britannico il quale crebbe a tal punto da riuscire a intercettare praticamente tutte le comunicazioni radio ufficiali dei tedeschi.

Alla fine di settembre, tuttavia, gran parte del personale reclutato presso le scuole navali tornò alle sue normali occupazioni: senza alcun mezzo per decodificare i messaggi della marina tedesca c’era poco lavoro da fare.

Il primo successo dei decrittatori navali britannici si ebbe nell’ottobre 1914, il 26 agosto 1914 una formazione navale tedesca compì una scorreria contro i russi all’imboccatura del golfo di Finlandia: persosi nella nebbia, l’incrociatore leggero SMS Magdeburg finì per arenarsi contro la costa dell’isola di Odensholm, nell’odierna Estonia, e sotto l’attacco di due incrociatori russi intervenuti sul luogo il comandante dell’unità, capitano di corvetta Richard Habenicht, ordinò di evacuare l’equipaggio su uno dei cacciatorpediniere di scorta e di predisporre la nave per l’autoaffondamento.

Nella confusione creatasi le cariche di demolizione furono fatte detonare prematuramente provocando feriti tra l’equipaggio ancora a bordo, e prima che i documenti segreti di bordo fossero distrutti Habenicht e altri cinquantasette tedeschi furono fatti prigionieri dai russi.

Ispezionando il relitto del Magdeburg, i russi rinvennero tre copie del Signalbuch der Kaiserlichen Marine (“Libro dei segnali della Marina imperiale” o SKM), il libro codice contenente le chiavi di cifratura del sistema di codifica delle comunicazioni radio della flotta tedesca, unitamente a una carta geografica grigliata del mar Baltico e al diario di guerra dell’unità.

I russi trattennero per sé le copie del SKM numerate con 145 e 974, ma decisero di cedere una terza copia del libro, numerata con 151, ai britannici: il libro stesso fu formalmente consegnato al primo lord dell’Ammiragliato Winston Churchill il 13 ottobre seguente.
Lo SKM di per sé era incompleto come mezzo di decodifica dei messaggi, visto che essi erano normalmente cifrati così come codificati, e quelli che potevano essere immediatamente tradotti erano per lo più rapporti meteorologici.

Un modo per risolvere il problema fu ottenuto da una serie di messaggi trasmessi dalla stazione radio tedesca di Norddeich, la cifratura fu rotta, di fatto, due volte di seguito visto che fu cambiata dai tedeschi un paio di giorni dopo che i britannici l’avevano risolta una prima volta, e fu stabilito un protocollo generale per interpretare i messaggi.

La cifratura adottata dai tedeschi era una semplice cifratura a sostituzione dove ogni lettera era sostituita con un’altra secondo una precisa tabella, così i messaggi intercettati risultarono rapporti dell’intelligence tedesca sulle sortite delle navi alleate, il che era interessante ma non vitale, ma Russell Clarke osservò che simili messaggi in codice venivano trasmessi su onde corte e non venivano intercettati a causa della carenza di apparecchiature riceventi; il centro di ascolto di Hunstanton ricevette quindi istruzione di smettere di ascoltare i segnali militari dell’esercito tedesco e di concentrarsi invece sul monitoraggio delle onde corte per un periodo di prova di un fine settimana.

I britannici intercettarono preziose comunicazioni sui movimenti della flotta d’alto mare tedesca, di primaria importanza da un punto di vista navale, Hunstanton fu quindi destinato unicamente all’intercettazione di quei messaggi e il personale navale fu immediatamente ritirato dalla collaborazione con i colleghi dell’esercito per concentrarsi unicamente su questo nuovo compito.

Visto che la rottura del cifrario SKM era stata rigorosamente tenuta segreta, questo improvviso cambiamento provocò cattivi rapporti tra i servizi di decodifica della marina e dell’esercito, che come risultato non collaborarono più tra di loro almeno fino al 1917.

Le stesse dimensioni del SKM furono una delle ragioni per cui esso non poteva essere facilmente cambiato dai tedeschi, e pertanto il codice rimase in uso senza variazioni fino all’estate del 1916 quando fu introdotto il nuovo FFB ma anche allora, tuttavia, diverse navi si rifiutarono di impiegare il nuovo codice perché la sua introduzione si rivelava troppo complicata, e il FFB non divenne di uso comune almeno fino al maggio 1917.

Non ci fu alcuna immediata cattura del codice FFB che potesse aiutare l’Ammiragliato nella sua decifratura, ma una serie di pazienti studi su vecchie comunicazioni, ora che il sistema era stato capito, permisero agli specialisti della Room 40 di rompere una nuova chiave di cifratura nel giro di tre o quattro giorni dalla sua introduzione.

La Room 40 era la sezione dell’Ammiragliato britannico incaricata delle attività di crittoanalisi; il suo nome era dovuto alla collocazione della struttura, appunto la stanza 40 del palazzo dell’Ammiragliato a Londra.

La perdita del Magdeburg ingenerò negli stessi tedeschi alcuni dubbi sul fatto che lo SKM potesse essere caduto in mano nemica e lo stesso principe Enrico di Prussia scrisse al comando dicendosi sicuro che varie carte riservate, ivi compreso lo SKM, erano cadute in mano ai russi dopo la perdita dell’incrociatore.

Ma questa, è un’altra storia.

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Charles e Joseph – Scemi di guerra

S:3 – Ep:55

Charles e Joseph sono due persone qualunque.

Charles Samuel Myers nacque a Kensington il 13 marzo 1873, figlio maggiore di Wolf Myers, un mercante, e di sua moglie, Esther Eugenie Moses, la sua famiglia era ebrea, frequentò il Gonville and Caius College di Cambridge dove ottenne il massimo dei voti e ricevette la laurea in Medicina nell’ottobre 1901, si formò presso lo St Bartholomew’s Hospital di Londra.

Joseph Jules François Félix Babiński nacque a Parigi il 17 novembre 1857, i genitori erano fuggiti da Varsavia a causa della repressione russa rifugiandosi in Francia dove nacque Joseph, si iscrisse poi alla Scuola di medicina dell’Università di Parigi, con ottimi profitti, facendosi notare da Jean-Martin Charcot, professore di neurologia all’ospedale la Salpêtrière, e diventò il suo studente preferito, si laureò in medicina nel 1884 con una tesi sulla sclerosi multipla e divenne medico degli ospedali parigini, e poi, primario all’Ospedale della Pietà di Parigi.

Nel 1915 Charles Myers ricevette un incarico nel Royal Army Medical Corps e nel 1916 fu nominato psicologo consulente per gli eserciti britannici in Francia con uno staff di assistenti a Le Touquet, mentre Babinski si fidava del tutto della clinica per formulare la diagnosi, senza dipendere da esami strumentali e di laboratorio, che convenzionalmente avevano la precedenza.

Durante e dopo la prima guerra mondiale migliaia di soldati riportarono gravi disturbi mentali, ma non fu subito evidente che la causa fosse aver partecipato alla guerra, perché non si pensava potesse essere un fattore scatenante la psicopatologia.

In questo episodio del nostro podcast parleremo per questo motivo di Babinski e Myers, il termine “shell shock” fu utilizzato per la prima volta nel 1915 proprio dallo psicologo Charles Myers sulla rivista medica The Lancet, coniato durante la battaglia di Loos per esporre un presunto collegamento tra i sintomi e gli effetti delle esplosioni dei proiettili di artiglieria.

Durante le prime fasi della prima guerra mondiale, nel 1914, i soldati della British Expeditionary Force iniziarono a segnalare sintomi medici dopo il combattimento, tra cui acufene, amnesia, mal di testa, vertigini, tremori e ipersensibilità al rumore.

Mentre questi sintomi assomigliavano a quelli che ci si aspetterebbe dopo una ferita fisica al cervello, molti di coloro che si dichiaravano malati non mostravano segni di ferite alla testa, entro dicembre 1914 fino al 10% degli ufficiali britannici e il 4% degli uomini arruolati stavano vivendo “uno shock nervoso e mentale”, il numero di casi aumentò nel 1915 e nel 1916; tuttavia, rimase poco compreso dal punto di vista medico e psicologico.

Myers ipotizzò che le lesioni cerebrali fossero una conseguenza della vicinanza ai bombardamenti, dovute al rumore eccessivo e all’avvelenamento da monossido di carbonio formato dalle esplosioni, ma ciò risultò infondato, in quanto i danni cerebrali erano presenti anche in soggetti lontani dai bombardamenti.

I soldati vennero portati nei manicomi, dove spesso la terapia consisteva nell’elettroshock; alcuni persero il senno, altri accusarono per tutta la vita disturbi più o meno invalidanti, il neurologo francese Joseph Babinski nel 1917 attribuì i sintomi all’isteria, disturbo che si riteneva diffuso solo tra le donne (isteros significa utero, in greco).

Suggerì quindi di curarlo come allora si trattava l’isteria femminile: con l’ipnosi, quindi propose questo tipo di trattamento ai soldati, anche ottenendone risultati promettenti ma si diffuse pure l’idea che i sintomi riportati dai soldati fossero finzioni, attuate per non tornare al fronte.

In Italia venne ritenuto sconveniente attribuire alla guerra i traumi psichici riportati dai militari dal momento che il servizio militare di leva era obbligatorio, inoltre tra gli psichiatri prevalse la teoria di una particolare vulnerabilità e predisposizione genetica alla malattia, oppure che potesse trattarsi della simulazione detta prima.

Coloro che al rientro dal fronte manifestavano strani comportamenti e che venivano indubitabilmente assolti dall’accusa di “simulazione”, venivano spediti nei manicomi: in Italia a fine 1918 si ospitarono circa 40.000 pazienti per i quali la cura definitiva era l’elettroshock da 70 volt.

Gli psichiatri italiani iniziarono ad indagare, iniziarono con i disturbi mentali dei soldati utilizzando gli studi di Lombroso, basato su analisi e rilevazioni fisiognomiche e craniometriche, attribuendo certe devianze al cosiddetto “degenerazionismo della specie”.

Marco Ezechia Lombroso, detto Cesare, era stato un medico, antropologo, filosofo, giurista e criminologo italiano, da taluni studiosi viene visto come il padre della moderna criminologia, il suo lavoro era stato fortemente influenzato dalla fisiognomica e fu uno dei pionieri degli studi sulla criminalità.

Sebbene a Lombroso vada riconosciuto il merito di aver tentato un primo approccio sistematico a questo studio, la maggior parte delle sue teorie risultano oggi destituite di ogni fondamento scientifico, tanto che molti studiosi lo definirono poi come un visionario, così, al termine di un controverso percorso accademico e professionale, Lombroso fu anche radiato, nel 1882, dalla Società italiana di Antropologia ed Etnologia.

Nonostante questo, sulla base della sua teoria sulla degenerazione psichiatrica, una corrente di pensiero sviluppatasi a partire dalla metà dell’Ottocento che ricollegava l’insorgenza delle patologie psichiatriche ad una degenerazione del sistema nervoso dovuta a fattori esterni, migliaia di soldati furono messi nei manicomi, oppure tornarono a casa destinati a cure private, e la gente prese a chiamarli «scemi di guerra».

Lo shell shock poteva manifestarsi in modalità ed intensità differenti, nelle cartelle cliniche i sintomi potevano essere definiti come esaltamento maniacale, eccitamento psicomotorio, accesso confusionale, confusione allucinatoria, confusione mentale e delirio sensoriale, tremori irrefrenabili e ovvia ipersensibilità al rumore.

Coloro che ne erano colpiti erano descritti come uomini inespressivi, che volgevano intorno a sé lo sguardo come uccelli chiusi in gabbia o che mangiavano quello che capitava, cenere, immondizia, terra e passavano inoltre dalla diarrea incontrollabile all’ansia implacabile, da tic isterici a crampi allo stomaco.

Le forme più comuni di malattie mentali riportate dai soldati riguardavano il delirio di persecuzione, l’amnesia, la perdita della capacità di esprimersi, l’incapacità di sopprimere i ricordi o la rimozione di qualsiasi cosa avesse a che fare con la guerra, la perdita temporanea delle percezioni del mondo esterno, le allucinazioni, le disfunzioni motorie, gli arresti psichici, le ossessioni ipocondriache.

I militari venivano curati nella speranza di poter ripristinare il numero massimo di uomini in guerra il più rapidamente possibile, ma quattro quinti dei soldati entrati in ospedale in stato di shock non furono mai più in grado di tornare al servizio militare.

Secondo un sondaggio militare pubblicato nel 1917, il rapporto tra ufficiali e soldati colpiti da shell shock era di 1:30, mentre secondo gli ospedali specializzati in nevrosi di guerra, il rapporto era invece di 1:6.

Se vi era una “paralisi dei nervi”, la cura consisteva in massaggi, riposo, dieta appropriata e trattamento con scosse elettriche, se veniva indicata una fonte psicologica, allora il recupero veniva accelerato con la “cura parlante”, l’ipnosi ed il riposo.

In ogni caso, i pazienti dovevano essere indotti ad affrontare la malattia in modo virile, poiché la loro reputazione di soldati e uomini aveva subito un duro colpo, manifestando i segni della “debolezza” emotiva nell’uomo.

Si diede il via libera anche all’accusa di “femminilizzazione” o di “omosessualità latente”, e a una serie di trattamenti di tipo decisamente punitivo, come le aggressioni verbali e forti scosse di corrente elettrica alla laringe (in caso di mutismo) o alle gambe (in caso di immobilità).

Inizialmente, le vittime di shock da proiettile vennero rapidamente evacuate dalla linea del fronte, in parte a causa della paura del loro comportamento spesso pericoloso e imprevedibile, ma con l’aumento delle dimensioni della British Expeditionary Force e la diminuzione della manodopera, il numero di casi di shock da proiettile divenne un problema crescente per le autorità militari.

Nella battaglia della Somme nel 1916, fino al 40% delle vittime fu colpito da shock da proiettile, il che determinò la preoccupazione per un’epidemia di vittime psichiatriche, che non poteva essere affrontata né in termini militari né finanziari.

Con la battaglia di Passchendaele del 1917, l’esercito britannico aveva sviluppato metodi per ridurre lo shell shock, a un uomo che iniziava a mostrarne i sintomi gli veniva concesso qualche giorno di riposo dal suo ufficiale medico locale, così facendo il numero di casi di shock da proiettile fu relativamente basso.

Joseph Babinski morì per le complicazioni di una patologia neurologica nel 1922, la malattia di Parkinson, mentre Myers divenne frustrato dall’opposizione alle sue opinioni durante il suo periodo nell’esercito, in particolare dall’opinione che lo shock da proiettile fosse una condizione curabile.

Dopo la guerra, Myers tornò al suo incarico a Cambridge ma anche qui era profondamente insoddisfatto, desiderava maggiori opportunità per lo sviluppo dei suoi interessi più pratici e riteneva che i circoli ufficiali e accademici mostrassero poco interesse genuino per la psicologia.

Dal 1922 Myers si dedicò allo sviluppo del National Institute of Industrial Psychology che aveva fondato con Henry John Welch nel 1921, i suoi sforzi sono stati definiti “una lotta pionieristica ma frustrante per far accettare le prove psicologiche e la psicologia applicata”.

Fu così sconvolto dal rifiuto delle sue idee da parte delle autorità militari che si rifiutò di fornire prove al Southborough Committee sullo shell shock perché, come scrisse nel 1940, “il ricordo del mio lavoro degli ultimi cinque anni si rivelò troppo doloroso per me”.

Ma questa, è un’altra storia.

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Alfred Bigland – I battaglioni Bantam

S:2-Ep:54

Alfred Bigland è una persona qualunque.

Alfred nacque il 15 marzo 1855 nel Regno Unito, fu istruito alla scuola quaker di Sidcot, ma essendo un sostenitore della prima guerra mondiale, filosofia contraria a quella dei Quakers, si dimise dalla sua comunità nel 1914, quando l’Inghilterra dichiarò guerra all’impero asburgico.

I Quakers, o quaccheri in italiano, sono persone che appartengono alla Religious Society of Friends, un insieme di denominazioni cristiane storicamente protestanti, i membri si chiamano l’un l’altro come Friends, fratelli, come nel passo della Bibbia di Giovanni 15:14, ma venivano anche chiamati Quackers (terremotati) perché il fondatore del movimento, George Fox, disse ad un giudice di “tremare” “davanti all’autorità di Dio”.

Alfred Bigland fu un deputato eletto al Parlamento inglese tra le file dei conservatori ed unionisti alle elezioni generali del dicembre 1910, nella circoscrizione di Birkenhead e rieletto nel 1918 nella nuova circoscrizione di East Birkenhead, rimanendo in carica fino alla sconfitta delle elezioni generali del 1922 da parte di un liberale.

Durante la prima guerra mondiale, fu responsabile dell’acquisto di quantità ingenti di glicerina, elemento utilizzato per la fabbricazione della cordite, un tipo di polvere da sparo a basso potere dirompente a base di nitroglicerina, nitrocellulosa e oli minerali, usato essenzialmente per le cariche di lancio nelle armi da fuoco, da quelle portatili alle artiglierie navali.

Ma fece anche altro, Bigland convinse anche il War Office ad abbassare l’altezza minima per le reclute inglesi, l’esercito necessitava di uomini e così facendo consentì la formazione di nuovi soldati, ma non lo fece solo per quello, questi uomini erano tutti di bassa statura, soprannominati successivamente “battaglioni Bantam”.

Un bantam, nell’uso dell’esercito britannico, era un soldato di altezza inferiore alla minima regolamentare di 5 piedi e 3 pollici (160 cm), durante la prima guerra mondiale l’esercito britannico creò battaglioni in cui il requisito minimo di altezza normale per le reclute fu ridotto a meno di 5 piedi (150 cm), ciò consentì l’arruolamento di giovani uomini bassi ma assolutamente virgulti.

Le unità Bantam si arruolavano da aree industriali e minerarie dove la bassa statura non era un segno di debolezza, il nome derivava dalla città di Bantam in Indonesia, da cui si dice abbia avuto origine una razza di piccoli polli domestici, nota per essere combattente e grintosa.

Bantamweight è anche una categoria di peso nel pugilato che ha avuto origine negli anni ’80 del XIX secolo e che ha prodotto anche molti pugili degni di nota, quello che oggi in Italia chiamiamo ancora pesi gallo.

I primi “battaglioni bantam” furono reclutati a Birkenhead, nel Cheshire, dopo che Alfred Bigland venne a conoscenza di un gruppo di minatori che, respinti da ogni ufficio di reclutamento, si erano diretti in città.

A dir la verità ci sono due storie su come Bigland ebbe l’idea per i Bantams, una è che quattro minatori camminarono da Durham a Birkenhead per arruolarsi nel Cheshire Regiment e furono respinti perché non soddisfacevano i requisiti minimi di altezza, nonostante fossero pienamente sani per prestare il servizio militare.

L’altra, la storia registrata nelle memorie di Bigland, The Call of Empire, riguarda un uomo che aveva cercato di arruolarsi in cinque diversi uffici di reclutamento, ma ogni volta gli fu rifiutato perché era alto cinque piedi e due pollici anziché l’altezza regolamentare dell’esercito di cinque piedi e tre pollici.

Questo giovane si offrì di combattere con chiunque nella stanza per dimostrare la sua abilità e questo spinse Bigland a considerare che c’era un’intera scorta di uomini fisicamente in forma di cui c’era bisogno in una guerra di tale portata senza precedenti.

Per la cronaca, ci vollero sei soldati per far uscire con la forza quel giovane che sfidò chiunque nella stanza, ricordate l’episodio del nostro podcast sui “dimonios” e la creazione della brigata Sassari?

Bigland chiese il permesso a Lord Kitchener di formare un battaglione composto da uomini alti tra 4 piedi e 10 pollici (147 cm) e 5 piedi e 3 pollici (160 cm), ma la dimensione del torace era di un pollice (2,5 cm) in più rispetto allo standard dell’esercito, fu così dato loro il nome di “bantam”.

Alcuni “soldati bantam” non arrivavano nemmeno ai 140 centimetri e l’unico vero problema che sorgeva era legato all’armamento, i fucili Lee-Enfield di serie erano lunghi 126 cm, la sua baionetta 42 cm compresa di impugnatura il che faceva sì che si vedevano soldati di 140 cm trasportare fucili più alti di loro.

I candidati bantam erano uomini abituati al duro lavoro fisico, e Bigland era così indignato per quello che vedeva come l’inutile rifiuto di uomini sani e pieni di spirito che chiese al War Office il permesso di istituire un’unità di combattimento sottodimensionata.

Quando il permesso fu concesso, la notizia si diffuse in tutto il paese e gli uomini a cui era stata precedentemente negata la possibilità di combattere si diressero a Birkenhead, 3.000 reclute furono accettate per il servizio in due nuovi battaglioni nel novembre 1914.

Gli uomini divennero eroi locali e il giornale locale, The Birkenhead News , onorò gli uomini del 1° e 2° Battaglione Birkenhead dei Cheshires con distintivi smaltati: “BBB” – “Bigland’s Birkenhead Bantams”.

Presto rinominati 15° e 16° Battaglione del Reggimento Cheshire, intrapresero un addestramento estenuante e prestarono servizio in alcune delle battaglie più dure della guerra, come, per esempio, la Battaglia di Arras nel 1917.

Dall’ottobre del 1916, le compagnie di scavo dei Royal Engineers iniziarono a costruire gallerie sotterranee per le truppe, la regione di Arras è gessosa e quindi facilmente scavabile; sotto la stessa Arras vi era una rete, detta boves, di caverne, gallerie e condotti fognari.

I genieri concepirono un piano per aggiungere nuovi tunnel a questa rete, affinché le truppe potessero arrivare alla zona della battaglia di nascosto e al sicuro, la portata di questo progetto fu enorme: in un solo settore quattro compagnie di scavo (di cinquecento uomini ciascuna) lavorarono ininterrottamente per due mesi su turni di diciotto ore.

Alla fine, vennero costruiti 20 chilometri di gallerie, classificate come subway (solo per uomini a piedi), tramway (con rotaie per vagoni spinti a mano, per trasportare munizioni al fronte e portare indietro feriti e cadaveri); e railway (con un sistema di ferrovia leggera).

Poco prima dell’assalto, il sistema di gallerie aveva raggiunto dimensioni tali da poter contenere 24.000 uomini, con illuminazione elettrica prodotta da piccole centrali dedicate, nonché cucine, latrine e un centro medico con sala operatoria pienamente equipaggiata.

Il grosso del lavoro fu compiuto dai neozelandesi, inclusi Maori e abitanti delle isole del Pacifico del battaglione pionieri neozelandesi, e dai Bantam dei borghi minerari dell’Inghilterra del nord.

Furono costruiti anche tunnel d’assalto, che giungevano a pochi metri dalle linee tedesche, pronti per essere aperti tramite esplosivi il primo giorno dell’attacco e in aggiunta a questo, sotto le linee del fronte, furono poste mine convenzionali anch’esse destinate a brillare all’inizio dell’azione.

Molte di queste non furono poi attivate per timore di compromettere la rete di tunnel, ma nel frattempo anche gli zappatori tedeschi stavano conducendo le proprie operazioni sotterranee, tramite lo scavo di gallerie di contromina, dei soli neozelandesi 41 persone morirono e 151 furono ferite come risultato delle contromisure tedesche.

Quando la battaglia si concluse ufficialmente, il 16 maggio, le truppe dell’Impero britannico avevano compiuto avanzate significative, ma non erano riuscite in alcun punto a ottenere successi decisivi.

L’uso, specialmente nella prima fase, di tattiche sperimentali come il fuoco di sbarramento, la spoletta a percussione e il fuoco di controbatteria, dimostrò che assalti ben studiati potevano aver successo anche contro posizioni pesantemente fortificate ma il settore, tuttavia, tornò poi alla situazione di stallo che caratterizzò gran parte della guerra sul fronte occidentale.

Altri battaglioni bantam includevano il 14° Battaglione del Reggimento Gloucestershire e il 23° Battaglione del Reggimento Manchester reclutati nel 1915 e inviati in Francia nel 1916.

Il 143° Battaglione Bantams, era un’unità della Canadian Expeditionary Force durante la prima guerra mondiale con sede a Victoria, nella Columbia Britannica , l’unità iniziò a reclutare nel 1916 in tutto il Canada occidentale.

Quando furono completamente formati, tuttavia, solo circa la metà degli uomini era al di sotto di quell’altezza standard poiché non riuscivano a trovare abbastanza uomini bassi da arruolare, il battaglione aveva le sue caserme al Beacon Hill Park e si addestrò nei mesi da luglio a ottobre 1916 al Sidney Camp.

Dopo essere salpato per l’Inghilterra nel febbraio 1917, il battaglione fu assorbito nel 1° e 24° Battaglione di Riserva e nelle truppe ferroviarie canadesi nel marzo 1917, il loro ufficiale al comando era il tenente colonnello AB Powley.

Alla fine l’intera 35a Divisione e la maggior parte della 40a Divisione furono formate da uomini “Bantam”, che furono però virtualmente annientati rispettivamente durante le Battaglie della Somme e di Cambrai.

Le pesanti perdite, i trasferimenti alle compagnie specializzate nello scavo di tunnel essendo i bantam ex minatori, i collocamenti ai reggimenti di carri armati dell’esercito che chiedevano uomini di bassa statura che si muovevano più facilmente all’interno del poco spazio disponibile dei mezzi blindati, l’introduzione della leva obbligatoria e le sostituzioni con uomini più alti, fecero sì che le unità Bantam diventassero indistinguibili dalle altre divisioni britanniche.

Ma questa, è un’altra storia.

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Aniello, Marcello ed Emilio – Musiche di guerra

S:2-Ep:53

Aniello, Marcello ed Emilio sono persone qualunque.

Venti giorni sull’Ortigara – senza il cambio per dismontà; – ta pum ta pum ta pum

Con la testa pien de peoci – senza rancio da consumar; – “ta pum ta pum ta pum”

Quando poi ti discendi al piano – battaglione non hai più soldà; – “ta pum ta pum ta pum”

Dietro al ponte c’è un cimitero – cimitero di noi soldà; – ta pum ta pum ta pum

Quando sei dietro a quel muretto – soldatino non puoi più parlar; – ta pum ta pum ta pum

Cimitero di noi soldati – forse un giorno ti vengo a trovà; – ta pum ta pum ta pum

In quegli anni gli alpini elaborarono alcune delle canzoni che oggi fanno parte del repertorio dei canti di montagna, come il sopra citato Tapum, il titolo ed il ritornello sono ispirati al rumore degli spari sul campo di battaglia: il “TA” è il rumore dell’innesto della pallottola e il “PUM” il rumore dello sparo dei fucili Steyr Mannlicher m1895 in dotazione alle truppe austro-ungariche.

Monte Canino, che fa riferimento al Monte Canin in provincia di Udine, teatro, durante la prima guerra mondiale di aspri combattimenti tra l’esercito italiano e quello austriaco, Monte Nero, che racconta quando il 16 giugno 1915 i battaglioni del 3º Reggimento Alpini, comandato dal colonnello Donato Etna, con un’azione notturna occuparono la cima del Monte Nero, nelle alpi Giulie, esempio di brillante azione bellica che ebbe però un costo assai elevato in termini di vite umane; e altre ancora parlano delle imprese epiche dei militari della Grande Guerra, ma la canzone più cantata dagli alpini fu un brano che non ha relazione con la guerra stessa ma che divenne allora famoso in tutt’Italia, e cioè Quel mazzolin di fiori.

Con questo nostro 53° episodio festeggiamo il primo anno del nostro podcast e, come è usanza nei festeggiamenti, non può certo mancare la musica, e visto che ci teniamo ad essere coerenti, parleremo oggi della musica della prima guerra mondiale.

I soldati soffrivano fisicamente e moralmente durante le dure battaglie della grande guerra; al tempo si diffuse un modo di dire entrato poi nella lingua corrente: “Canta che ti passa”.

Anche la canzone napoletana diede alla luce alcuni brani in cui il protagonista era un soldato, ad esempio ‘Sentinella’ e ‘O primmo reggimento’, il più famoso di essi fu certamente ‘O surdato ‘nnammurato di Aniello Califano.

Aniello Michele Califano nacque a Sorrento il 19 gennaio 1870, il 24 maggio del 1915 il generale Cadorna firmava il bollettino di guerra numero 1, l’ottava delle undici canzoni pubblicate da Califano in quell’anno si intitolò, per l’appunto, ‘O Surdato ‘nnammurato e descriveva la tristezza di un soldato che combatteva al fronte durante la prima guerra mondiale e che soffriva per la lontananza dalla donna di cui era innamorato.

Ma la frustrazione del continuo della prima guerra mondiale andò più in là, la durezza della guerra di trincea e l’enorme numero di vittime cadute per conquistare pochi metri di terreno suscitarono nei soldati sentimenti di rabbia che si espressero in canzoni come La tradotta che parte da Novara e O Gorizia tu sei maledetta.

Gorizia tu sei maledetta, semplicemente ricordata come Gorizia, faceva riferimento alla Sesta battaglia dell’Isonzo in cui persero la vita circa 21 000 soldati italiani e 9 000 soldati austroungarici, la versione originale venne raccolta secondo la testimonianza di un uomo che l’aveva ascoltata dai fanti durante la presa di Gorizia, il 10 agosto.

Ma la canzone, nata dalla frustrazione dei soldati italiani che aveva portato alla conquista della missione al prezzo di un alto costo in vite umane, era considerata come immorale, disfattista e di stampo anti-bellico dai vertici militari italiani, che decretarono che chiunque fosse stato sorpreso a cantarla, sarebbe stato passato per le armi.

Dall’altra parte anche i soldati trentini cantavano testi antimilitaristi come Sui monti Scarpazi, un canto di trincea dei kaiserjäger austriaci di lingua italiana mandati in Galizia nel 1914 e in Romania nel 1917 a combattere sui monti Carpazi, alcune di queste canzoni di protesta individuavano i responsabili del conflitto, che indicavano negli studenti (Ascoltate o popolo ignorante) e nei signori (E quei vigliacchi di quei signori/Cadorna).

Fra i pochi canti entusiasti, che esaltavano le azioni militari, c’erano quelli cantati dagli arditi, i quali elaborarono un proprio canzoniere: Fiamme nere, Se non ci conoscete, e soprattutto Giovinezza.

Nella versione di Marcello Manni, canzoniere, divenne poi la base del repertorio fascista, l’inno fu cantato dai reparti d’assalto impegnati, dopo Caporetto, sulla linea del Piave.

Manni era reduce dal fronte di guerra cui aveva partecipato meritando una medaglia di bronzo al valor militare, aderì poi al movimento fascista che si stava formando a Firenze intorno ad Alessandro Pavolini.

Successivamente però, cioè dopo il fervore dell’immediato dopoguerra e del consolidamento del regime fascista, Manni sembrò disinteressarsi alla politica e non ebbe alcun ruolo nelle vicende che segnarono l’affermarsi dell’egemonia mussoliniana.

Nel 1943, alla caduta del fascismo e in pieno marasma istituzionale, fu però naturalmente riassorbito dalla sua famiglia ideologica e aderì alla Repubblica di Salò, mettendo la sua esperienza di giornalista a disposizione del declinante regime.

La rotta di Caporetto e il conseguente disordine hanno lasciato poche tracce in musica, si può ricordare Adio Venesia adio, cantata dai profughi che fuggivano dalle zone occupate dagli Austriaci, o che si temeva potessero esserlo, come appunto Venezia.

Invece la successiva resistenza sulla linea del Piave e sul Monte Grappa contro l’invasione austriaca di una parte del territorio nazionale ispirarono canzoni patriottiche di successo come quelle di E. A. Mario, pseudonimo di Giovanni Ermete Gaeta, un paroliere e poeta italiano, autore di numerose canzoni di grande successo di quel periodo tra cui La canzone del Piave.

La leggenda del Piave, in particolare, fu così popolare che nel difficile periodo successivo all’8 settembre fu scelta come inno nazionale italiano, in cui tutti potessero riconoscersi al di sopra delle divisioni politiche.

Ma oltre ad essa, si cantava anche la Canzone del Grappa i cui autori furono il capitano Antonio Meneghetti, che su sollecitazione del generale Emilio De Bono, Comandante del IX Corpo d’Armata, scrisse di getto la musica il 5 agosto 1918 presso Villa Dolfin Boldù di Rosà, e lo stesso De Bono scrisse il testo prendendo spunto da una scritta anonima apparsa sui muri di una casa della Val Cismon, allora occupata dall’esercito austriaco, che recitava appunto: «Monte Grappa tu sei la mia Patria».

Emilio De Bono fu poi anche un membro del Partito Nazionale Fascista fu uno dei quadrumviri della marcia su Roma.

Maresciallo d’Italia e membro del Gran Consiglio del Fascismo, De Bono partecipò alla guerra italo-turca, alla prima guerra mondiale e alla guerra d’Etiopia. In quest’ultima comandò l’esercito Italiano durante le prime fasi della guerra.

Anche le vicende editoriali delle canzoni della Grande Guerra sono significative, la maggior parte di esse furono infatti incise su disco negli stessi anni in cui venivano scritte.

Alcuni repertori, invece, come quelli degli alpini e degli arditi, non vennero immediatamente registrati, ma furono raccolti in canzonieri negli anni successivi.

La vicenda più tribolata fu in ogni modo quella di O Gorizia tu sei maledetta, questo canto non fu eseguito pubblicamente fino al 1964, e quando ciò avvenne, al Festival dei Due Mondi di Spoleto, gli esecutori Michele Straniero e il gruppo del Nuovo Canzoniere Italiano, furono denunciati per vilipendio delle forze armate.

Ma questa, è un’altra storia.

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Sarah, Gabrielle e Martha – Segreti di donne

S:3-Ep:52

Sarah, Gabrielle e Marthe sono persone qualunque.

In questo episodio parleremo degli agenti segreti donna della prima guerra mondiale, quei pochi che ci è dato a sapere e per quel poco che sappiamo, d’altronde, che agenti segreti sarebbero stati altrimenti.

Dopo l’episodio su Margaretha Zelle, meglio conosciuta come Mata Hari, oggi racconteremo le storie di Sarah, Gabrielle e Marthe, tre donne uniche della prima guerra mondiale.

Sarah Aaronshon nacque e morì a Zikhron Ya’aqov, in Palestina, che a quel tempo era una provincia dell’Impero ottomano, visse per un breve periodo a Istanbul, fino al 1915, epoca in cui ritornò a casa per fuggire da un matrimonio infelice.

Sulla via del ritorno tra Istanbul e Haifa Sarah assistette personalmente al genocidio armeno, nella sua testimonianza descrisse di aver visto centinaia di corpi di uomini, donne, bambini e malati armeni caricati su treni ed di un massacro di circa 5.000 armeni scagliati su piramidi di rovi in fiamme, episodio che la convinse ad aiutare le forze britanniche.

Sarah, i suoi fratelli Aaron ed Alex e il loro amico Avshalom Feinberg fondarono e guidarono il Nili, un acronico della frase tradotta dall’ebraico in: “La Gloria di Israele non cadrà”, era un’organizzazione spionistica ebraica che lavorava per il Regno Unito nei combattimenti in Palestina contro l’Impero ottomano durante la prima guerra mondiale.

Sarah sovraintendette alle operazioni del gruppo di spionaggio e passò informazioni agli agenti britannici e quando Aaron Aaronsohn era fuori guidava le operazioni di spionaggio in Palestina.

Viaggiò spesso lungo il vasto territorio dell’Impero ottomano raccogliendo importanti indicazioni utili per i britannici e portandole direttamente in Egitto; nel 1917 Alex discusse con lei sull’opportunità di rimanerci in Egitto, all’epoca sotto controllo britannico, poiché temeva ritorsioni da parte delle autorità ottomane, ma lei preferì ritornare a Zichron Ya’aqov per continuare le attività del Nili.

Nel settembre del 1917 gli ottomani catturano il suo piccione viaggiatore mentre portava un messaggio ai britannici e decriptarono il codice Nili, in ottobre gli ottomani circondarono Zikhron Ya’aqov ed arrestarono molte persone, Sarah inclusa.

Dopo quattro giorni di tortura si suicidò sparandosi un colpo di pistola per evitare altre angherie e per proteggere i suoi colleghi, nella sua ultima lettera espresse la speranza che con le sue attività nel Nili si sarebbe avvicinata la realizzazione di una nazione ebraica nella terra di Israele.

Gabrielle Petit, invece, nacque a Tournai da Jules Petit, rappresentante commerciale e Aline-Irma Ségard, la nonna paterna era figlia del barone Doncquers e la famiglia Petit era legata a quella del ministro della giustizia Jules Bara.

La famiglia aveva gravi problemi economici e Gabrielle, all’età di nove anni e dopo la perdita della madre, venne messa prima in un collegio gestito dalle suore del Sacré-Cœur a Mons e poi in un orfanotrofio a Brugelette, dove restò per sette anni.

Quando il padre si risposò, la seconda moglie accolse prima il fratello e, solo in un secondo tempo e dopo aver scoperto dell’esistenza di altre due sorelle, cercò di riunire la famiglia; così Gabrielle lasciò l’orfanotrofio nell’agosto del 1908 ma le relazioni con il padre erano molto difficili e, dopo pochi mesi, si trasferì a Bruxelles, dove trovò lavoro in un negozio di abbigliamento, cambierà poi lavoro molte volte.

Nel 1914 il Belgio fu invaso e il suo fidanzato, Maurice Gobert, venne ferito nei primi scontri, seguirono mesi molto difficili per entrambi; la ragazza non era ben vista dalla famiglia di lui, che si oppose alla relazione, ed il giovane dovette nascondersi per non essere arrestato dai tedeschi.

Sempre in quei mesi Gabrielle iniziò a lavorare per la Croce Rossa belga, i due fidanzati riuscirono ad attraversare la frontiera e raggiunsero i Paesi Bassi, da lì passarono poi in Inghilterra, dove nel mese di luglio Gabrielle ricevette una formazione allo spionaggio dagli alleati.

Dopo soli quindici giorni, lei e gli altri tre belgi che avevano seguito la sua stessa formazione furono rinviati in patria e nell’agosto del 1915 rientrò con il compito di fornire informazioni sui movimenti tedeschi nell’Hainaut e nel nord della Francia.

Le informazioni venivano inviate nei Paesi Bassi o direttamente a Londra, all’inizio usava dei corrieri, molti dei quali lavoravano per la Croce Rossa e così gli inglesi iniziarono a considerarla tra i loro agenti più affidabili in Belgio.

Passò poi a scrivere i messaggi su foglietti sottilissimi, che infilava nel doppio strato delle cartoline che poi rincollava e spediva; oltre allo spionaggio, che eseguiva con il nome di battaglia di Legrand, trasmetteva messaggi ai soldati prigionieri, organizzava il passaggio della frontiera per i soldati olandesi rimasti bloccati oltre le linee nemiche e distribuiva giornali clandestini.

Fu arrestata una prima volta ad Hasselt, ma riuscì a scappare, il 20 gennaio 1916 venne nuovamente arrestata a Bruxelles e trasferita alla Kommandantur, lì fu sottoposta a interrogatorio e la sua residenza perquisita, ma non ci furono prove di un suo coinvolgimento nello spionaggio.

Le venne offerta l’amnistia se avesse rivelato il nome dei suoi compagni, ma Gabrielle rifiutò e il 2 febbraio venne trasferita nella prigione di Saint-Gilles, il 3 marzo fu condannata a morte.

La condanna venne eseguita il 1º aprile in un complesso militare situato nel comune di Schaerbeek, al soldato che le offrì la benda per gli occhi rispose: “Non ho bisogno del tuo aiuto. Vedrai che una giovane donna belga sa morire”, al momento della fucilazione gridò: “Lunga vita al Belgio. Lunga vita al re”, aveva solamente 23 anni.

L’ultima storia di oggi riguarda la quattordicenne Marthe Betenfeld, che si impiegò nel 1903 a Nancy come apprendista sarta, ma già a sedici anni fu registrata dalla polizia come prostituta, a seguito della denuncia presentata da un soldato che l’accusò di avergli trasmesso la sifilide fu costretta a lasciare la città e a esercitare la prostituzione a Parigi, nel bordello di rue Godot-de-Mauroy.

Lì, nel 1907, a diciotto anni, conobbe e sposò Henri Richer, ricco industriale che lavorava a Les Halles: il nome con cui divenne nota, Richard, proviene dall’adattamento del suo cognome da sposata.

Nel 1914 partecipò alla fondazione dell’Unione Patriottica delle Aviatrici francesi e due anni dopo, nel 1916, perse suo marito in guerra, una volta vedova, fu reclutata come agente segreto da un suo amante, un giovane anarchico russo, che lavorava per il Secondo Reparto della difesa francese, da cui dipendeva anche la famosa Mata Hari, agli ordini di Ladoux, un capitano dell’intelligence militare francese.

Il suo compito fu quello di carpire informazioni all’addetto navale tedesco a Madrid von Krohn, e per far ciò si finse la sua amante, di ritorno in Francia, scoprì che Ladoux era stato accusato di doppio gioco con i tedeschi e arrestato.

Nel 1926 Marthe Richer sposò Thomas Crompton, uomo d’affari britannico, direttore finanziario della fondazione Rockefeller ma il matrimonio durò pochissimo, perché Crompton morì a Ginevra nel 1928, lasciando Marthe vedova per la seconda volta a 39 anni.

Quando la Francia fu coinvolta nella seconda guerra mondiale e occupata dalla Germania di Hitler, Marthe Richard riuscì a rendersi invisibile alla Gestapo diventando amante di François Spirito, gangster marsigliese che, dopo la guerra, si scoprì essere collaborazionista dei nazisti, poté così continuare la sua attività spionistica, anche se non mancarono a posteriori critiche e aspetti controversi dovuti alle sue frequentazioni.

Eletta nel 1945 al consiglio del quarto arrondissement di Parigi, si batté per la chiusura delle case di tolleranza in quel distretto cittadino, riuscita nel suo intento, fece di quella locale una battaglia nazionale e nel 1946 fu abolito il registro nazionale della prostituzione.

Tutti i quasi 180 bordelli di Parigi, molti anche storici, furono chiusi e analoga sorte toccò a quelli dell’intero Paese, moltissime case furono riconvertite e le tenutarie divennero proprietarie alberghiere, la legge non rese illegale la prostituzione, ma ne proibì l’istigazione e lo sfruttamento.

Tale legge è nota tuttora in Francia come “legge Richard” e, nel suo impianto, è sostanzialmente analoga a quella che dodici anni più tardi, su iniziativa della senatrice socialista Lina Merlin, abolì in Italia le case di tolleranza e penalizzò lo sfruttamento della prostituzione e che divenne nota come “Legge Merlin”.

Nel 1948 Marthe Richard fu oggetto di uno scandalo relativo alla cittadinanza, in seguito al citato matrimonio con Thomas Crompton, essa avrebbe perso la cittadinanza francese per aver acquisito quella britannica: dunque, sia il suo voto, che la sua elezione, che tutti gli atti da lei effettuati durante la sua carica pubblica avrebbero dovuto essere considerati illegali.

In difesa di Marthe Richard accorse il direttore di Crapouillot Jean Galtier-Boissière, che ne sottolineò i non meglio precisati servizi alla nazione. e in aggiunta nel 1952, la Richard fu accusata di furto e ricettazione in seguito alla sua citata familiarità con il malvivente marsigliese Spirito.

Ma un ispettore della Sûreté, Jacques Delarue, esperto in “falsi eroi di guerra” e millantatori, dopo due anni di indagini giunse alla conclusione che nulla poteva essere sollevato a carico di Marthe Richard.

Negli anni sessanta, una volta intrapresa l’attività letteraria, fondò un premio di letteratura erotica, in seguito Marthe Richard ammise di aver rivisto parzialmente le sue posizioni sulla prostituzione e fino alla sua morte tenne conferenze e dibattiti pubblici sulla sua carriera di agente segreto.

Marthe Richard morì a Parigi nel 1982 all’età di 93 anni, unica delle sopracitate, compresa Mata Hari, a non venire uccisa dalla sua attività di agente segreto donna della prima guerra mondiale.

Ma questa, è un’altra storia.

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Sepp Innerkofler – La pattuglia volante

S:3-Ep:51

Joseph Innerkofler è una persona qualunque.

Joseph, detto “Sepp”, era nato nel Maso Unteradamer a Sesto, nell’allora Tirolo facente parte dell’Impero austro-ungarico, il giovane Sepp era il quarto figlio di Christian, contadino e scalpellino, con cui trascorse i primi anni di vita prima di trasferirsi nell’Alta Pusteria presso altri contadini.

Amante della montagna e della sua valle natia, dopo alcuni anni di lavoro in una segheria durante i quali dedicò il tempo libero alla caccia e all’arrampicata, nel 1889 ottenne il brevetto di guida alpina dal Deutscher und Österreichischer Alpenverein decidendo quindi di impiegare la sua vita in questa attività.

Le sue ottime capacità alpinistiche e la sua intraprendenza lo resero in breve tempo un personaggio famoso e ricercato dai facoltosi di tutta Europa che volevano essere accompagnati sulle montagne dolomitiche, e con questa attività iniziò a guadagnare anche discrete somme di denaro.

Poco dopo sposò Maria Stadler, da cui ebbe sette figli, e in seguito aprì un rifugio su monte Elmo, tre anni dopo aprì la Dreizinnenhütte, (oggi rifugio Antonio Locatelli) sulle Tre Cime di Lavaredo, e successivamente anche il rifugio Zsigmondy.

Con i proventi della gestione dei rifugi, nel 1903 costruì a Sesto «villa Innerkofler» e cinque anni dopo aprì in Val Fiscalina l’albergo Dolomiten, dotato dei più moderni comfort per l’epoca.

Grazie all’afflusso turistico creatosi, migliaia di persone iniziarono a interessarsi alle Dolomiti e Innerkofler diventò uno degli uomini più ricchi e famosi della valle di Sesto, conosciuto negli ambienti alpinistici di tutta Europa.

Sepp aveva fatto parlare di sé appena ventenne per la straordinaria scalata della parete nord della piccola Zinne, la Cima Piccola di Lavaredo, il 28 luglio 1890, assieme a due amici e da allora iniziò ad accompagnare centinaia di persone in montagna.

Il 28 luglio 1914, quando scoppiò il conflitto, l’allora quarantanovenne Innerkofler, ritenuto troppo anziano per la guerra, non venne arruolato, ma quando le battaglie tra Austria-Ungheria e Italia si avvicinarono alle sue montagne, il 19 maggio 1915 decise di partire volontario fra gli Standschützen, formazioni tirolesi nate da nuclei di volontari di tiratori scelti, il cui impiego in guerra era previsto non lontano dalle loro sedi di appartenenza.

La zona dove venne chiamato ad operare Innerkofler fu il “V Rayon”, ossia il settore compreso tra il passo Pordoi e il monte Peralba e il 20 maggio venne costituita la «Pattuglia volante» composta da Innerkofler e dalle guide alpine con il compito di pattugliare continuamente il tratto di fronte montano con l’obiettivo di scoprire le iniziative nemiche, indirizzare il tiro delle artiglierie e trovare i percorsi migliori per lo spostamento delle truppe.

Tre giorni prima della dichiarazione di guerra, Innerkofler scalò per l’ultima volta in solitaria la vetta a lui forse più cara, il monte Paterno; furono le ultime ore di pace: infatti due giorni dopo, quando venne incaricato di scalare con la sua pattuglia nuovamente il Paterno per indirizzare il tiro delle artiglierie, la guerra ormai imperversava su tutto il fronte.

Dal monte Paterno, il 25 maggio, Innerkofler fu costretto a vedere gli italiani colpire con l’artiglieria il suo rifugio, incendiandolo nonostante la grande bandiera con la Croce Rossa che sventolava sul rifugio Dreizinnenhütte, erano infatti convinti che lo stabile non ospitasse feriti o malati, ma che la bandiera della Croce Rossa nascondesse in realtà un deposito di munizioni o un comando austriaco.

Nel corso della notte di due giorni dopo Innerkofler salì nuovamente sul Paterno per dirigere il fuoco di artiglieria sulle posizioni italiane, mentre, dietro loro suggerimento, il comandante dei Landstürmer decise di attaccare la Forcella di Lavaredo.

Ma appena gli austriaci avanzarono, furono presi di mira dal fuoco dei fucilieri italiani appostati sulla sinistra della base del Paterno; le due guide alpine dall’alto aprirono il fuoco contro gli italiani che si ritirarono ritenendo il monte già in mano nemica.

Innerkofler gridò quindi ai Landstürmer di continuare ad avanzare verso la forcella ormai sgombra, ma gli austriaci sospesero l’attacco, probabilmente a causa di un ordine telefonico impartito da un ufficiale dalla Val Pusteria.

Il 29 maggio un plotone di alpini, sfidando una bufera di neve, salì sulla vetta del Paterno, stabilendovi un presidio e causando notevoli preoccupazioni per il comando austriaco, avrebbe ora consentito agli italiani di minacciare gravemente lo schieramento austro-ungarico sull’altopiano delle Tre Cime e dirigersi verso la Val Pusteria.

Seguirono settimane di intensa attività per la guida e la sua pattuglia, mentre gradualmente gli ufficiali di carriera si resero conto che in questo settore era possibile organizzare una difesa efficiente soltanto a condizione di far operare pattuglie composte da ex-guide alpine agli ordini di Innerkofler, che potevano sfruttare la sua enorme conoscenza dei luoghi.

La guida operò instancabilmente tra Kreuzberg e le Tre Cime, dispensando consigli ai comandanti, e probabilmente fu grazie alla molta considerazione che questi avevano di lui che furono respinti gli attacchi italiani dal Rotwand all’Elfer, da Cima Dodici all’Einser.

Il 2 giugno Innerkofler con i suoi uomini scalò Cima Undici e cinque giorni dopo monte Popera, dal quale la vista poteva giungere fino al mare, gli italiani si resero conto che il fronte si stava chiudendo in un cerchio inespugnabile e che il lavoro delle guide austriache avrebbe presto consentito al nemico di occupare le cime del settore.

Il 18 giugno Innerkofler scalò nuovamente Cima Undici, aprendo un cammino mai percorso prima, con lo scopo di sorprendere e venire a contatto con le pattuglie degli alpini che da sud cercavano di avanzare dentro il massiccio montano.

Con due audaci azioni la “Pattuglia Volante” ricacciò indietro gli italiani e al suo ritorno Innerkofler fu promosso sergente maggiore e ricevette la medaglia al valore di seconda classe.

Successivamente Innerkofler tornò a Cima Undici dove poté notare che le truppe italiane stavano lentamente avanzando fino a Forcella Giralba; ne seguì un violento scontro a fuoco con gli alpini, che furono costretti a retrocedere; per questa azione gli venne assegnata la medaglia d’argento.

Tornò poi nella zona presso le Tre Cime, dove accadde ciò che Innerkofler aveva tentato invano di spiegare ai comandi: secondo lui il monte Paterno sarebbe stato da occupare in anticipo rispetto agli italiani, ma ormai era tardi, e pochi giorni prima la vetta era stata occupata dai nemici.

Così nella seconda metà del mese di giugno il feldmaresciallo Ludwig Goiginger in persona intervenne per organizzare un attacco per riprendere la vetta del Paterno, a cui avrebbero partecipato pochi uomini.

Sepp Innerkofler si disse molto perplesso sull’azione, giudicata dall’esperta guida molto difficile: lui e i suoi uomini avrebbero dovuto compiere un’ascesa di per sé stessa molto impegnativa appesantiti dalle armi, per poi giungere in vetta e ingaggiare una battaglia contro forze numericamente superiori, ma l’azione era ormai decisa e Innerkofler, per non passare da vigliacco, vi volle prender parte impedendo però al figlio di seguirlo.

Nella notte tra il 3 e il 4 luglio iniziarono la scalata del Paterno e al sorgere del giorno arrivarono poco sotto la vetta, la batteria austriaca quindi aprì il fuoco verso la zona presidiata da una manciata di alpini, mentre in basso una piccola schiera di Schützen iniziò ad avanzare verso Forcella del Camoscio.

Dopo pochi minuti di bombardamento Sepp Innerkofler sventolò una piccola bandiera gialla, ordinando di cessare il bombardamento e iniziò quindi la breve scalata verso la vetta, ma la reazione degli alpini fu immediata; mitragliatrici e artiglieria aprirono il fuoco contro le due colonne degli attaccanti.

La squadra inviata contro la forcella fu rapidamente costretta a ritirarsi a causa dell’intenso fuoco degli alpini proveniente dalla forcella stessa e dal fuoco amico proveniente dall’Alpe dei Piani, dove gli austriaci non erano stati informati dell’azione.

Più in alto, ormai a poco meno di dieci metri dalla cima, Innerkofler iniziò il suo attacco lanciando una prima bomba a mano contro gli alpini a cui non seguì nessuna esplosione; quindi tentò una seconda volta, ma anche questa non esplose, fu in questo frangente che Sepp Innerkofler cadde per mano dei difensori italiani in circostanze mai del tutto chiarite.

L’azione ebbe esito negativo e gli attaccanti si ritirarono e ridiscesero a valle, nei giorni seguenti gli alpini tentarono invano di recuperare la salma, impediti però dalle difficoltà tecniche e dal tiro degli austriaci, che dalle loro postazioni mitragliavano chiunque si mostrasse.

La salma di Sepp Innerkofler venne recuperata solo alcuni giorni dopo per iniziativa del portaferiti Angelo Loschi, che con un alpino, sotto il fuoco nemico, riuscì con grande difficoltà a recuperare il corpo dal Camino Oppel.

Sulle cause che portarono alla morte della famosa guida austriaca nacquero fin da subito alcune divergenze, soprattutto legate alle diverse testimonianze discordanti: alcuni riportarono che fu una pallottola a colpire in fronte Sepp Innerkofler, mentre altri affermarono che mentre stava attaccando, sopra a Sepp, apparve la figura dell’alpino Pietro De Luca, del battaglione Val Piave, che con un masso colpì in pieno la guida austriaca facendola precipitare dentro il “camino Oppel”.

A più di sessant’anni di distanza, il più giovane dei figli di Sepp, Joseph Innerkofler, fornì una inedita versione secondo la quale il padre venne ucciso nella concitazione dell’attacco dal fuoco di una mitragliatrice austriaca situata sulla forcella di San Candido, e stabilmente puntata verso la vetta del Paterno.

Non esistono risposte certe, e dopo il recupero della salma non fu possibile accertare le cause della morte dato che sia nel caso di un colpo di arma da fuoco, sia nel caso fosse stato colpito da un masso, il corpo precipitato per molti metri in un canalone rimase per molto tempo esposto a lesioni sia a causa di massi caduti sia per possibili colpi da arma da fuoco.

La riesumazione dalla vetta del Paterno nel 1918 non riuscì a fugare i dubbi, come neppure le discordanti testimonianze, ma più delle cause della sua morte fu soprattutto il ricordo e i sentimenti che hanno circondato la figura di Innerkofler a renderlo famoso e amato, la sua figura raggiunse giustamente una fama leggendaria.

Ma questa, è un’altra storia.

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Armando Diaz – Il Duca della vittoria

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Luigi Cadorna – La disfatta di Caporetto

S:2-Ep:49

Luigi Cadorna è una persona qualunque.

Luigi nasce a Pallanza il 4 settembre 1850, figlio di Raffaele Cadorna, a sua volta un generale e politico italiano che fu al servizio prima del Regno di Sardegna e poi del Regno d’Italia.

La sua carriera militare parte nel 1860 quando fu avviato dal padre agli studi militari: dapprima alla Scuola militare “Teulié” di Milano e cinque anni dopo all’Accademia Reale di Torino, poi ammesso come allievo nella neonata Scuola di Guerra di Torino venendo nominato sottotenente nell’arma d’artiglieria nel 1868.

Capitano nel 1880, nel 1883 venne promosso al grado di maggiore e assegnato allo Stato Maggiore del Corpo d’armata del generale Pianell, assunse la carica di capo di Stato Maggiore del comando divisionale di Verona e nel 1892 venne promosso colonnello, ottenne il primo incarico operativo in qualità di comandante del 10º Reggimento bersaglieri, mettendosi in evidenza per la sua rigorosa interpretazione della disciplina militare e per il frequente ricorso a dure sanzioni che gli costeranno anche richiami scritti dai suoi superiori.

Nel 1896, abbandonati gli incarichi operativi, assunse la carica di capo di Stato Maggiore del Corpo d’armata di Firenze; durante la licenza del Comandante Gen. Morra, nel 1898, con la promozione a tenente generale, entrò a far parte della ristretta cerchia degli alti ufficiali dell’esercito.

Nel 1905 assunse il comando della divisione militare di Ancona e nel 1907 fu a capo della divisione militare di Napoli con il grado di tenente generale, giungendo infine ai massimi vertici delle forze armate, nello stesso anno venne fatto per la prima volta il suo nome come possibile successore del generale Tancredi Saletta, che godeva di pessima salute, alla suprema carica di capo di Stato Maggiore dell’esercito.

Divenne capo di Stato maggiore generale nel 1914, dopo l’improvvisa morte del generale Alberto Pollio con cui aveva sempre avuto scontri diplomatici in passato, e diresse le operazioni del Regio Esercito nella prima guerra mondiale dall’entrata dell’Italia nel conflitto, il 24 maggio 1915, fino alla disfatta di Caporetto.

Secondo quanto previsto dal trattato della Triplice Alleanza, Cadorna cominciò a organizzare l’esercito per l’intervento contro la Francia, a causa della assoluta mancanza di comunicazioni tra politici e militari non fu informato del fatto che il governo stava studiando la possibilità di abbandonare i suoi attuali alleati.

Il 31 luglio, lo stesso giorno in cui il gabinetto decise la neutralità, Cadorna inviò al Re il suo piano di guerra che contemplava lo spiegamento di un intero corpo d’armata a fianco della Germania contro i francesi, piano che venne approvato da Vittorio Emanuele il 2 agosto, mentre contemporaneamente veniva proclamata la neutralità.

La confusionaria situazione politica non mise nessuno in allerta sulle prese di posizione del Capo dello Stato Maggiore dell’esercito, che nell’arco di poche ore in base agli accadimenti politici erano radicalmente cambiate, sempre senza nessuna valutazione delle proprie forze in campo.

Agli inizi di ottobre del 1914, Cadorna incarica il generale Vittorio Zupelli di preparare l’esercito ad una guerra ormai prossima, nelle intenzioni di Zupelli vi era il disegno di rendere operativi e armati, entro la tarda primavere del 1915, 1.400.000 uomini.

Dopo le prime disposizioni per una mobilitazione parziale segreta il 23 aprile, il 4 maggio con l’uscita dell’Italia dalla triplice Alleanza viene avviata la mobilitazione generale nella prospettiva di scendere in guerra contro l’Austria-Ungheria entro il giorno 26 dello stesso mese.

Cadorna così formò e armò un grande esercito, facendo anche costruire numerosi tracciati per rifornirlo di uomini e mezzi, tra cui la strada Cadorna, non ebbe però modo di comprenderne appieno tutti i punti di forza e debolezza, e concepì in termini quasi assoluti il proprio comando, ispirandosi a principi di rigidità e dura disciplina.

L’avvio delle operazioni militari si ebbe il 23 maggio, le forze in campo di Cadorna erano impressionanti, 35 divisioni di fanteria, 9 divisioni di milizia territoriale, 4 divisioni a cavallo e una divisione di fanteria speciale dei Bersaglieri, 52 battaglioni di Alpini,14 battaglioni di genieri, diversi battaglioni di Carabinieri e Guardie di finanza, l’artiglieria contava 467 batterie e quasi 2000 pezzi tra cannoni e obici.

Secondo i piani di Cadorna la 2ª e la 3ª armata avrebbero sfondato facilmente le deboli difese austriache per poi avanzare rapidamente verso Lubiana e da qui minacciare direttamente Vienna.

Le forze vennero fatte avanzare lentamente verso il corso dell’Isonzo contro una debole resistenza subito dopo il confine, ma dopo alcuni scacchi iniziali, costati pesanti perdite, il 16 giugno il Monte Nero venne conquistato da un fulmineo assalto di sei battaglioni di alpini mentre le restanti vette rimasero in mano austriaca.

Il comportamento dei generali comandanti delle grandi unità non fu all’altezza della situazione: l’avanzata fu condotta con troppa cautela, tanto che Cadorna destituì il comandante della cavalleria, d’altro canto Cadorna pensava che buona parte dei generali, selezionati durante il tempo di pace, fossero inadatti alle esigenze belliche.

A ciò aggiunse un elevato senso del dovere che tutto sacrificava all’ottenimento della vittoria, in quest’ottica, pur non mancando di alcune intuizioni tattico-strategiche, fu essenzialmente un convinto sostenitore dell’assalto frontale a oltranza per mettere a dura prova il nemico asburgico, nonostante ciò comportasse perdite enormi di uomini anche per l’esercito italiano.

Di conseguenza, per oltre due anni continuò a sferrare durissime e sanguinose “spallate” contro le munite linee difensive austro-ungariche sull’Isonzo e sul Carso, ottenendo modesti risultati di avanzamento territoriale.

Nel 1916 ottenne successi più consistenti, quando l’esercito italiano, grazie alla superiore logistica, arrestò l’offensiva degli Altipiani e riuscì ad occupare Gorizia, sull’onda di questi eventi, Cadorna accentrò ancor di più nelle sue mani la condotta della guerra e inasprì la sua fermezza.

In particolare introdusse tramite ordinanza, nel novembre, il ricorso alla decimazione, pratica risalente all’antica Roma e assolutamente non prevista dal codice penale militare, atto che fu disapprovato con fermezza anche dalla Commissione d’inchiesta di Caporetto che la definì un «provvedimento selvaggio, che nulla può giustificare».

La decimazione era uno strumento estremo di disciplina militare inflitto ad interi reparti degli eserciti per punire ammutinamenti o atti di codardia, uccidendo un soldato a caso ogni dieci contati, la parola deriva dal latino decimatio che significava “eliminare uno ogni dieci”.

Le battaglie del 1917 logorarono ulteriormente il fronte austriaco, ma il crescendo di ingenti perdite, spietata disciplina, ed eccessiva rigidità imposta alle sue truppe, contribuì con altri fattori al drammatico crollo di Caporetto, frutto dell’offensiva austro-tedesca del 24 ottobre, che lo colse di sorpresa e costrinse l’esercito a battere in ritirata fino alla linea del Piave.

L’uscita della Russia dalla guerra a seguito della rivoluzione bolscevica cambiò la situazione strategica liberando ingenti forze tedesche che, dopo due mesi di addestramento e allenamento in Slovenia alla tecnica dell’infiltrazione, furono indirizzate contro il fronte italiano allo scopo di sollevare l’Austria da una situazione vicina al collasso.

Di conseguenza Cadorna ordinò la difesa a oltranza che comportava lo scaglionamento in profondità delle artiglierie e delle truppe allo scopo di sottrarle alla prevista violenta preparazione dell’artiglieria nemica, ma questi ordini non vennero eseguiti dal comandante della seconda armata che aveva erroneamente valutato le sue forze alla pari di quelle avversarie.

Sul fronte dell’Isonzo, Cadorna aveva disposto, a sud, sulla riva destra, la 3ª Armata comandata dal Duca d’Aosta e a nord, sulla riva sinistra, la 2ª Armata, comandata dal generale Luigi Capello e costituita da otto corpi d’armata.

L’offensiva austro-tedesca ebbe inizio alle ore 2.00 del 24 ottobre 1917 con tiri di preparazione dell’artiglieria, prima a gas, poi a granate fino alle 5.30 circa e verso le 6.00 cominciò un violentissimo tiro di distruzione a preparazione dell’attacco delle fanterie.

L’attacco delle fanterie cominciò alle ore 8.00 con uno sfondamento immediato sull’ala sinistra, nella conca di Plezzo sul fianco sinistro della 2ª armata, tale parte di fronte era presidiata a sud, a metà strada tra Tolmino e Caporetto, dal 27º Corpo d’armata di Pietro Badoglio che aveva schierato nel fondovalle soltanto una compagnia annientata dai gas.

Il vero disastro, infatti, cominciò quando il nemico arrivò a Caporetto da entrambi i lati dell’Isonzo perché poté facilmente aggirare l’intero IV corpo e la mancata risposta delle artiglierie italiane sul fronte è una delle ragioni accertate dello sfondamento e la mancanza di riserve dietro il 4º Corpo d’armata fu senz’altro uno dei motivi principali che contribuirono alla disfatta.

A seguito della caduta del fronte e del rischio che venisse tagliata la ritirata dell’esercito, Cadorna la notte del 26 ottobre ordinò il ripiegamento generale sulla destra del Tagliamento.

Il 28 ottobre Cadorna inviò il bollettino di guerra n. 887 con cui scaricò tutte le responsabilità dello sfondamento del fronte sui soldati italiani:

«La mancata resistenza di riparti della II° Armata vilmente ritiratisi senza combattere, o ignominiosamente arresisi al nemico, ha permesso alle forze austro germaniche di rompere la nostra ala sinistra sulla fronte Giulia.»

Cadorna diede ordine al generale Antonino di Giorgio di assicurare il possesso del tratto di fiume garantendo lo schieramento sul Tagliamento in pianura, ma fra il 30 ottobre e il 3 novembre nella battaglia di Ragogna gli austriaci riescono ad avere ragione sulle forze italiane e passano il Tagliamento costringendo gli italiani incapaci di tenere la linea del fiume ad attuare una confusa ritirata strategica verso il Piave.

Ritenuto responsabile della disfatta, da lui invece attribuita alla scarsa combattività di alcuni reparti, venne sostituito dal generale Armando Diaz.

Ma questa, è un’altra storia.

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Gabriele d’Annunzio – Fiume e il fascismo

S:2-Ep:48

Gabriele D’Annunzio NON è una persona qualunque.

Nell’episodio precedente abbiamo parlato dell’infanzia del Vate e, principalmente, del suo periodo legato alla prima guerra mondiale, ma va da sé che una sola puntata non avrebbe mai reso pienamente onore a Gabriele D’Annunzio, quel Gabriele che non si accontentò del termine del conflitto ma che lo mosse verso quella che rimase impressa nei libri di storia come l’impresa di Fiume.

Nel settembre 1919 d’Annunzio, alleatosi con un gruppo paramilitare, guidò una spedizione di “legionari” per l’occupazione della città di Fiume, che le potenze alleate vincitrici non avevano assegnato all’Italia.

Con questo gesto D’Annunzio raggiunse l’apice del processo di edificazione del proprio mito personale e politico perché a Fiume, occupata dalle truppe alleate, già nell’ottobre 1918 si era costituito un Consiglio nazionale che propugnava l’annessione all’Italia, di cui fu nominato presidente Antonio Grossich.

D’Annunzio con una colonna di volontari, tra i quali vi era anche Silvio Montanarella, marito della figlia Renata, occupò Fiume e vi instaurò il “Comando dell’Esercito italiano in Fiume d’Italia” e dove il 5 ottobre 1920 aderì al Fascio di combattimento di Fiume.

D’Annunzio, che era anche comandante delle Forze armate fiumane, e il suo governo vararono tra l’altro la Carta del Carnaro, una costituzione provvisoria, scritta dal sindacalista rivoluzionario Alceste de Ambris e modificata in parte da D’Annunzio stesso, che prevedeva numerosi diritti per i lavoratori, le pensioni di invalidità, l’habeas corpus, il suffragio universale maschile e femminile, la libertà di opinione, di religione e di orientamento sessuale, la depenalizzazione dell’omosessualità, del nudismo e dell’uso di droga, la funzione sociale della proprietà privata, il corporativismo, le autonomie locali e il risarcimento degli errori giudiziari, il tutto molto tempo prima di altre carte costituzionali dell’epoca.

Alle nove corporazioni originarie ne aggiunse una decima, costituita dai cosiddetti “uomini novissimi”, gli articoli 503 e 504 delineano la figura di un “Comandante”, lo stesso D’Annunzio, eletto con voto palese, una sorta di dittatore romano, attivo per il tempo di guerra, che detiene “la potestà suprema senza appellazione” e “assomma tutti i poteri politici e militari, legislativi ed esecutivi. I partecipi del Potere esecutivo assumono presso di lui officio di segretari e commissari.

Alcuni sostengono che D’Annunzio avesse usato mezzi repressivi per il governo di Fiume, i quali precorsero quelli poi usati dai fascisti, è diffusa l’opinione che l’uso dell’olio di ricino come strumento di tortura e punizione dei dissidenti sia stato introdotto proprio dai legionari di D’Annunzio, poi fatto proprio e reso famoso dallo squadrismo fascista.

Altri sostengono invece che l’esperienza non ebbe connotati solo nazionalistici, ma anche liberali e libertari piuttosto netti, e che il poeta non avesse intenzione di costituire un governo personale, ma solo un governo d’emergenza con possibilità di sperimentazione di diverse idee, aggregate in un programma politico unico grazie al suo carisma.

D’Annunzio, per un certo periodo, guardò con curiosità ai bolscevichi, tanto che il 27 e il 28 maggio 1922 ospitò al Vittoriale Georgij Vasil’jevič Čičerin, commissario sovietico agli affari esteri arrivato in Italia per la conferenza di Genova, tuttavia nel 1926 esprimerà invece critiche contro il governo sovietico.

Il 12 novembre 1920 i governi italiano e jugoslavo stipularono il trattato di Rapallo, che trasformava Fiume in una città libera, D’Annunzio non accettò il trattato e rifiutò ogni mediazione, spingendo il governo a intervenire con la forza.

Tra il 24 e il 27 dicembre, le truppe governative attaccarono i legionari, la breve guerra, definita Natale di sangue, causò numerosi morti e il bombardamento della città.

Ai tempi di Fiume D’Annunzio soprannominò sprezzantemente Cagoja l’ex primo ministro Francesco Saverio Nitti e lo Stato libero di Fiume non ebbe vita facile, anche dopo la partenza di d’Annunzio, fu sconvolto dal conflitto tra autonomisti e annessionisti, fino a quando nel 1924 la città fu annessa dall’Italia fascista.

Deluso dall’epilogo dell’esperienza di Fiume, nel febbraio 1921 si ritirò in un’esistenza solitaria nella villa di Cargnacco, nel comune di Gardone Riviera, che pochi mesi più tardi acquistò.

Ribattezzata il Vittoriale degli Italiani, fu ampliata e successivamente aperta al pubblico, qui lavorò e visse fino alla morte, curando con gusto teatrale un mausoleo di ricordi e di simboli mitologici di cui la sua stessa persona costituiva il momento di attrazione centrale.

D’Annunzio si impegnò inoltre per la crescita e il miglioramento della zona: la costruzione della strada litoranea Gargnano-Riva del Garda del 1929-1931 fu fortemente voluta da lui, che se ne interessò personalmente, facendo valere il suo prestigio personale con le autorità.

La strada, progettata e realizzata dall’ing. Riccardo Cozzaglio, segnò il termine del secolare isolamento di alcuni paesi del lago di Garda e fu poi classificata di interesse nazionale con il nome di Strada statale 45 bis Gardesana Occidentale.

Lo stesso D’Annunzio, presente all’inaugurazione della strada, la battezzò con il nome di Meandro, per via della sua tortuosità e dell’alternarsi delle buie gallerie e del lago azzurro.

Promosse attività sportive tra cui la motonautica e gare idro-aviatorie: tra queste la Coppa del Benaco lanciata da Gabriele D’Annunzio con l’appello da lui composto, il poema Per la coppa del Benaco, del 21 agosto e disputata il 24 settembre 1921 a Gardone Riviera.

Per l’occasione il poeta donò una coppa d’argento, opera dello scultore Renato Brozzi, dedicata alla memoria dei compagni volatori caduti.

Altro evento motonautico patrocinato da d’Annunzio fu, nel giugno 1931, il Meeting Internazionale di Motonautica, il Garda divenne, soprattutto per l’affascinante richiamo dannunziano, la palestra dei più grandi campioni del mondo, fra i quali l’inglese Henry Segrave.

Il rapporto con il fascismo è oggetto di un dibattito complesso tra gli storici, il fascismo celebrò sempre D’Annunzio come un suo precursore politico e letterario, lo scrittore, dopo un’adesione iniziale ai Fasci italiani di combattimento, non prese mai la tessera del Partito Nazionale Fascista, probabilmente per mantenere la sua autonomia.

Nel 1919 Mussolini avviò tramite il suo quotidiano Il Popolo d’Italia una sottoscrizione pubblica per finanziare l’Impresa di Fiume, con la quale raccolse quasi tre milioni di lire, una prima tranche di denaro, ammontante a 857 842 lire, fu consegnata a D’Annunzio ai primi di ottobre, mentre altro denaro gli giunse in seguito.

Una parte cospicua del denaro raccolto, però, non fu consegnata a D’Annunzio e Mussolini fu accusato da due redattori di averla dirottata per finanziare lo squadrismo e il proprio partito in vista delle vicine elezioni politiche italiane del 1919.

Per controbattere alle accuse, D’Annunzio inviò una lettera a Mussolini in cui ne attestò pubblicamente l’autorizzazione, il poeta certificò che parte della somma raccolta era stata utilizzata per finanziare lo squadrismo a Milano.

Nel 1937 fu eletto Presidente dell’Accademia d’Italia, ma non andò mai a presiedere alcuna riunione, la nomina fu quasi imposta da Benito Mussolini, con la contrarietà di D’Annunzio, fu anche Presidente onorario della SIAE dal 1920 al 1938.

Per molti il Duce, temendo la popolarità e la personalità indipendente del poeta, tentò di metterlo risolutamente da parte, ricoprendolo di onori, Mussolini arrivò a finanziarlo con un assegno statale regolare, che gli permise di far fronte ai numerosi debiti; in cambio D’Annunzio evitò di esternare troppo il disprezzo che provava per la trasformazione del fascismo-movimento, che aveva ammirato, in un regime dittatoriale.

Di certo vi era la scomodità del personaggio: già nel 1922, tre mesi prima della Marcia su Roma, quando D’Annunzio cadde dalla finestra della sua villa rischiando la vita, vicenda soprannominata “il volo dell’arcangelo”, qualcuno parlò di un attentato ordito dal primo ministro Francesco Saverio Nitti o addirittura dai fascisti; il funzionario Giuseppe Dosi indagò sulla caduta “accidentale” di D’Annunzio, che quasi ne provocò la morte, ma dedusse, a torto o per convenienza, che il fascismo non vi fosse implicato, almeno in questa occasione.

D’Annunzio fu posto poi sotto il controllo di agenti fascisti, visti anche i buoni rapporti del Vate con esponenti del mondo libertario, socialista e rivoluzionario, tra cui l’ex legionario fiumano e poi socialista Alceste de Ambris e il politico Aldo Finzi, fascista di sinistra, poi partigiano antifascista che prese parte con il poeta al volo su Vienna.

Nel 1937-38 D’Annunzio si oppose all’avvicinamento dell’Italia fascista al regime nazista, bollando Adolf Hitler, già nel giugno 1934, come “pagliaccio feroce”, “marrano dall’ignobile faccia offuscata sotto gli indelebili schizzi della tinta di calce di colla”, “ridicolo Nibelungo truccato alla Charlot”, “Attila imbianchino”.

A partire da questo periodo, D’Annunzio cominciò a propagandare la necessità di completare l’irredentismo con una nuova “impresa fiumana” sulla Dalmazia, Mussolini e Starace lo fecero mettere segretamente sotto stretta sorveglianza, non fidandosi di lui e delle sue iniziative.

D’Annunzio, fotofobico in seguito all’incidente all’occhio del 1916, stava comunque spesso nella penombra, coprendo con tende le finestre esposte alla luce solare diretta, faceva spesso uso di stimolanti, come la cocaina, medicinali vari e antidolorifici.

Il 1º marzo 1938, alle ore 20:05, Gabriele D’Annunzio morì nella sua villa per un’emorragia cerebrale, mentre era al suo tavolo da lavoro; sullo scrittoio era aperto il Lunario Barbanera, con una frase da lui sottolineata di rosso, che annunciava la morte di una personalità.

Alla notizia della morte del poeta, Mussolini avrebbe detto di avvertire un senso di “vuoto” e che il Vate “aveva rappresentato molto nella sua vita”; parole che rientrano nel complesso rapporto Duce-Vate con il primo che faceva sorvegliare e definiva in privato il secondo “il vecchio bardo decrepito”.

Ma questa, è un’altra storia.

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Gabriele d’Annunzio – Il Vate

S:2-Ep:47

Mi risulta veramente difficile, come mai da quando faccio questo podcast, iniziare con la frase tormentone che la contraddistingue ma vorrei che la interpretaste come un omaggio alla sua persona, e quindi dirò che: Gabriele D’Annunzio è una persona qualunque.

Nacque a Pescara Vecchia il 12 marzo 1863 da una famiglia borghese benestante, terzo di cinque figli, visse un’infanzia felice, distinguendosi per intelligenza e vivacità, dalla madre, Luisa de Benedictis ereditò la fine sensibilità; il temperamento lo acquisì dal padre, Francesco Paolo Rapagnetta-D’Annunzio.

Gli anni 1881-1891 furono decisivi per la formazione di D’Annunzio, e nel rapporto con il particolare ambiente culturale e mondano di Roma da poco divenuta capitale del Regno, cominciò a forgiarsi il suo stile raffinato e comunicativo, la sua visione del mondo e il nucleo centrale della sua poetica.

Tra il 1891 e il 1893 D’Annunzio visse a Napoli e nel 1897 volle provare l’esperienza politica, vivendo anch’essa, come tutto il resto, in un modo bizzarro e clamoroso: eletto deputato della Destra storica, nel 1900 passò nelle file dell’Estrema sinistra storica, espresse anche vivaci proteste per la sanguinosa repressione dei moti di Milano da parte del generale Fiorenzo Bava Beccaris, dal 1900 al 1906 fu molto vicino al Partito Socialista Italiano.

Se ci seguite da tempo sapete bene che il nostro podcast, quando parla di personaggi altisonanti come D’Annunzio, lascia a voi la libera espressione di informarsi su ciò che ha fatto come scrittore, poeta, drammaturgo, politico, giornalista e simbolo del decadentismo, noi ci occuperemo di lui come quello che fu, anche, come celebre figura della prima guerra mondiale.

Soprannominato il Vate allo stesso modo di Giosuè Carducci, cioè “poeta sacro, profeta”, cantore dell’Italia umbertina, o anche “l’Immaginifico”, occupò una posizione preminente nella letteratura italiana dal 1889 al 1910 circa e nella vita politica dal 1914 al 1924.

Il giovane D’Annunzio non tardò a manifestare un carattere ambizioso e privo di complessi e inibizioni, portato al confronto competitivo con la realtà, nel 1879 il padre finanziò la pubblicazione della prima opera da giovane studente, una raccolta di poesie che ebbe presto successo.

Accompagnato da un’entusiastica recensione critica sulla rivista romana Fanfulla della domenica, il libro venne pubblicizzato dallo stesso D’Annunzio con un espediente: fece diffondere la falsa notizia della propria morte per una caduta da cavallo, lo stesso D’Annunzio poi smentì la falsa notizia e dopo aver concluso gli studi liceali giunse a Roma e si iscrisse alla Facoltà di Lettere, dove non terminò mai gli studi.

Nel 1915 ritornò in Italia da Arcachon, sulla costa atlantica, dove rifiutò la cattedra di letteratura italiana che era stata di Pascoli; condusse immediatamente un’intensa propaganda interventista, inneggiando al mito di Roma e del Risorgimento e richiamando la figura di Giuseppe Garibaldi.

Con lo scoppio del conflitto con l’Austria-Ungheria, D’Annunzio, nonostante avesse 52 anni, età di un certo peso agli inizi del 1900 dove le aspettative di vita erano nettamente inferiori a quelle odierne, ottenne di arruolarsi come volontario di guerra nei Lancieri di Novara, partecipando subito ad alcune azioni dimostrative navali e aeree.

Per un periodo risiedette in località vicine al Comando della III Armata nel Friuli, a capo della quale era il suo estimatore Emanuele Filiberto di Savoia, Duca d’Aosta e svolse ciò che sapeva fare meglio, la sua attività in guerra fu prevalentemente propagandistica, fondata su continui spostamenti da un corpo all’altro come ufficiale di collegamento e osservatore.

Ottenuto il brevetto di Osservatore d’aereo, nell’agosto 1915 effettuò un volo sopra Trieste insieme al suo comandante e carissimo amico Giuseppe Garrassini Garbarino, lanciando manifesti propagandistici; nel settembre 1915 partecipò a un’incursione aerea su Trento e nei mesi successivi, sul fronte carsico, a un attacco lanciato sul monte San Michele nel quadro delle battaglie dell’Isonzo.

Il 16 gennaio del 1916, a seguito di un atterraggio d’emergenza, nell’urto contro la mitragliatrice dell’aereo riportò una lesione all’altezza della tempia e dell’arcata sopracciliare destra, la ferita, non curata per un mese, provocò la perdita dell’occhio che tenne coperto da una benda; anche da questo episodio trasse ispirazione per autodefinirsi e autografarsi come l’Orbo veggente.

Dopo l’incidente passò un periodo di convalescenza a Venezia, durante il quale, assistito dalla figlia Renata, compose il Notturno, l’opera interamente dedicata a ricordi e riflessioni legati all’esperienza di guerra, fu pubblicata poi nel 1921.

Dopo la degenza, contro i consigli dei medici, tornò al fronte: nel settembre 1916 partecipò a un’incursione su Parenzo e, nell’anno successivo, con la III Armata, alla conquista del Veliki e al cruento scontro presso le foci del Timavo nel corso della decima battaglia dell’Isonzo.

Il colonnello francese De Gondrecourt, incaricato dal Governo francese, insignì il 12 gennaio 1917 il capitano d’Annunzio della Croix de guerre, la decorazione era arrivata insieme ad una lettera del generale Louis Hubert Gonzalve Lyautey del 7 gennaio.

Nell’agosto del 1917 compì, con i piloti Maurizio Pagliano e Luigi Gori e il loro Caproni Ca.33, decorato con l’Asso di Picche, tre raid notturni su Pola, il 3, 5 e 8 agosto e alla fine del mese effettuò col medesimo equipaggio attacchi a volo radente sulla dorsale dell’Hermada, riportando una ferita al polso e rientrando con il velivolo forato da 134 colpi.

A settembre parve realizzarsi la possibilità di effettuare l’agognato raid su Vienna di cui abbiamo parlato già nell’episodio di Natale Palli, a tal fine, con Pagliano e Gori compì un volo dimostrativo di 1 000 km in 9 ore di volo, ma all’ultimo istante il consenso al raid venne negato.

Alla fine di settembre si trasferì a Gioia del Colle, inquadrato sempre con Pagliano e Gori sui Caproni Ca.33 e al comando della 1ª Squadriglia bis, per compiere una missione sulle installazioni navali del golfo di Cattaro.

L’impresa venne portata a termine con successo, sempre con Pagliano e Gori la notte del 4 ottobre, volando per oltre 500 km sul mare, senza riferimenti, orientandosi con la bussola e le stelle.

Alla fine di ottobre, durante la battaglia di Caporetto, incitò i soldati, pronunciando discorsi appassionati e nel febbraio del 1918 si imbarcò sul MAS 96 della Regia Marina, partecipò al raid navale, denominato la beffa di Buccari, argomento anch’esso già trattato nell’episodio di Luigi Rizzo, l’azione fu dedicata alla memoria dei suoi compagni di volo Pagliano e Gori, caduti, nel frattempo, il 30 dicembre 1917.

Il poeta cercò di impegnare truppe italiane per un’operazione puramente dimostrativa volendo posizionare un enorme tricolore sul castello di Duino, situato oltre il fronte, in direzione di Trieste, quando gli austriaci, accortisi dell’incursione, aprirono il fuoco uccidendo diversi soldati italiani, D’Annunzio forzò i fanti rimasti ad avanzare comunque, ordinando agli artiglieri di sparare su chi si fosse arreso e additando i superstiti che fuggivano come codardi.

L’11 marzo 1918, con il grado di maggiore, assunse il comando della 1ª Squadriglia navale S.A. del campo volo di San Nicolò del Lido di Venezia, primo esperimento di siluranti aeree, chiamata Squadra aerea San Marco, e ne coniò il motto: Sufficit Animus (“È sufficiente [anche solo] il coraggio”).

Tale squadriglia era mista, in quanto formata da aeroplani da ricognizione-bombardamento SIA 9B, quattro velivoli nel 1º semestre 1918 e sette velivoli nel 2º semestre 1918, e da ricognizione/caccia formata da 10 velivoli Ansaldo S.V.A..

Nell’agosto del 1918, alla guida della 87ª Squadriglia aeroplani “Serenissima”, equipaggiata con i nuovi velivoli SVA 5, realizzò il suo sogno: il Volo su Vienna, preso posto su uno SVA modificato, pilotato dal capitano Natale Palli, il 9 agosto raggiunse con una formazione di sette aeroplani la capitale asburgica, compiendo un volo di oltre 1 000 km, quasi tutti sorvolando il territorio in mano al nemico.

L’azione, dal carattere esclusivamente psicologico e propagandistico, fu caratterizzata dal lancio di migliaia di manifestini nei cieli di Vienna, con scritte che inneggiavano alla pace e alla fine delle ostilità.

L’eco e la risonanza di tale azione furono enormi e perfino il nemico dovette ammetterne il valore, fino al termine del conflitto, D’Annunzio si prodigò in innumerevoli voli di bombardamento sui territori occupati dall’esercito austriaco, fino alla battaglia finale, ai primi di novembre 1918.

Al termine del conflitto apparteneva di diritto alla generazione degli assi e dei pluridecorati e il coraggio dimostrato, unitamente ad alcune celebri imprese di cui era stato protagonista, ne consolidarono ulteriormente la popolarità.

Si congedò con il grado di tenente colonnello, inusuale, all’epoca, per un ufficiale di complemento, ebbe di fatti tre promozioni per merito di guerra; gli verrà anche concesso nel 1925 il titolo onorario di generale di brigata aerea.

Fu insignito di una medaglia d’oro al valor militare, cinque d’argento e una di bronzo e nell’immediato dopoguerra D’Annunzio si fece portatore di un vasto malcontento, insistendo sul mito della “vittoria mutilata” e chiedendo, in sintonia con il movimento dei combattenti, il rinnovamento della classe dirigente in Italia, lo stesso clima di malcontento portò all’ascesa di Benito Mussolini, che di qui al 1922 avrebbe condotto il fascismo a prendere il potere in Italia.

Durante il conflitto D’Annunzio conobbe il poeta giapponese Harukichi Shimoi, arruolatosi negli Arditi dell’esercito italiano, dall’incontro dei due poeti-soldati nacque l’idea, promossa a partire dal marzo 1919, del raid aereo Roma-Tokyo, ovviamente pacifico, a cui il Vate voleva inizialmente partecipare, ma che fu portato a termine dall’aviatore Arturo Ferrarin.

Ma questa, è un’altra storia.

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