Bèla Kiss – Il mostro di Cinkota

S:1 – Ep.24

Bèla Kiss è una persona qualunque.

Dopo il parigino Landru, la serie di episodi sui serial killer si sposta ad est della Francia ed approda in Ungheria, 100 kilometri a sud di Budapest.

Béla Kiss nacque nel 1877 a Izsák, nella grande pianura meridionale dell’Ungheria.

Kiss non andò mai a scuola ma imparò comunque a leggere da solo e si dimostrò sempre un lettore vorace.

Da giovane fece vari mestieri, tra cui la lettura della mano, studiò l’astrologia e l’occulto da autodidatta.

Nel 1890 svolse il servizio di leva obbligatoria ovviamente nell’esercito Austroungarico e nella primavera del 1900, all’età di 23 anni, si trasferì a Cinkota, appena fuori Budapest; al centro dell’Ungheria, la sua casa si trovava in via Kossuth, numero 9; successivamente traslocò al numero civico 17 di via Rákóczi.

Attorno al febbraio del 1912 si sposò con Mária, una donna di quindici anni più giovane di lui che aveva conosciuto da poco.

In quegli anni usava molto conoscere donne “da marito” tramite annunci vari come faceva anche il parigino Landru, e ad uno di quegli annunci di Kiss rispose proprio Mària, nello stesso periodo Kiss divenne amico del capo della polizia locale, il detective Kártoly Nagy; Kiss era conosciuto dagli abitanti del posto per la sua gentilezza.

Usciva spesso per motivi ignoti e trascorreva molte giornate a Budapest; tornava alle prime ore del mattino ma lavorava in maniera costante come lattoniere, un mestiere che gli permetteva di guadagnare bene.

Nel dicembre del 1912, dieci mesi dopo essersi sposato con Mària, Kiss scoprì che la moglie lo tradiva con un certo Pál Bihari, ne conseguì un litigio e il giorno dopo, Kiss, diffuse la notizia che la moglie era scappata con l’amante, e di fatti Mària e Pàl non si videro più a Cinkota.

In quegli anni, successivamente a quell’evento, iniziarono nella zona attorno a Budapest una serie di scomparse di donne, tutte giovani e in cerca di marito, ma non sempre se ne segnalava la scomparsa, a volte scappavano per amore o perché rimaste in cinta e l’onta della famiglia non si lavava facilmente, meglio una figlia scomparsa che in dolce attesa e magari senza marito.

Questa serie più numerosa di sparizioni durò fino almeno al novembre del 1914 e solamente quando furono denunciate dalle loro famiglie la scomparsa di Julianna Paschak e Erzsébet Komáromi la polizia di Budapest iniziò le ricerche.

Intanto scoppiò la prima guerra mondiale e Kiss, austroungarico, nel novembre del 1914 fu chiamato alle armi.

La partenza per la guerra lo aiutò a dileguarsi dalla sua città, Cinkota, lasciando a casa solamente la signora Jakubec.

Nel 1912, due anni prima dell’inizio della grande guerra e della obbligata partenza al fronte, Kiss assunse una governante, la Jakubec per l’appunto, che non si preoccupò mai delle voci delle scomparse di quel periodo.

Certo, il giorno dopo ogni sparizione nel giardino della casa di Bèla Kiss comparivano dei bidoni di metallo, tanto che un giorno l’amico detective Nagy, insospettito da ciò, chiese a Kiss cosa contenessero, la guerra era alle porte e non si poteva più rimandarla, egli rispose che “si era fatto una scorta di benzina, nel caso in cui la guerra fosse iniziata”.

Il poliziotto e la gente del posto si erano fatti l’idea che Kiss con quei fusti contrabbandasse liquore ma dopo che ammise ciò, tutti gli credettero, non era certo l’unico preoccupato in quel periodo pre bellico di far scorte di materiali primari.

Nel luglio del 1916, mentre Kiss era al fronte non si sa dove, il proprietario della sua ex-casa, giunto sul luogo per ristrutturare l’appartamento, notò alcuni bidoni di metallo nel giardino dai quali usciva un forte tanfo di putrefazione; avvisò la polizia che accorse sul luogo insieme ad un medico legale.

La scoperta fu agghiacciante, dentro ai fusti c’erano i cadaveri svestiti di alcune donne con segni di strangolamento sul collo, in un fusto fu ritrovato perfino la garrota utilizzata; in altri i cadaveri erano immersi nell’alcol.

Continuando a perlustrare la casa e le sue pertinenze, la polizia scoprì che in cantina c’erano sette barili, che contenevano una salma ciascuno: tra di esse c’erano quelle della moglie Mária Kiss e dell’amante Pál Bihari.

Si scoprì che Bèla Kiss, durante un litigio con la moglie quando scoprì del tradimento, la colpì con un bastone in testa e la strangolò con una garrota, un cavo di metallo pieghevole, la soffocò così forte da reciderle la gola e successivamente uccise anche Bihari per poi diffondere la notizia che i due amanti fossero scappati assieme.

Nella legnaia c’erano nascosti altri due morti; nel pollaio ce n’era un altro ancora, ma non finirono velocemente le macabre scoperte, in una stanza della casa, che Kiss aveva chiuso a chiave, c’erano le lettere, i gioielli e i vestiti appartenenti alle donne uccise; nella stessa stanza si trovarono anche dei libri che parlavano di veleni o strangolamenti.

Dietro alla scrivania, nascosto assieme alle lettere, c’era un album fotografico con le foto di circa 100 donne.

Il killer aveva proibito alla governante Jakubec di entrarci, ma le consegnò comunque la chiave, dalle lettere la polizia stabilì che aveva ricevuto 174 proposte di matrimonio e che ne aveva accettate 74.

Quindi Kiss intrattenne rapporti epistolari con almeno 74 donne.

Molti altri corpi vennero recuperati: era fortemente sospettato di almeno 30 omicidi ma, in luce dei ritrovamenti, la polizia ne verbalizzò solamente 24, tra cui ovviamente la moglie e l’amante, poi c’erano le due donne scomparse segnalate alla polizia a cui si aggiungevano Katalin Varga, la prima donna che si presentò da Kiss e che fu picchiata e strangolata la sera stessa, la signora Schmeidak, una vedova che si presentò da Kiss la settimana successiva e che due giorni dopo il killer stordì sbattendole la testa contro la parete e poi strangolò, e Margit Tóth, che si trasferì a Cinkota nel 1906 e si presentò da Kiss: lui la obbligò a scrivere una lettera da spedire alla madre, avrebbe dovuto fingere di essere partita per gli Stati Uniti d’America a seguito di un fallimento in amore, fu strangolata e fatta a pezzi anche lei e la lettera venne spedita poi per sviare i sospetti.

Il suo modus operandi era presso che sempre quello, caratteristica e firma dei serial killer: attirava le vittime del paese, tutte giovani donne, con dei finti annunci matrimoniali in casa e, dopo averle stordite con delle forti percosse, le strangolava con una garrota.

Per non farsi riconoscere usava un nome fittizio, “Herr Hoffmann” o “Elemér”.

Probabilmente uccideva le donne perché non era mai riuscito a perdonare Mària, nemmeno dopo averla uccisa, e a seguito dell’incidente con la moglie nutriva un profondo risentimento verso di loro, risentimento che forse si alleviava di poco dopo un omicidio ma che poi tornava tormentandolo nuovamente.

La governante apprese delle azioni di Kiss dalla polizia ed era presente durante il ritrovamento dei corpi sparsi per casa all’interno dei fusti maleodoranti, non era mai entrata nella stanza a lei proibita nonostante ne possedesse la chiave, era terrorizzata, fu sottoposta comunque ad un interrogatorio nel quale si dichiarò innocente, venendo infine scagionata dagli omicidi.

La polizia accertò, con il procedere delle indagini, che Kiss non aveva un complice.

La notizia del mostro di Cinkota fece velocemente il giro dell’Ungheria e le forze dell’ordine si misero in contatto con l’Esercito Austroungarico per fermare l’assassino seriale.

Il problema principale era che i nomi “Béla” e “Kiss” erano molto diffusi in quegli anni tra gli ungheresi; gli agenti si sarebbero trovati di fronte a migliaia di presunti serial killer che in quel momento erano impegnati nelle battaglie in luoghi sperduti per combattere la prima guerra mondiale.

Inizialmente, nel maggio del 1916, prima della macabra scoperta, circolava la notizia che Kiss fosse morto in battaglia e il 4 ottobre dello stesso anno le autorità vennero informate che Kiss era invece morto per una grave forma di tifo l’anno precedente, ma la notizia venne rettificata e l’Esercito affermò in un telegramma che era certamente morto in un ospedale da campo nella Serbia orientale dopo essere stato ferito in un combattimento.

La polizia voleva essere sicura che il serial killer fosse veramente defunto e si presentò per l’identificazione, tuttavia quando il cadavere venne scoperto, la polizia scoprì che non era quello di Kiss, o meglio, i documenti erano i suoi ma il killer, dopo aver appreso in giro la notizia che era stato scoperto, aveva scambiato i propri documenti d’identità con quelli di un altro soldato appena morto.

Quest’altro uomo aveva 20 anni ed era di carnagione chiara, mentre Kiss ne aveva circa 40 ed era di carnagione scura, il killer era ancora probabilmente vivo… e libero ancora di uccidere.

Da quel momento in poi gli agenti raccolsero alcune prove di avvistamento, ma non tutte potevano essere verificate: una di esse diceva che era stato imprigionato con l’accusa di furto con scasso in Romania; un’altra diceva che era morto di febbre gialla in Turchia, una segnalazione riferì che era stato avvistato mentre passeggiava su un ponte a Budapest nella primavera del 1919, quando la guerra, nel frattempo, era terminata.

All’inizio del 1920, un soldato disertore francese riferì alla polizia della Sûreté che aveva ascoltato un commilitone parlare “di come fosse bravo a strangolare le donne con una garrota”; questo commilitone si faceva proprio chiamare “Herr Hoffmann”, come uno dei suoi pseudonimi utilizzato da Kiss nei suoi annunci matrimoniali, ma quando la polizia ungherese apprese la notizia e cercò di raggiungerlo, il killer era fuggito nuovamente.

Dodici anni dopo, nel 1932, un poliziotto chiamato Henry “Camera Eye” Oswald riconobbe Kiss mentre usciva dalla metropolitana di New York a City Square, Kiss si accorse di essere spiato e si dileguò subito tra la folla, era scappato per la terza volta.

Oswald ritenne che egli vivesse da qualche parte nella city.

Nel 1936 la polizia venne avvisata che Kiss lavorava come portiere, custode e bidello in uno stabile; quando i poliziotti giunsero sul luogo, non trovarono nessuno: scoprirono che il portiere se n’era andato proprio il giorno prima.

Da quel momento sparì definitivamente.

Non è escluso che possa avere continuato a uccidere dopo l’ennesima fuga ma…

questa, è un’altra storia.

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Henri Landru – Barbablù

S:1 – Ep.23

Henri Désiré Landru è una persona qualunque.

Con Henri Landru iniziamo una serie di 4 puntate dedicate ai serial killer più feroci del periodo della grande guerra, predatori spietati, portatori di divise dei vari eserciti o che comunque, in un qualche modo, ne hanno fatto parte, assassini seriali di donne e di uomini.

In questi episodi vi racconterò dell’ungherese Bèla Kiss – Il mostro di Cinkota, del russo Vasilij Komarov – Il lupo di Mosca e di Carl Großmann, Fritz Haarmann e Karl Denke i macellai tedeschi

Tre tedeschi, un russo, un ungherese e un francese, 6 persone qualunque che non potevano fermarsi dall’uccidere in maniera seriale per le più svariate motivazioni personali ma andiamo per ordine, il primo è un francese.

Henri Landru nasce a Parigi il 12 aprile 1869, data che anni dopo festeggerà in modo del tutto diverso, di certo il suo peggior compleanno.

Figlio di un autista e di una sarta, Henri cresce sano, mostrando intelligenza ma anche una certa timidezza.

I voti a scuola non sono eccellenti ma neppure pessimi, tanto da permettergli di superare i vari gradi delle scuole fino ad iscriversi alla facoltà di ingegneria meccanica.

Nel frattempo arriva la chiamata alle armi, periodo durante il quale Henri dimostra disciplina e applicazione ottenendo i gradi di sergente; ma non è quella la vita che Henri vuole fare e quando finalmente poté scegliere, lasciò l’esercito.

Nel 1898, tolti i panni del militare, ha un’idea innovativa, una bicicletta a motore di sua invenzione, ribattezzata modello “Landru” ma il progetto, mai realizzato, ottiene comunque l’appoggio finanziario di vari investitori, Landru, appena intascato i soldi, sparisce.

Non fu l’unico raggiro nella vita di Henri, sull’onda di soldi facili senza lavorare, escogita altre truffe successive, tra cui quella del rigattiere che però lo portano inevitabilmente in carcere, e proprio lì rinchiuso Henri medita quella che, secondo lui, lo porterà alla facile ricchezza senza fatica.

Si accorge che, leggendo le rubriche sui quotidiani dedicate ai cuori solitari, sono tante le donne, spesso vedove e benestanti, che anelano al matrimonio nella vita e per questo, grazie anche alla monotonia della vita da carcerato, inizia a pubblicare inserzioni sentimentali, proponendosi come signore di mezza età, colto e agiato, desideroso di convolare a giuste nozze.

La prima vittima a cadere nella sua fitta ragnatela è una giovane ricca vedova di Lille alla quale Henri, appena uscito dal carcere, riesce a estorcere la ragguardevole cifra di 15000 franchi.

La Francia venne impegnata nel frattempo nella prima guerra mondiale, 1.350.000 vittime fra i soli militari francesi erano una vera e propria fucina di vedove, molte giovani e con ancora una vita davanti desiderose di compagnia, quelle benestanti erano quelle che a Henri, ovviamente, piacevano di più.

Ma cosa farci poi con le vedove, soprattutto se avevano anche figli, una volta che gli aveva estorto il denaro?

Purtroppo era semplice, perché Henri diventò in fretta un omicida seriale.

Grazie alla sua eloquenza, riusciva a far firmare alle sue vittime una procura che gli permetteva di far man bassa dei loro conti bancari, ottenuto questo aspettava il momento giusto e le strangolava, faceva poi sparire i corpi facendoli a pezzi e bruciandoli nel forno situato nella cucina della sua villa.

Questo era il suo modus operandi, vedova dopo vedova, fino a contarne almeno una decina.

Benché fosse alquanto isolata, la villa di Henri era comunque relativamente vicina ad alcune abitazioni, i cui residenti non potevano fare a meno di notare il frequente odore pestilenziale emanato dal fumo che usciva dal camino in periodi in cui il riscaldamento non era nemmeno necessario.

Insospettiti, avvisarono così più volte la polizia, invitandola a perquisire la villa, ma ad ogni modo Landru riuscì a restare a lungo nell’ombra, grazie alla cautela utilizzata nel compiere i suoi efferati crimini.

Egli, infatti, una volta che il cadavere si era incenerito e il fuoco spento, puliva accuratamente il forno dalla cenere che poi spargeva nei campi vicini, eliminando così tutte le tracce e le possibili prove che avrebbero potuto incriminarlo.

Petit, o Fremyet, Guillet erano solo alcune firme da lui utilizzate negli annunci, cambiava spesso testo per non essere identificato e collegato ad altri annunci, a volte era un vedovo padre di due figli, a volte un semplice vedovo dal cuore infranto o talvolta semplicemente un cuore solitario, comunque era purtroppo sempre Henri Landru.

Tutto funzionava a meraviglia fino a che non fu arrestato il 12 aprile 1919, giorno del suo cinquantesimo compleanno, con l’accusa di truffa ed appropriazione indebita in seguito alle denunce sporte da alcuni parenti delle vittime dopo la loro scomparsa.

Ben presto, dall’analisi di vari indizi concordanti, l’accusa si trasformò in quella dell’omicidio di almeno dieci donne e di un ragazzino che accompagnava una delle vittime, la prima per l’esattezza.

Quel giorno, il 12 aprile alle 9.00 in punto, suonò il campanello di casa Landru, aprendo la porta mentre Fernande Segret, forse la futura undicesima vittima, dormiva ancora nel suo letto, piombarono a casa sua alcuni poliziotti guidati dall’ispettore Jules Belin che lo prelevarono con la forza.

L’ispettore aveva raccolto le testimonianze di parenti e amici vari delle dieci vittime ufficiali di Henri, tra cui quella di Laure Bonhoure che aveva riconosciuto Henri all’uscita di un negozio sotto braccio ad una donna bionda che non conosceva, ma conosceva Henri perché aveva frequentato l’amica Celestine Buisson, di cui nessuno aveva più notizie da tempo.

Se la polizia durante la prima guerra mondiale aveva a che fare con problemi, diciamo così, più gravi di donne vedove che sparivano di tanto in tanto, nel 1919, a cannoni fermi, era ora di occuparsi anche di quelle scomparse, ritardatario lavoro portato avanti anche dall’ispettore Belin.

Il processo, che all’epoca ebbe un’enorme eco mediatico dato dal fatto che non c’era più bisogno di riportare i fatti della prima guerra mondiale, si aprì il 7 novembre 1921 davanti alla Corte d’assise di Seine-et-Oise nella sede di Versailles.

Henri Landru negò fin dall’inizio di essere l’autore dei crimini, ammettendo tuttavia di aver truffato le presunte vittime.

Manifestò a più riprese un atteggiamento spesso provocatorio nei confronti della corte, arrivando perfino ad esclamare, più e più volte: “Mostratemi i cadaveri!”.

La cucina a legna nella quale aveva bruciato i corpi fu trasportata nell’aula del tribunale, mentre una meticolosa perquisizione del giardino della casa di Gambais rivelò frammenti di ossa umane e molti denti, ma anche resti di animali.

Sebbene le prove materiali fossero scarse, teniamo presente che la scienza forense non aveva l’esperienza dei giorni nostri, la giuria fu influenzata da un’agendina di Landru in cui erano meticolosamente registrate, di suo pugno, le spese del viaggio di andata di ogni vittima, mentre erano del tutto assenti le spese del viaggio di ritorno, di questo fatto egli non riuscì a dare alcuna spiegazione convincente.

Emersero così dei nomi, nel 1915 la prima vittima fu proprio Jeanne-Marie Cuchet, una giovane vedova di trentanove anni scomparsa assieme al figlio Andrè e, sempre nello stesso anno, la stessa sorte colpì Thèrese Laborde-Line, Marie-Angèlique Guillin e Berthe-Anne Collomb.

L’anno successivo, nel 1916, svanì nel nulla Andrèe-Anne Babelay a soli 19 anni e Cèlestine Buisson, l’amica dell’ultima segnalatrice, seguirono poi negli anni successivi Louise-Jòsephine Jaume, Anne-Marie Pascal e, nel gennaio 1919, Marie-Thèrèse Marchadier, vedova e proprietaria di una pensione proprio a Parigi.

Vincent de Moro-Giafferi, il suo avvocato, uno dei più famosi in Francia, lo difese strenuamente, nonostante le prove mancava la “regina”, e cioè i corpi, o almeno uno, delle vittime dichiarate, l’avvocato continuò asserendo sì le truffe, come già ammesse da Landru, ma non certo gli omicidi di cui Henri era accusato.

I giornali divulgano notizie e avevano pronto il nomignolo, Barbablù, come il protagonista della fiaba di Charles Perrault, l’uxoricida responsabile delle morti delle sue sei mogli, ma di fronte a una serie di testimonianze schiaccianti e a numerosissime prove circostanziali, né Henri e né il suo avvocato poterono evitarne la condanna a morte, pronunciata il 30 novembre 1921.

Landru ascoltò serafico la lettura del verdetto emesso dalla giuria, quasi non lo riguardasse, come se lui fosse lì per puro caso o per un palese errore giudiziario e trascorse i pochi mesi che lo separavano dalla ghigliottina sereno, in linea con lo stile che aveva sempre avuto fin dal primo giorno del processo.

Anatole Deibler, il più famoso boia della Francia di cui si poteva vantare, nella sua lunga carriera, ben 395 esecuzioni, durante la notte del 25 febbraio 1922, montò la ghigliottina nel piazzale della prigione di Saint Pierre e attese l’alba.

La richiesta di grazia, inviata ad Alexandre Millerand, all’epoca presidente della repubblica francese, fu rifiutata il 24 febbraio 1922, il giorno prima dell’arrivo di Deibler.

Al sorgere del primo sole Henri Ladru, uscito tranquillo dalla sua cella, venne accompagnato nel cortile della prigione di St. Pierre a Versailles, dove era stato allestito il patibolo e la ghigliottina e alle 6.05, dopo che le autorità del carcere ebbero concesso l’ultimo desiderio al condannato a morte e cioè quello di essere sbarbato, pare fosse un vezzo personale per, parole sue, piacere di più alle donne, lasciò cadere la lucida lama sul collo di Barbablù, decapitandolo.

La ghigliottina, quel tremendo attrezzo inventato proprio in Francia nel XVIII secolo e che giustiziò reali come il re Luigi XVI e Maria Antonietta d’Asburgo ma anche artisti come il poeta Chènier o il padre della chimica moderna Lavoisier questa volta, aveva definitivamente fermato un serial killer.

La sua testa mozzata e mummificata è conservata nel Museum of Death di Hollywood.

Ma questa, è un’altra storia.

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Maria Plozner Mentil – Un angelo della trincea

S:1 – Ep.22

Maria Plozner Mentil è una persona qualunque.

Maria nacque a Timau, una piccolissima frazione del comune di Paluzza in provincia di Udine, nel 1884 e il 9 gennaio 1906 sposò Giuseppe Mentil, anch’egli di Timau, dal quale ebbe quattro figli.

Durante il periodo di neutralità dell’Italia, l’Austria aveva potenziato il suo sistema difensivo attorno al passo di Monte Croce Carnico, a mt. 1360 d’altezza, occupando le cime del Pal Piccolo -mt. 1886- e Pal Grande -mt. 1809- a destra del passo e la Creta di Collinetta -mt. 2188-, che si erge alla sua sinistra; dalla quota 1829 della Creta di Collinetta, un robusto trincerone blindato ed in parte coperto, protetto da reticolati e cavernette con mitragliatrici e cannoncini da trincea, si collegava alla linea difensiva sul Pal Piccolo comprendente i 2 cocuzzoli a quota 1859 e 1866, per finire alla cima del Pal Grande.

Da parte italiana si era provveduto a rendere impraticabile la strada ed i sentieri di collegamento delle malghe con Timau, perché la zona, aspra e dirupata, non permetteva grossi lavori difensivi.

Ci troviamo in territorio friulano, precisamente nella regione storico-geografica della Carnia che tra l‘agosto 1915 e l‘ottobre 1917, quando l’Italia ruppe lo stato di neutralità schierandosi contro l’impero austroungarico e tedesco, era un territorio a ridosso del confine austriaco, militarmente bipartito nei sotto-settori But-Degano e Fella.

La zona era strategica sia dal punto di vista del Regio Esercito Italiano, come possibile via per conquistare la Carinzia subito al di là del passo di Monte Croce Carnico, sia da quello nemico, come porta principale per l’invasione italiana.

Vette contese da entrambi gli schieramenti, che si trovavano asserragliati in trincee scavate nella pietra, quasi completamente isolati dai più vicini centri abitati.

Negli anni della prima guerra mondiale, Maria Plozner con i figli piccoli e il marito Giuseppe al fronte sul Carso arruolato nel glorioso corpo degli alpini, rispose, come molte altre donne del luogo, all’appello fatto dell’esercito che richiedeva dei volontari per trasportare i rifornimenti dalle retrovie alla prima linea; diventò così una portatrice, o come le chiamavano gli stessi alpini impegnati sul fronte, un “angelo delle tricee”.

Il settore era comandato dal Gen. Clemente Lequio, con quartier generale a Tolmezzo. Nella zona Carnia erano dislocate 2 brigate di fanteria e 16 battaglioni alpini, l’Austria aveva in linea la 92° divisione comandata dal Gen. Rohr. La densità delle truppe era di circa un uomo ogni 1,5 metri di fronte.

Un esercito di così grandi dimensioni necessitava di rifornimenti continui: vettovaglie, munizioni, attrezzatura, medicine e in zone così impervie, un approvvigionamento giornaliero tramite automezzi era praticamente impossibile.

Più che in altri settori del fronte, in Carnia le difficoltà iniziali furono immediatamente palesi per l’esercito italiano. La deposizione fatta dal deputato Michele Gortani nell’inchiesta di Caporetto permette di scoprire alcuni particolari sorprendenti e grotteschi:

“mancava dunque, dicevo, tutto quello che occorre per la guerra in trincea […]. Alle bombe a mano in Carnia supplì per qualche tempo il generale Lequio con un impianto improvvisato […]: aveva acquistato un notevolissimo stock di coppelle mestolo per cucina, le faceva congiungere, praticava un foro nel centro di una di esse e vi applicava un cilindretto di latta […] per l’esplosivo.”

Ciononostante, gli Alpini e i Feldjäger impegnati nell’alta Val But dettero vita a dei durissimi scontri nei pressi dello strategico Passo di Monte Croce Carnico. I primi si impossessarono del Pal Piccolo e del Pal Grande mentre i secondi occuparono il Freikofel.

I comandi però erano intenzionati a creare una linea di controllo sicura e quindi entrambi gli eserciti avevano ricevuto l’ordine di scalzare i rispettivi avversari da queste cime.

Nel giugno e nel luglio del 1915 Alpini e Feldjager si fronteggiarono furiosamente senza però ottenere risultati: tutte le vette furono occupate solo parzialmente e le prime linee si trovavano a pochi metri l’una dall’altra.

Così, già nelle prime settimane i soldati ebbero a che fare con una guerra di posizione logorante che solo l’inverno riuscì a fermare momentaneamente.

Le salmerie dei battaglioni non bastavano e d’inverno non erano impiegabili, le uniche vie utilizzabili per raggiungerli erano sentieri e mulattiere percorribili esclusivamente a piedi e ciò prevedeva il trasporto di materiali a spalla, da fondo valle, dove erano ubicati magazzini e depositi militari, fino in cima alle Alpi Carniche, per permettere alle forniture di raggiungere le prime linee.

Per tali trasporti diventava sconveniente impiegare i soldati già schierati sul fronte: ciò avrebbe tolto forza ed efficacia all’esercito belligerante.

La forza media presente in questi territori si aggirava intorno ai 10-12 mila uomini.

Essi dovevano essere vettovagliati ogni giorno, riforniti di munizioni, medicinali e attrezzi vari.

I magazzini ed i depositi militari erano dislocati in fondo valle e non c’erano rotabili che consentissero il transito di automezzi né di carri trainati da animali.

L’unico sistema per raggiungere la prima linea del fronte, in alta montagna, era il trasporto a spalla seguendo i sentieri o le mulattiere, sia in estate che in inverno.

Ma dato che per effettuare questi rifornimenti non si potevano sottrarre militari alla prima linea senza danneggiare l’efficienza operativa, il Comando Logistico della Zona e quello del Genio furono costretti a chiedere aiuto alla popolazione civile, ma gli uomini validi erano tutti alle armi e nelle case erano rimasti solo gli anziani, i bambini e le donne.

E le donne di Paluzza e Timau, avvertendo la gravità di quella situazione, non esitarono ad aderire al pressante invito che con toni drammatici veniva loro rivolto e si misero subito a disposizione dei Comandi Militari per trasportare a spalla quanto occorreva agli uomini della prima linea. Alcune di loro erano quindicenni.

Venne così costituito un Corpo di ausiliarie, composto da civili di tutte le età, non arruolate in senso militare, ma distinte da un’autodisciplina esemplare.

Non vestivano una divisa, il loro equipaggiamento era scarno, costituito da semplici, quanto fondamentali particolari: una gerla, una sorta di cesta in vimini intrecciata a forma di cono rovesciato e aperta in alto, con due cinghie di corda per poter essere trasportata che riempivano di tutto il necessario e che poteva arrivare a pesare oltre 30 kg, un braccialetto rosso recante il numero dell’unità militare d’assegnazione e un taccuino su cui venivano annotati i materiali trasportati e i viaggi giornalieri.

Con tali premesse, per 26 lunghi mesi, le portatrici carniche, questo il nome loro assegnato e con cui vengono ancora oggi ricordate, fecero la spola dai paesi a fondo valle fino in cima ai monti, giorno dopo giorno, partendo all’alba e rientrando nel pomeriggio.

Giunte a destinazione con il cuore in gola, curve sotto il peso della gerla in una così disumana fatica, specie d’inverno quando per avanzare affondavano nella neve fino alle ginocchia, scaricavano il materiale, sostavano qualche minuto per riposare, per far sapere agli alpini di reclutamento locale le novità del paese e magari per riconsegnare loro la biancheria fresca di bucato ritirata, da lavare, nei viaggi precedenti.

L’indomani all’alba si ricominciava daccapo con nuova lena.

Un collegamento tra depositi e prime linee, tra il mondo civile rimasto ai piedi delle montagne e il mondo della guerra, a decine di metri di dislivello.

Ma non mancavano certamente i rischi anche per loro, i “cecchini” austriaci non facevano differenza e sparavano su tutto quanto si muoveva, indistintamente e, come detto, in alcuni tratti le trincee erano estremamente vicine tra loro, aumentando la precisione del fuoco dei cecchini.

Fu così che il 15 febbraio 1916, una di esse, Maria Plozner Mentil, mentre si stava riposando assieme all’amica Rosalia Primus, venne colpita da uno di loro; seppur trasportata immediatamente all’ospedale di Paluzza, spirò il giorno dopo.

Non rimase altro che avvisare il marito Giuseppe, Alpino in linea chiamato d’urgenza per dargli la triste notizia e lasciare quattro piccoli orfani di madre.

Come succedeva spesso per mariti e padri, e molto più raramente per le madri, di Maria rimase solo la Medaglia d’oro al valor militare e, come purtroppo usava in quegli anni, la medaglia arrivò solamente nel 1997 quando l’allora Presidente della Repubblica Oscar Luigi Scalfaro le conferì con “Motu Proprio” come rappresentante di tutte le Portatrici, la medaglia, 81 anni dopo la scomparsa sul fronte di Maria:

«Madre di quattro figli in tenera età e sposa di combattente sul fronte carsico, non esitava ad aderire, con encomiabile spirito patriottico, alla drammatica richiesta rivolta alla popolazione civile per assicurare i rifornimenti ai combattenti in prima linea. Conscia degli immanenti e gravi pericoli del fuoco nemico, Maria PLOZNER MENTIL svolgeva il suo servizio con ferma determinazione e grande spirito di sacrificio ponendosi subito quale sicuro punto di riferimento ed esempio per tutte le “portatrici carniche”, incoraggiate e sostenute dal suo eroico comportamento. Curva sotto il peso della “gerla”, veniva colpita mortalmente da un cecchino austriaco il 15 febbraio 1916, a quota 1619 di Casera Malpasso, nel settore ALTO BUT ed immolava la sua vita per la Patria. Ideale rappresentante delle “portatrici carniche”, tutte esempio di abnegazione, di forza morale, di eroismo, testimoni umili e silenziose di amore di Patria. Il popolo italiano Le ricorda con profonda ammirata riconoscenza.»

Alla sua memoria venne dedicata nel 1955 una caserma nel comune di Paluzza (unica caserma dell’Esercito Italiano dedicata ad una donna). La caserma venne poi dismessa nel 2001 e ceduta al Comune che ne demolì una parte pericolante lato strada che portava al vicino confine austriaco.

Maria fù l’unica portatrice carnica abbattuta dal fuoco nemico ma non l’unica colpita, tre di loro rimasero ferite nei vari viaggi: Maria Muser Olivotto e Maria Silverio Matiz entrambe di Timau, lo stesso paese di Maria e Rosalia Primus da Cleulis.

L’ultima portatrice carnica vivente è stata Gallizia Angela Rovedo fu Silvestro, nata a Bevorchians (Moggio Udinese) il 13 settembre 1903, operò sui monti della Vall’Aupa, fra il monte Cullar e la Crete dal Cronz ed è morta a Bergamo il 23 novembre 2005 all’età di 102 anni.

Ma questa, è un’altra storia.

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Giuseppe Aonzo – L’impresa di Premuda

S:1 – Ep.21

Giuseppe Aonzo è una persona qualunque.

Giuseppe nacque a Savona il 24 maggio 1887 nella zona del porto e respirò sin da subito l’aria salmastra del mare, crescendo ascoltando i racconti dei marinai quali favole dell’infanzia.

Il percorso di studi lo portò a diplomarsi al locale istituto nautico e sin da subito prese il mare su battelli mercantili.

Svolse il servizio militare di leva ovviamente in marina, venendo arruolato nel 1907.

Il 1º gennaio 1908 venne nominato allievo timoniere e nel maggio dello stesso anno ottenne il grado di timoniere fino ad arrivare a sottocapo timoniere.

Il 12 novembre 1908 venne posto in congedo illimitato.

Crebbe lavorando nella marina mercantile e, grazie alla sua competenza e passione, dedizione e caparbietà, divenne capitano di lungo corso.

Durante la prima guerra mondiale, dopo l’entrata in guerra del Regno d’Italia contro l’Impero austro-ungarico, venne chiamato alle armi per necessità dalla Regia Marina italiana e la sua esperienza marinaresca, nonché la qualifica di capitano di lungo corso, gli permisero di essere inquadrato con il grado di capo nocchiere di 2ª classe.

Dopo poco tempo venne nominato guardiamarina di complemento trasferito dalle navi grigie alla flottiglia MAS di stanza a Venezia, diventando Comandante del mezzo navale più piccolo, ma più insidioso, della Marina italiana.

Il Motoscafo armato silurante o Motoscafo antisommergibili, più conosciuto con la sigla MAS, era una piccola imbarcazione militare usata come mezzo d’assalto veloce e antisommergibile dalla Regia Marina durante la prima e la seconda guerra mondiale.

Fondamentalmente si trattava di un motoscafo da 12 a 30 tonnellate di dislocamento che arrivava ad un massimo di una decina di uomini di equipaggio, l’armamento era costituito da due siluri e alcune bombe di profondità antisommergibile, oltre a una mitragliatrice o a un cannoncino.

Dal 1º marzo 1918 l’ammiraglio Miklós Horthy assunse il comando della Imperial-Regia marina da guerra austro-ungarica, in sostituzione dell’ammiraglio Maximilian Njegovan.

Con la nomina di Horthy, anche Paolo Thaon di Revel percepì la possibilità che il nuovo comandante austriaco attuasse un’azione di flotta fuori dagli schemi consolidati.

Fino a quel momento, lo sbarramento del Canale d’Otranto era stato attaccato diciannove volte e, in quattro di queste, era presente l’ammiraglio Horthy quale comandante del Novara.

Era quindi molto probabile che il nuovo comandante intendesse dare un segnale di cambiamento nella conduzione della guerra e che il canale d’Otranto, a lui ben noto, rientrasse nei suoi piani.

Segnali di un nuovo imminente attacco si ebbero con una incursione aerea, il 9 giugno, per cui l’ammiraglio Revel dispose che quattro sommergibili francesi venissero posizionati in agguato a nord di Durazzo, mentre gli italiani F10 e F14 furono posti rispettivamente davanti a Pola e al canale di Faresina.

I sospetti non erano infondati: il comando supremo austro-ungarico aveva infatti preparato una potente offensiva, che prevedeva l’impiego di gran parte della flotta.

Il loro compito consisteva nel rimanere nelle posizioni assegnate fino alle 07:30 del giorno 11, ora alla quale rientrare in caso di mancato contatto con le navi italiane.

Si pensava, infatti, che l’azione del gruppo d’attacco avrebbe indotto il comando italiano a far uscire i propri incrociatori corazzati da Brindisi e Valona per inseguire il naviglio austriaco, incrociatori che si sarebbero poi trovati accerchiati dalle maggiori unità austriache, supportate da un largo impiego di sommergibili e aerei.

Il Viribus Unitis e il Prinz Eugen, all’alba dell’11 giugno, raggiunsero in orario la loro posizione a metà strada tra Brindisi e Valona, mentre i due gruppi Szent István e Tegetthoff, nonostante piccoli problemi alla Szent István, che ne ritardarono la marcia, partirono anch’essi alla volta delle posizioni assegnate.

Nel frattempo, il 9 giugno erano partiti da Ancona, per una missione nel medio Adriatico, il MAS 15 del capitano di corvetta Luigi Rizzo e capo timoniere Armando Gori e il MAS 21 del nostro guardiamarina Giuseppe Aonzo.

Fino alle 02:00 del giorno 10 i due MAS dovevano stazionare fra Gruiza e Banco di Selve, in prossimità dell’isola di Premuda, per accertare la presenza di sbarramenti di torpedini; al termine di questa fase dovevano rimanere in agguato fino all’alba per ricongiungersi alle torpediniere d’appoggio.

I ritardi accumulati dal gruppo austriaco comportarono però che, alle 03:15, le unità austriache attraversassero la zona di pattugliamento dei due MAS, che a quell’ora stavano dirigendo da Lutestrago al punto di riunione con le torpediniere.

«Alle 03:15, essendo a circa 6,5 miglia da Lutorstrak avvisto, leggermente a poppavia del traverso e sulla dritta, una grande nuvola di fumo…[…] Decisi perciò di approfittare della luce incerta per prevenire l’attacco e perciò invertivo, seguito dal MAS 21 la rotta dirigendo sulle unità nemiche alla minima velocità. […] Avvicinando il nemico mi accorsi che si trattava di due grosse navi scortate da 8 a 10 cacciatorpediniere […]»
(Rapporto del capitano di corvetta Luigi Rizzo.)

Rizzo, nel tentativo di colpire una delle due grosse navi dalla minima distanza possibile, manovrò tra due caccia che fiancheggiavano la Szent István, aumentò la velocità a 12 nodi, riuscendo a passare fra le siluranti, e, da una distanza non superiore a 300 metri, lanciò entrambi i siluri del MAS.

I due siluri colpirono la nave sollevando alte colonne d’acqua e fumo.

La reazione della torpediniera 76 non si fece attendere: si lanciò all’inseguimento del MAS di Rizzo, aprendo il fuoco da una distanza di 100-150 metri.

Rizzo decise allora di sganciare due bombe antisommergibile, una delle quali scoppiò, inducendo la torpediniera a desistere.

Il MAS 21 di Giuseppe Aonzo lanciò i suoi siluri contro l’altra unità maggiore, la Tegetthoff, da una distanza di 450-500 metri; uno dei siluri colpì la nave, l’altro staccandosi tardivamente dalle tenaglie a causa di un problema tecnico, sfilò a poppavia della corazzata.

Anch’egli fu quindi inseguito da una torpediniera, che riuscì a distanziare per dirigere in sicurezza per il rientro.

La Szent István evidenziò subito dei grossi danni provocati dai siluri del MAS 15; l’acqua penetrò nei locali macchine di prora e di poppa e così si dovettero fermare le macchine.

Ogni quarto d’ora circa lo sbandamento della corazzata cresceva di circa 1° e la Tegetthoff provò più volte a prendere a rimorchio la nave, ma solo alle 05:45 riuscirono a passare la prima gomena, quando lo sbandamento aveva raggiunto i 18° circa.

In quel momento l’inclinazione subì un improvviso aumento e la cima dovette essere recisa; verso le 06:00 la nave iniziò a capovolgersi, per poi affondare del tutto.

Tra gli ufficiali vi furono 1 morto e tre dispersi; tra l’equipaggio i morti furono 13, 72 i dispersi e 29 i feriti.

Alle 07:00 i due MAS raggiunsero Ancona e immediatamente partirono due idrovolanti, che avvistarono alcune unità della classe Tatra in prossimità di isola Grossa e Promontore, con rotta sud.

Alle 9 altri velivoli si alzarono in volo e la ricognizione su Pola confermò l’assenza delle quattro dreadnought.

Gli austriaci, vanificato l’effetto sorpresa su cui era basata l’intera operazione, dovettero rientrare alle loro basi.

Il Tegetthoff rientrò a Pola all’alba dell’11 giugno, così come il gruppo Viribus-Prinz Eugen, che raggiunse il porto alle ore 19.

Giuseppe Aonzo, Luigi Rizzo e Armando Gori avevano appena portato a termine ciò i libri di storia ricorderanno come: L’Impresa di Premuda.

Il contraccolpo psicologico dell’azione di Premuda ebbe grosse ripercussioni sul morale austro-ungarico, tanto che nel restante corso della guerra, la k.u.k. Kriegsmarine non compì più nessuna operazione navale, asserragliando le proprie navi nei porti.

I siluri di Rizzo e Aonzo, con quest’azione, fecero svanire l’elemento sorpresa e troncarono la missione nemica sul nascere, costringendo la flotta austriaca a rinunciare definitivamente all’ambizioso progetto.

L’azione di Premuda convinse inoltre definitivamente gli Alleati a lasciar cadere la questione relativa all’istituzione dei comandi navali in Mediterraneo, lasciando il totale controllo dell’Adriatico all’Italia.

A dimostrazione del grande risultato dell’azione dei MAS, il Comandante in Capo della Grand Fleet, l’ammiraglio inglese David Beatty, fece giungere all’ammiraglio Lorenzo Cusani, comandante della flotta italiana, il seguente telegramma: «La Grand Fleet porge le più sentite congratulazioni alla flotta italiana per la splendida impresa condotta con tanto valore e tanta audacia contro il nemico austriaco».

A riconoscimento dell’eroismo dimostrato in azione, il capitano Luigi Rizzo venne insignito della Croce di Cavaliere dell’Ordine Militare di Savoia, ma in seguito al suo rifiuto per i suoi ideali repubblicani, l’onorificenza fu commutata in una medaglia d’oro al valor militare, onorificenza che venne assegnata anche al guardiamarina Aonzo con queste parole: «Comandante di piccola silurante in perlustrazione nelle acque di Dalmazia, assecondava con pronta intelligenza, immediata decisione e mirabile ardimento il comandante della sua sezione nel portare a fondo l’attacco contro una poderosa forza navale nemica. Superata la linea fortissima delle scorte, procedeva risolutamente all’attacco di una delle corazzate e, con animo gagliardo, straordinaria abilità e fortunata audacia, lo portava a compimento esplicando così le più belle doti di perizia militare e marinaresca.»

Dopo la fine della prima guerra mondiale gli fu concesso dalla Regia Marina, su sua richiesta, il congedo per ritornare a solcare i mari al comando delle petroliere.

Dal 16 agosto 1940, con il grado di capitano di fregata di complemento, partecipò alla seconda guerra mondiale al comando dei piroscafi Rossigni, Italia e Diamante.

Terminato il conflitto, fu trasferito nella riserva per raggiunti limiti di età e il 24 maggio 1945, esattamente trent’anni dopo lo scoppio della prima guerra mondiale, riprese il suo lavoro alla Standard Oil, che nel frattempo era diventata Esso Standard.

Morì a Savona il 1º gennaio 1954. Il 22 settembre 2007 la caserma della Capitaneria di porto di Savona è stata intitolata a Giuseppe Aonzo.

Il 13 marzo 1939 la Marina Militare, allora Regia Marina, decise la data ufficiale per celebrare la propria festa, e scelse il 10 giugno, come ancora oggi è, in ricordo dell’azione compiuta nel corso della prima guerra mondiale che viene ricordata come l’impresa di Premuda.

Ma questa, è un’altra storia.

https://www.youtube.com/watch?v=aci3eX4Qdeo

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Emmy, Oscar, Blakie – Valorosi felini

S:1 – Ep.20

Emmy Oscar Blackie è una persona qualunque.

No, questa volta non possiamo dirlo perché Emmy, Oscar e Blakie erano tre GATTI qualunque.

Durante la Prima guerra mondiale furono circa 500.000 i gatti presenti al fronte, nelle trincee e sulle navi da guerra.

Il loro compito ufficiale era quello di dare la caccia ai topi, benché alcuni fossero utilizzati per rilevare i gas venefici.

Emmy era il gatto di bordo della RMS Empress of Ireland.

Era una gatta soriana arancione che non aveva mai perso un viaggio.

Tuttavia, il 28 maggio 1914, Emmy scese dalla nave mentre era in porto a Quebec City.

L’equipaggio la riportò sulla nave, ma la gatta se ne andò di nuovo.

La Empress of Ireland salpò senza di lei e questo fu considerato dall’equipaggio un terribile presagio.

La mattina dopo la nave entrò in collisione con il mercantile norvegese Storstad mentre attraversava la foce del fiume San Lorenzo, in mezzo alla nebbia.

Affondò rapidamente, uccidendo 1 012 persone, ma non Emmy.

Sulle navi la presenza dei gatti era quasi obbligatoria, per questioni igieniche, cacciando i topi ed evitando che andassero a contaminare i cibi nelle stive, e per questioni psicologiche, in quanto oggi noi chiameremo pet therapy il conforto che un gatto apportava agli uomini psicologicamente debilitati dai lunghi viaggi in mezzo al mare.

Prima dell’inizio della seconda guerra mondiale ci fu il riarmo della Bismarck in funzione di un nuovo sviluppo della Kriegsmarine dopo che Hitler denunciò gli accordi anglo-tedeschi relativi alle limitazioni agli armamenti e dopo che erano decadute le precedenti limitazioni imposte dal Trattato di Versailles.

Il piano di riarmo navale tedesco prevedeva un numero di grandi navi che non poteva competere con la Royal Navy, ma che fosse qualitativamente all’avanguardia.

Tra i risultati di questa politica vi fu una corazzata che poteva considerarsi tra le più potenti del suo tempo.

Il varo della Bismarck avvenne il 14 febbraio 1939 ad Amburgo alla presenza di Hitler, Raeder, Keitel, Göring, Goebbels, Hess, Ribbentrop, Himmler, Bormann e von Schirach, a sottolineare l’importanza che si dava all’evento.

Il comandante dell’OKM (Oberkommando der Marine), ammiraglio Raeder, decise di utilizzare la Bismarck per proteggere le navi di superficie da interferenze delle corazzate britanniche, oltre che, naturalmente, per attaccare i mercantili che rifornivano la Gran Bretagna.

L’esecuzione dell’operazione Rheinübung prevedeva il grado massimo di segretezza, ma la squadra fu avvistata dall’incrociatore svedese Gotland, quindi l’ambasciata inglese a Stoccolma ne fu immediatamente informata.

Immediatamente iniziò il pattugliamento del mare del Nord da parte della Home Fleet, ma la squadra fu avvistata in un fiordo presso Bergen dalla ricognizione della RAF.

La Royal Navy mosse immediatamente l’Hood e la Prince of Wales da Scapa Flow per averle in area di operazioni appena la Bismarck fosse stata intercettata.

La squadra tedesca fu avvistata il 24 maggio 1941 l’Hood apriva il fuoco sul Prinz Eugen, dando inizio alla battaglia dello Stretto di Danimarca.

Ma la Hood venne centrata, un proiettile perforò i pontoni corazzati e scoppiò in una santabarbara contenente i proiettili e provocando un’enorme esplosione che spezzò in due parti la nave inglese.

L’Hood affondava con tutto il suo equipaggio (3 superstiti), e la Bismarck e il Prinz Eugen cessavano il fuoco sulla Prince of Wales, che, pesantemente danneggiata, rompeva il contatto con la squadra tedesca ritirandosi.

Nel corso del combattimento la Bismarck aveva incassato tre colpi dalla Prince of Wales: mentre due di questi avevano provocato danni non troppo pesanti, il terzo però aveva provocato una perdita di nafta e un allagamento dei serbatoi che impedivano alla nave di tenere la piena velocità; la Bismarck quindi dovette puntare su un porto amico.

Appena fu noto l’esito della battaglia dello Stretto di Danimarca, l’Ammiragliato inglese spostò tutte le navi che aveva a disposizione nell’Atlantico, dalla King George V fino alle vecchie corazzate della Prima guerra mondiale.

Alla Bismark mancavano meno di 700 miglia per raggiungere Brest, ma non sarebbero state miglia facili con tutte le forze britanniche disponibili che convergevano verso di lei.

Individuata, l’Ark Royal lanciò gli Swordfish che giunsero a contatto con la nave tedesca.

Gli aerosiluranti misero a segno due colpi, uno a centro nave che, esplodendo sulla cintura corazzata, non provocò danni, e uno sulla poppa che segnò il destino della Bismarck danneggiando il meccanismo di controllo del timone, che rimase bloccato.

La Home Fleet arrivò. La prima nave ad aprire il fuoco fu il Rodney seguito dopo un minuto dalla King George V, quest’ultima non riuscì a colpire il bersaglio con le sue artiglierie mentre il Rodney aveva messo sulla Bismarck 4 colpi provocando danni che, uniti ad altri due colpi che arrivarono dalla King George V successivamente, a prua e a poppa, trasformò la Bismarck in un pontone per il tiro delle navi britanniche, ormai ravvicinate a meno di 9 km: a quel punto circa 300 colpi centrarono la nave tedesca.

Alle 10.36 del 27 maggio la Bismarck scomparve sotto la superficie del mare, con le eliche ancora in moto e la bandiera da guerra a picco, solo 116 persone su un equipaggio di oltre 2 200 sopravvissero e assieme a loro c’era anche Oscar.

Oscar, soprannominato poi Sam l’inaffondabile, fu il gatto di bordo della corazzata tedesca Bismarck.

Quando fu affondata, Oscar fu catturato dal cacciatorpediniere Cossack, una delle navi responsabili della distruzione di Bismarck.

Il 24 ottobre seguente, 5 mesi dopo aver affondato la Bismark, mentre scortava un convoglio diretto da Gibilterra al Regno Unito, la Cossack venne colpita da un siluro lanciato dall’U-Boot U-563 tedesco, comandato da Klaus Bargsten, che uccise 159 uomini dell’equipaggio compreso il capitano.

Venne presa a rimorchio da un rimorchiatore che iniziò il traino verso Gibilterra, reso impossibile il giorno seguente dal peggiorare delle condizioni atmosferiche, la nave affondò il 27 ottobre nell’Atlantico circa 100 miglia ad ovest di Gibilterra, ma Oscar se la cavò anche in questa occasione e, salvato assieme ai pochi uomini sopravvissuti, divenne il gatto della nave della portaerei Royal.

Il 13 novembre 1941, due settimane dopo l’affondamento della Cossak, mentre ritornava a Gibilterra da una missione, la Ark Royal venne colpita da un siluro lanciato dal sommergibile tedesco U-81 al comando del Kapitänleutnant Friedrich Guggenberger.

Il progressivo allagamento istantaneo soffocò le prese delle caldaie, cosicché la nave, non equipaggiata con motori Diesel di riserva, perse ogni fonte di alimentazione, compresa quella destinata alle pompe.

Venne ordinato alla HMS Legion di raccogliere tutti i 1487 membri dell’equipaggio, e Oscar che ancora una volta si salvò dall’ennesimo affondamento, e di trasportarli a Gibilterra.

Ormai conosciuto come Unsinkable Sam per essere sopravvissuto ai tre affondamenti delle navi, gli fu dato un nuovo lavoro come cacciatore di topi negli edifici per uffici del Governatore Generale di Gibilterra.

Forse era giunto il momento di non mettere più Oscar su nessuna nave.

Sulla Prince of Wales, la nave pesantemente danneggiata dalla Bismark nella battaglia dello stretto di Danimarca c’era anche Blackie, il gatto di bordo.

Dopo che fu rimessa in sesto, la HMS Prince of Wales, durante il secondo conflitto, raggiunge fama mondiale perché portò il Primo ministro Winston Churchill attraverso l’Atlantico dove, nell’agosto 1941, si incontrò segretamente con il Presidente statunitense Roosevelt per diversi giorni in un porto sicuro.

Questo incontro ha portato alla dichiarazione della Carta Atlantica, ma mentre Churchill stava per risalire sulla Prince of Wales, Blackie si avvicinò.

Churchill si chinò per dire addio a Blackie, e il momento fu fotografato e riportato nei media mondiali.

Il 10 dicembre 1941, scatenando immediatamente nuovi frenetici preparativi per sferrare finalmente un attacco in forze per distruggere le navi da battaglia nemiche, l’ammiraglio giapponese Matsunaga organizzò una formazione da ricognizione con nove aerei Nell e due Aichi E10A Hank, per agganciare con sicurezza la squadra britannica; poi, senza attendere nuove notizie più precise sui rilevamenti, fece partire le forze di attacco principali.

Un ultimo attacco di bombardieri Nell della 6ª squadriglia del Kokutai Mihoro, sferrato con bombe, mise ancora a segno un colpo (nonostante la Prince of Wales rispondesse sempre al fuoco), assestando il colpo di grazia alla corazzata ammiraglia.

La Prince of Wales, che aveva ormai imbarcato oltre 18.000 tonnellate di acqua, si inclinò a dritta e si capovolse; il cacciatorpediniere Express si era già avvicinato per recuperare l’equipaggio e per poco non fu rovesciato dalla deriva antirollio della corazzata; ma fortunatamente permise di salvare molti più uomini: i morti furono alla fine 327 su un equipaggio di 1.612 ufficiali e marinai.

La nave affondò a 65 miglia a sud-est di Kuan-Tan, portando con sé anche il comandante Leach e l’ammiraglio Phillips ma non Blackie che sopravvisse all’affondamento della Prince of Wales da parte dell’aviazione giapponese e fu portato a Singapore con i 1612 sopravvissuti.

Ma prima di Emmy, Oscar e Blackie ci fù Jenny che era il nome del gatto della nave a bordo del Titanic, fu trasferita dalla imbarcazione gemella del Titanic, la Olympic e partorì la settimana prima che il Titanic salpasse da Southampton.

Abitualmente Jenny e i suoi cuccioli stavano nella cambusa, accuditi dai camerieri che li nutrivano con gli avanzi di cucina, non è noto il destino di Jenny e della sua cucciolata ma secondo il racconto dello sguattero che l’aveva adottata, Jim Mulholland, allo scalo di Southampton Jenny trasportò i gattini a terra prima di sbarcare lei stessa.

Questa azione premonitrice avrebbe convinto lo stesso Mulholland a sbarcare, rimanendo a Southampton, il Titanic salpò per il suo viaggio inaugurale e sappiamo tutti come andò a finire.

Ma questa, è un’altra storia.

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Margaretha Zelle – La danzatrice di Shiva

S:1 – Ep.19

Margaretha Geertruida Zelle è una persona qualunque.

Figlia di Adam Zelle che possedeva un negozio di cappelli ed era proprietario di un mulino e di una fattoria e di Antje van der Meulen, aveva tre fratelli.

Margaretha aveva una carnagione scura e i capelli e gli occhi neri, caratteristiche fisiche che la differenziavano notevolmente dai suoi connazionali olandesi.

Nel 1889 gli affari del padre incominciarono ad andar male, tanto da costringerlo a cedere la sua attività commerciale ed il dissesto economico provocò dissapori nella famiglia che portarono alla separazione dei coniugi e al trasferimento del padre ad Amsterdam, la madre morì l’anno dopo.

Nel 1895 Margaretha rispose all’inserzione matrimoniale di un ufficiale, il capitano Rudolph Mac Leod che viveva ad Amsterdam, in licenza di convalescenza dalle colonie d’Indonesia e l’11 luglio 1896, ottenuto anche il consenso paterno, Margaretha sposò il capitano Mac Leod.

Abitarono inizialmente ad Amsterdam, ebbero un figlio e poi si trasferirono a Giava dove il capitano riprese il servizio attivo.

L’anno dopo si spostarono vicino a Malang, dove il 2 maggio 1898 nacque una figlia ma presto la famiglia venne sconvolta dalla tragedia della morte del piccolo primogenito Norman, che morì avvelenato.

La causa non fu mai scoperta pienamente, pare una medicina somministrata dalla domestica indigena ai figli della coppia, moglie di un subalterno del neo promosso al grado di maggiore Mac Leod che gli aveva inflitto una punizione.

Rudolph, Margaretha e la piccola Non, si dislocarono nuovamente a Giava, dove il maggiore Mac Leod, raggiunta la maturazione della pensione, il 2 ottobre 1900 diede le dimissioni dall’esercito e cedendo forse alle richieste della moglie, riportò, agli inizi del 1902, la famiglia nei Paesi Bassi.

Sbarcati ad Amsterdam i due coniugi tornarono per breve tempo a vivere nella casa di Louise Mac Leod, sorella del maggiore, e poi per loro conto in un appartamento ma Margaretha fu lasciata dal marito, chiedendo la separazione e affidando la figlia al padre di lei.

Decisa a tentare l’avventura della grande città, nel marzo del 1903, Margaretha andò a Parigi, dove non conosceva nessuno: molto bella d’aspetto cercò di mantenersi facendo la modella presso un pittore e cercando scritture nei teatri, ma con risultati alquanto deludenti.

Forse giunse anche a prostituirsi per sopravvivere, nella vana attesa del successo.

Il fallimento dei suoi tentativi la convinse a tornare nei Paesi Bassi, ma l’anno seguente tornò nuovamente a Parigi e prese alloggio al Grand Hotel, divenendo l’amante del barone Henri de Marguérie.

Presentatasi dal signor Molier, proprietario di un’importante scuola di equitazione e di un circo, Margaretha, che in effetti aveva imparato a cavalcare a Giava, si offrì di lavorare e, poiché una bella amazzone può essere un’attrazione, fu accettata.

Ebbe successo e una sera si esibì durante una festa in casa del Molier in una danza giavanese, o qualcosa che sembrava somigliarle: Molier rimase entusiasta di lei.

La sua danza era, a suo dire, quella delle sacerdotesse del dio orientale Shiva, che mimavano un approccio amoroso verso la divinità, fino a spogliarsi, un velo dopo l’altro, del tutto, o quasi.

Trasferitasi in un più modesto alloggio, una pensione presso gli Champs-Élysées, sempre a spese del Marguérie, il suo vero esordio avvenne nel febbraio 1905 in casa della cantante Kiréevsky, che usava invitare i suoi ricchi amici e conoscenti a spettacoli di beneficenza.

Il successo fu tale che i giornali arrivarono a parlarne: lady Mac Leod, come ora si faceva chiamare, replicò il successo in altre esibizioni, ancora tenute in case private dove più facilmente poteva togliersi i veli del suo costume, e la sua fama di «danzatrice venuta dall’Oriente» incominciò a estendersi per tutta Parigi.

Notata da monsieur Guimet, industriale e collezionista di oggetti d’arte orientali, ricevette da questi la proposta di esibirsi in place de Jéna, era però necessario cambiare il suo nome, troppo borghese ed europeo: così Guimet scelse il nome, d’origine malese, di Mata Hari.

Mata Hari alternò le esibizioni tenute nelle case esclusive di aristocratici e finanzieri, agli spettacoli nei locali prestigiosi di Parigi, appariva vestita con sottili veli traslucidi dei quali si spogliava uno dopo l’altro durante l’esibizione, finché non le rimanevano solo i gioielli orientali che portava e, sebbene il suo numero consistesse nello spogliarsi lentamente, lei non mostrò mai il suo piccolo seno nudo, perché la imbarazzava.

Mentre l’esercito tedesco invadeva il Belgio per svolgere quell’operazione a tenaglia che, con l’accerchiamento delle forze armate francesi, avrebbe dovuto concludere rapidamente la guerra, Mata Hari era già partita per la Svizzera, da dove contava di rientrare in Francia; tuttavia, mentre i suoi bagagli proseguirono il viaggio verso la terra francese, lei venne trattenuta alla frontiera e rimandata a Berlino.

Il 14 agosto 1914, il funzionario del consolato olandese rilasciò a Margaretha Geertuida Zelle, «alta un metro e settantacinque», di capelli, in quell’occasione, biondi, il visto per raggiungere Amsterdam.

Divenuta prima l’amante del banchiere van der Schalk e poi, dopo il trasferimento a L’Aia, del barone Eduard Willem van der Capellen, il 24 dicembre 1915 Mata Hari tornò a Parigi, per recuperare il suo bagaglio e tentare, nuovamente invano, di ottenere una scrittura da Djagilev, ebbe appena il tempo di divenire amante del maggiore belga Fernand Beaufort che, alla scadenza del permesso di soggiorno, il 4 gennaio 1916, dovette fare ritorno nei Paesi Bassi.

Furono frequenti le visite nella sua casa de L’Aia del console tedesco Alfred von Kremer, che proprio in questo periodo l’avrebbe assoldata come spia al servizio della Germania per avere informazioni sull’aeroporto di Vittel, in Francia, dove ella poteva recarsi col pretesto di far visita al suo ennesimo amante, il capitano russo Vadim Masslov, ricoverato nell’ospedale di quella città.

Ma la ballerina in quel periodo era già sorvegliata dal controspionaggio inglese e francese quando, il 24 maggio 1916, partì per la Spagna e da qui, il 14 giugno, per Parigi dove tramite un ex-amante, il tenente di cavalleria Jean Hallaure, che era anche, senza che lei lo sapesse, un agente francese, il 10 agosto si mise in contatto con il capitano Georges Ladoux, capo di una sezione di controspionaggio francese, per ottenere il permesso di recarsi a Vittel.

Ladoux le concesse il visto e le propose di entrare al servizio della Francia, proposta che Mata Hari accettò, chiedendo l’enorme cifra di un milione di franchi, giustificata dalle conoscenze importanti che ella vantava e che sarebbero potute tornare utili alla causa francese.

Qui, oltre a inviare informazioni sulla sua missione agli agenti tedeschi nei Paesi Bassi e in Germania, ricevette anche istruzioni dal capitano Ladoux di tornare nei Paesi Bassi via Spagna, ma durante una sosta della nave a Falmouth, nel Regno Unito, fu arrestata perché scambiata con una ballerina di flamenco, Clara Benedix, sospetta spia tedesca.

Interrogata a Londra e chiarito l’equivoco, dopo accordi presi con Ladoux, Scotland Yard la respinse in Spagna, sbarcò l’11 dicembre 1916.

A Madrid continuò il doppio gioco, mantenendosi in contatto sia con l’addetto militare all’ambasciata tedesca, Arnold von Kalle, sia con quello dell’ambasciata francese, il colonnello Joseph Denvignes, al quale riferì di manovre dei sottomarini tedeschi al largo delle coste del Marocco.

Il von Kalle comprese che Mata Hari stava facendo il doppio gioco e telegrafò a Berlino che «l’agente H21» chiedeva denaro ed era in attesa di istruzioni: la risposta fu che l’agente H21 doveva rientrare in Francia per continuare le sue missioni e ricevervi 15 000 franchi.

Il 2 gennaio 1917 Mata Hari rientrò a Parigi e la mattina del 13 febbraio venne arrestata nella sua camera dell’albergo Élysée Palace dal capo della polizia Priolet con cinque ispettori e rinchiusa nella prigione di Saint-Lazare, von Kalle l’aveva venduta ai francesi.

Di fronte al titolare dell’inchiesta, Mata Hari adottò inizialmente la tattica di negare ogni cosa, dichiarandosi totalmente estranea a ogni vicenda di spionaggio, ma poi, con il passare dei giorni, Mata Hari non riuscì a giustificare agli occhi della Corte le somme che il van der Capelen, suo amante, le inviava dai Paesi Bassi, né le somme ricevute a Madrid dal von Kalle, che tentò di giustificare come semplici regali.

Dovette anche rivelare un particolare inedito, ossia l’offerta ricevuta in Spagna di lasciarsi ingaggiare come agente dello spionaggio russo in Austria.

Riferì anche della proposta fattale dal capitano Ladoux di lavorare per la Francia, una proposta che cercò di sfruttare a suo vantaggio, come dimostrazione della propria lealtà nei confronti della sua amata Francia.

L’accusa non aveva, fino a questo momento, alcuna prova concreta contro Mata Hari, la quale poteva anzi vantare di essersi messa a disposizione dello spionaggio francese.

Il fatto è che il controspionaggio non aveva ancora messo a disposizione del capitano Bouchardon le trascrizioni dei messaggi tedeschi intercettati che la indicavano come l’agente tedesco H21.

Quando lo fece, due mesi dopo, Mata Hari dovette ammettere di essere stata ingaggiata dai tedeschi, di aver ricevuto inchiostro simpatico per comunicare le sue informazioni, ma di non averlo mai usato e di non avere trasmesso nulla ai tedeschi, malgrado i 20.000 franchi ricevuti dal console von Kramer che ella, sostenne, considerò solo un risarcimento per i disagi patiti durante la sua permanenza in Germania nei primi giorni di guerra.

I tanti ufficiali francesi dei quali fu amante, interrogati, la difesero, dichiarando di non averla mai considerata una spia.

Al contrario, il capitano Georges Ladoux negò di averle mai proposto di lavorare per i servizi francesi, avendola sempre considerata una spia tedesca.

Il processo, tenuto a porte chiuse, ebbe inizio il 24 luglio e dopo meno di un’ora venne emessa la sentenza secondo la quale l’imputata era colpevole di tutte le otto accuse mossele: «In nome del popolo francese, il Consiglio condanna all’unanimità la suddetta Zelle Marguerite Gertrude alla pena di morte».

Il 15 ottobre, ricambiato più volte il saluto con cortesi cenni del capo, fu blandamente legata al palo; rifiutata la benda, poté fissare di fronte a sé i dodici fanti ai quali era stato assegnato il compito di giustiziarla: uno di essi, secondo regola, aveva il fucile caricato a salve, ma gli altri no.

Morì per fucilazione portando con sé i suoi segreti.

Ma questa, è un’altra storia.

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Walt Disney – Fantasia e realtà

S:1 – Ep.18

Walt Disney è una persona qualunque.

Parlare di Walt Disney nel contesto del pre e post periodo della grande guerra non è facile tenendo conto dell’importanza, anche questa volta, del peso del nome di questa persona qualunque ma come abbiamo fatto con Houdinì e Hemingway, ci proveremo comunque.

Walt Disney, vero nome Walter Elias Disney Jr nasce a Chicago il 5 dicembre 1901 da Flora Call ed Elias Disney; quarto di cinque figli, il padre era di discendenza inglese e precedentemente francese, la madre di discendenza tedesca.

Nel 1918, mentre in Europa imperversava la prima guerra mondiale, lasciò la scuola e si impegnò come autista volontario di ambulanze dopo aver modificato, con l’aiuto di un amico, la data di nascita indicata sul passaporto in modo da poter essere reclutato.

Fece parte della divisione delle ambulanze della Croce Rossa statunitense in Francia fino al 1919.

Questo, molto semplicemente, fu l’impegno di Walt Disney durante la grande guerra, niente di eclatante o eroico sia ben chiaro, ma comunque lui volle andare, perfino falsificando il suo documento, lui ci andò.

Tralasceremo quella sua parte stupenda di vita in cui diventa un famoso vignettista e autore di cortometraggi, in cui fonda società che rivoluzionarono poi il mondo del cinema, in cui ancora detiene il record di Premi Oscar vinti avendone ricevuti, in 34 anni di carriera per i suoi cortometraggi e documentari, 26 statuette su 59 candidature totali di cui tre onorari e un Premio alla memoria Irving G. Thalberg e, nel 1956, un David di Donatello per il miglior produttore straniero per Lilli e il vagabondo.

Gli Oscar onorari gli furono assegnati, nel primo caso, per la creazione di Topolino; e nel secondo, per Biancaneve e i sette nani, «riconosciuto come un’innovazione cinematografica significativa che ha incantato milioni di persone ed è stato pioniere di una nuova area d’intrattenimento nel campo del cartone animato»; e, infine, «per lo sbalorditivo contributo all’avanzamento dell’uso del sonoro nel cartone animato, grazie alla produzione di Fantasia».

Fu candidato per tre volte ai Golden Globes, ma ne ricevette solo due onorari, per Bambi (1942) e Deserto che vive (1953), oltre al Cecil B. DeMille Award nello stesso anno.

Otto pellicole da lui prodotte sono state inserite nella Biblioteca del Congresso venendo ritenute «culturalmente, storicamente ed esteticamente significative»: Steamboat Willie (1928), I tre porcellini (1933), Biancaneve e i sette nani (1937), Fantasia, Pinocchio (1940), Dumbo (1941), Bambi (1942) e Mary Poppins (1964), l’unico dopo la fine della seconda guerra mondiale.

Per cosa ne parleremo allora?

Sappiamo tutti che, dopo la prima guerra mondiale, ci fu il nazionalsocialismo hitleriano in Germania e l’italico fascismo mussoliniano che ci portò al secondo conflitto mondiale.

Le voci secondo cui Walt Disney fosse un antisemita sessista razzista simpatizzante nazista abbondano, ed è ormai un’idea radicata nella testa di molti che queste non siano solo voci, ma in realtà: da dove nascono?

La più famosa accusa, quella della sua simpatia per la filosofia Hitleriana, è forse quella relativa all’incontro con Leni Riefenstahl.

La Riefenstahl aveva realizzato nel 1934 Il Trionfo della Volontà, forse il più famoso – e da quel punto di vista, riuscito – film di propaganda nazista in assoluto, la sua amicizia con Adolf Hitler era così acclarata da farle guadagnare nel tempo il triste appellativo di “regista del Reich”, poi girò Olympia che è il film-documentario sulle Olimpiadi di Berlino del 1936, passate alla Storia per essere le Olimpiadi dove Hitler mostrò al mondo intero la potenza del Terzo Reich e dove l’esaltazione del nazismo era presente in ogni singolo momento delle competizioni.

Da allora le riprese di un evento sportivo si conformarono alla sua regia, che praticamente inventò la cerimonia dell’accensione della torcia olimpica e diede il via a innovazioni tecniche sia dal punto di vista delle riprese che del montaggio, pensate che il carrello per la macchina da presa posto all’interno degli stadi per riprendere gli atleti, soluzione usata ancora oggi, è nato lì.

Disney la incontrò poco dopo la famigerata Kristallnacht, la Notte dei Cristalli che vide la Gestapo e le SS rendersi protagoniste di una notte di devastazione e deportazione ai danni delle persone di religione ebraica in Germania, Cecoslovacchia e Austria.

Ma bisogna tenere conto che erano entrambi grossi imprenditori dello spettacolo e, con le dovute distinzioni, entrambi lavoravano come cineasti alla costruzione della propaganda per il proprio paese, oltretutto, nella Germania di Hitler i film americani erano banditi, in quanto secondo il Führer “Hollywood era controllata dagli ebrei”.

L’anno prima, nel 1937, Walt Disney e il fratello Roy si erano recati in Germania durante un tour europeo volto a promuovere Biancaneve e i sette nani e a quanto pare cercarono di fare pressioni affinché il divieto venisse tolto, o almeno ammorbidito, ma senza successo.

Girano molti frame accusatori che vedono i personaggi Disney in uniforme nazista, cortometraggi con svastiche, bambini dal tratto inconfondibilmente disneyano ritratti a braccio teso e altre nefandezze simili ma in questo caso basterebbe informarsi un minimo per scoprire che quelle immagini fanno tutte parte di una serie di film propagandistici contro il nazismo realizzati dal Walt Disney Studio.

Education for Death: The Making of the Nazi (1943) è uno dei 32 cortometraggi commissionati dal governo americano alla Disney tra il 41 e il 45, con lo scopo di sensibilizzare il popolo statunitense contro le posizioni assolutiste del Reich nazista.

Altre immagini note sono quelle di Paperino che legge il Mein Kampf, il famoso libro-manifesto di Adolf Hitler, ma anche in questo caso si tratta di tutto l’opposto, infatti il film si intitola Der Fuehrer’s Face e si fa bellamente beffa del dittatore tedesco, in una storia che vede il papero fare un incubo nel quale si trova a lavorare per la Germania nazista, salvo poi svegliarsi e abbracciare la Statua della Libertà.

Il corto, di 8 minuti, si conclude con un primissimo piano di Hitler che si prende un pomodoro in faccia, ai Premi Oscar del 1943 vinse la statuetta per il Miglior Cortometraggio di Animazione.

Difficile anche in questo caso pensare che i premi conferiti dall’Academy of Motion Picture Arts and Sciences (AMPAS), un’organizzazione professionale onoraria costituita da personalità (per lo più statunitensi) che hanno portato avanti la loro carriera nel mondo del cinema quali attori, registi, produttori e altre professioni cinematografiche, e quindi, in quel periodo storico in guerra CONTRO l’invasione nazista, avrebbero premiato un filmato che la sostenesse.

E l’antisemitismo? Esiste una famosa scena ne I Tre Porcellini (1933) dove il Lupo Ezechiele si traveste da venditore ambulante ebreo, conciato con tutti gli stereotipi razzisti del caso.

La scena fu successivamente modificata, rianimando il personaggio e lasciandogli l’accento yiddish e in seguito fu ammorbidita ancora di più, attualmente le versioni in vendita mostrano un aspetto del lupo ben diverso da quello iniziale.

Su questo c’è ben poco da dire: la presa in giro razziale è evidente, ma è altrettanto evidente che all’epoca tutti gli studios statunitensi, non solo di animazione, calcavano la mano sugli stereotipi razzisti, facendosi beffe di ebrei, neri e italiani e Disney, in questo, non era differente.

Ma parliamo dello stesso Walt Disney che a libro paga aveva parecchi lavoratori ebrei che non hanno mai, nemmeno se pungolati in interviste atte a dimostrare il contrario, avuto niente da ridire sul proprio datore di lavoro, descritto come persona gentile e disponibile nei confronti di chiunque.

Parliamo dello stesso Walt Disney che nel 1955 venne insignito del premio “Uomo dell’Anno” dall’Organizzazione B’nai B’rith, la più antica e potente associazione ebraica che si occupa di diritti civili, arduo credere che si siano sbagliati premiando un antisemita.

Sulle accuse di razzismo ci sono anche sotto la lente di ingrandimento i corvacci neri di Dumbo, altro stereotipo razziale: era il 1940 e nel 1946, una massiccia campagna di Disney nei confronti dell’Academy, fece sì che a James Baskett, protagonista nero de I racconti dello Zio Tom, venisse assegnato un Oscar onorario, si tratta del primo Premio Oscar onorario assegnato in assoluto a un attore afroamericano e fu merito di Disney.

Abbiamo la prova di una lettera inviata dalla Walt Disney Productions nel 1938 a Mary V. Ford, una ragazza che aveva mandato il curriculum all’azienda.

Le viene risposto che in Disney alle donne non era concesso di lavorare nel processo artistico perché quello era un compito affidato ai “giovani uomini”, e che quindi qualunque domanda da parte di una donna per entrare nella scuola Disney non veniva presa in considerazione.

Le donne si occupavano di inchiostrare e dipingere i fotogrammi creati e disegnati dagli uomini, Sessismo?

Puro ed evidente ma negli Stati Uniti com’era la situazione del lavoro femminile fino al 1938?

Identica.

Prima della Seconda Guerra Mondiale il lavoro femminile veniva scoraggiato, in quanto ritenuto degradante per la figura della donna che doveva essere mantenuta dall’uomo.

Le donne lavoratrici appartenevano per lo più alle classi meno agiate e le poche del ceto medio che lavoravano lo facevano negli ambiti valutati “per le donne”: erano insegnanti, sarte, modiste.

Gli uomini inoltre erano preoccupati da due cose: pensavano che l’ingresso delle donne nel mondo del lavoro avrebbe aumentato la concorrenza e di conseguenza diminuito i loro salari, e pensavano che se le donne avessero iniziato a lavorare avrebbero dedicato meno tempo e attenzione alle cose per le quali invece erano destinate: la cura della casa e la crescita dei figli.

E, onestamente, in quegli anni questa filosofia non era solo rinchiusa nei confini degli Stati Uniti ma diffusa anche in tutta Europa, pensate solo cosa aveva scritto Hitler sul suo Mein Kampf o cosa diffondeva Mussolini nei suoi discorsi per rendersene conto di persona.

Inutile dire che la Seconda Guerra Mondiale rivoluzionò tutto quanto, per forza di cose.

Ma questa, è un’altra storia.

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Remo Pontecorvo – Il caimano del Piave

S:1 – Ep.17

Remo Pontecorvo è una persona qualunque.

Pontecorvo era un ragazzo romano, vigoroso ed agile che fin da bambino dimostrò “attitudine” verso l’acqua del suo Tevere, sia attraverso il nuoto, che attraverso il canottaggio.

Arruolatosi nell’esercito inizialmente come Bersagliere in Libia nel 1911, divenne poi Capitano nella Prima Divisione d’Assalto, nata pochissimi giorni prima della Battaglia del Solstizio, di un nucleo di Arditi nuotatori.

Tra l’altro, al fronte, perse l’amato fratello Decio.

Riconosciuta dopo questa Battaglia la necessità di un corpo speciale di nuotatori, per quattro mesi continui Remo Pontecorvo, assunto l’incarico dal generale Ottavio Zoppi, giorno e notte, sotto piogge battenti e con temperature rigide, non si dette riposo finché non fu pronto un manipolo di “Caimani”.

Vi parteciparono elementi provenienti dalle Fiamme Nere e dalle Fiamme Rosse, quali il Sotto Tenente Bizzarri, il Tenente Minasi, il Tenente De Carolis, il Tenente Bettagna, il Tenente Borghi ed il Tenente Frabasile, non mancò nemmeno il famosissimo Ettore Muti, ribattezzato in seguito da D’Annunzio, Gim dagli occhi verdi.

Dei 400 e più volontari offertisi da tutti i reparti della Prima Divisione d’Assalto, solo 82 riuscirono a superare le prove di abilità e di allenamento nelle acque dei fiumi veneti Bacchiglione, Brenta e Sile diventando così “i caimani del Piave”.

Successivamente di questi 82 “incursori” ben 50 perirono in missioni militari.

Ma chi erano i “caimani del Piave”?

I Caimani del Piave, o Caimani Neri del Piave, furono un reparto di fanteria di marina, composto da nuotatori addestrati per attraversare i fiumi a nuoto allo scopo di condurre ricognizioni, azioni di sabotaggio o portare ordini, impiegato da parte italiana durante la prima guerra mondiale sul fronte del Piave.

Essi erano uno speciale reparto di volontari composto originariamente dai migliori elementi della Brigata “Marina” poi ribattezzata San Marco della Regia Marina, posti al comando dell’allora capitano di corvetta Vittorio Tur comandante del Battaglione “Caorle”.

L’armamento principale era costituito da un pugnale, la divisa era costituita da semplici calzoncini da bagno.

Conducendo azioni per lo più notturne, inoltre, erano soliti ricoprirsi con una mistura di grasso per proteggersi dal freddo, e nerofumo per mimetizzarsi nel buio, inoltre indossavano, quando non si immergevano, un’uniforme completamente nera dalla testa ai piedi, probabilmente derivata dall’ uniforme da fatica della Marina, per favorire le azioni notturne oltre le linee nemiche, da qui il nome “I caimani NERI del Piave”.

Negli anni di inizio secolo per la formazione al combattimento corpo a corpo i marinai della Regia Marina, già destinati in Estremo Oriente, erano divenuti qualificati esperti di jujutsu e judo e, alcuni di questi esperti secondo quanto il Comandante Tur raccontava agli allievi delle Scuole di Pola nel 1928, erano stati utilizzati in qualità di istruttori dello speciale nucleo di arditi.

Così i “Caimani” con piccole zattere parzialmente sommerse, usate principalmente per trasportare bombe a mano e materiali e fatte avanzare con il solo movimento dei piedi, raggiungevano la riva opposta del fiume per esplorarne i luoghi nella tenebra più completa, cercando di individuare le postazioni nemiche.

Quando un obiettivo adatto veniva individuato, si provvedeva a neutralizzarne tutte le sentinelle, silenziosamente, con le armi bianche.

L’avamposto, colto di sorpresa, con azione decisa e rapidissima veniva assaltato e distrutto a colpi di petardo.

Diventato il loro capitano, Remo Pontecorvo aveva escogitato un bizzarro modo di nuotare sotto i ciuffi di fogliame, alla maniera dei selvaggi, per non farsi scorgere dal nemico; scendere in acqua strisciando prima nel terreno, come gli alligatori per evitare spruzzi, tonfi e rumori, attraversare il fiume con il favore delle tenebre utilizzando una tecnica di nuoto ad imitazione di quella degli alligatori, ovvero esponendo dall’acqua solamente la testa appena sopra alle narici, quanto bastava per respirare.

Aveva anche inventato bracciali pneumatici adatti a portare biglietti e ordini al sicuro dall’umidità e aveva curato i più minimi particolari, cercando di prevenire ogni necessità e ogni pericolo.

I nuotatori d’assalto erano divenuti in breve tempo preziosi elementi d’azione, addestrati ad attraversare il fiume, nuotando silenziosamente, a gettarsi sui posti avanzati e sulle pattuglie in ricognizione, lavorare silenziosamente di pugnale e ripassare il fiume riportando prigionieri, materiali ed informazioni.

Durante la Battaglia di Vittorio Veneto, il Comando della Divisione d’Assalto situato sulla sponda destra e precisamente sul Montello, si trovò nell’impossibilità di comunicare coi propri reparti che combattevano sull’altra sponda, perché il fortissimo tiro di sbarramento nemico aveva fatto saltare ponti e passerelle.

In più la velocità della corrente dell’acqua era di circa quattro metri al secondo, velocità che avrebbe scoraggiato ogni possibilità di passaggio con imbarcazioni.

Pontecorvo, richiesto dal Colonnello Campi, ad una sua precisa richiesta di tentativo di passaggio del Piave rispose “Presente”!

Il Capitano Remo chiamò a raccolta i suoi Arditi e così cominciò il discorso: “Ho bisogno per ora di quattro uomini soli, ma che siano uomini votati alla morte.

Mettetevi d’accordo fra voi; darò precedenza a chi non ha famiglia.

Chi vuole seguirmi faccia un passo avanti!”

Indistintamente tutti avanzarono, pregando il Capitano di esser scelti.

Pontecorvo tra i suoi Arditi scelse il Sergente Perini, il Caporal maggiore Broggi, il Caporal maggiore Foce e il Caporale Emanuelli.

Il 27 ottobre 1918, pronti i cinque Arditi, una volta sul posto, si chinarono a baciare l’acqua del fiume sacro raccolta tra le mani, in una sorta di rito religioso.

Il nucleo sotto un fitto bombardamento poté toccare la sponda opposta e giungere alla Piana della Sernaglia, dove Pontecorvo in persona recò ordini, consegnò piccioni viaggiatori e ricevette dai Generali De Gasperi, Paolini, Gabrielli, dal Maggiore Gatti e da altri comandanti dei Reparti d’Assalto, preziosi ragguagli sull’andamento dell’azione.

A notte fonda i cinque “Caimani del Piave” riattraversarono le acque sempre più tumultuose.

Sulla riva sinistra perirono due Arditi e sulla riva destra altri due.

Pontecorvo rimase solo, sfinito dalla stanchezza, intirizzito dal freddo, lacerato nei piedi e al corpo per aver attraversato boschetti d’acacie e reticolati nemici, non si arrese e tolto un cavallo ad un soldato di cavalleria si precipitò, seminudo nel mese di ottobre, dal Generale Ottavio Zoppi portandogli le notizie ricevute, illustrandogli le fasi di combattimento e chiedendogli un fuoco di sbarramento sulla località di Fontigo.

Nei giorni seguenti il gruppo, ormai meritatosi il mitico appellativo di “Caimani del Piave”, continuò con il pugnale tra i denti, di giorno e di notte, a mettere in atto fulminee azioni di sorpresa, gettando scompiglio fra le file nemiche.

Remo Pontecorvo fu ovviamente uno dei medagliati della prima guerra mondiale, la Medaglia d’Argento al Valore Militare a lui conferita sul campo di battaglia cita: “Pontecorvo Remo, di Roma, Capitano Reparti Nuotatori Prima Divisione d’Assalto. Seppe organizzare un nucleo di nuotatori in modo che, impiegato nel passaggio a nuoto del Piave per trasmissione notizie, rese preziosi servizi. Primo fra gli ufficiali del proprio reparto sotto il tiro nemico che aveva interrotto i ponti sul Piave, lo attraversava a nuoto, impiantando un servizio di trasmissione e recapito ordini e notizie, che fu poi efficacemente continuato dai suoi successori. In particolari circostanze seppe vincere difficoltà che parevano insormontabili, assolvendo mirabilmente il mandato ricevuto“. (Piave, Ottobre 1918).

L’ultimo «Caimano del Piave» che fu tra gli ottantadue valorosi prescelti da Pontecorvo per numerose audaci imprese svolte nell’ultimo anno di guerra sul Piave, è morto il 7 settembre 1968 all’ospedale del Buon Pastore di Roma: si chiamava Filippo Tosi ed era decorato di Medaglia d’Argento al Valore Militare.

Tosi Filippo da Roma, soldato XI Reparto d’Assalto – “Con raro ardimento si offriva volontariamente a prendere parte ad una rischiosa ricognizione durante la quale dava prova di bravura e di sprezzo del pericolo finché cadeva gravemente colpito”.

Medio Piave, 17 Giugno 1918. Grave ferita che non gli impedì di diventare un “Caimano” quattro mesi dopo”.

Ma tra quegli ottantadue caimani ci fu un altro protagonista indiscusso, Giuseppe Voltarel, classe 1892, detto il “Manareta”.

Nativo di Candelù di Maserada ed espertissimo del Piave, dato che lì praticamente ci nacque, dopo Caporetto fu assegnato proprio a Candelù, coi suoi Bersaglieri del Reggimento VIII, della XXIII Divisione.

Lui aveva l’incarico di attraversare il Piave a nuoto, per ricevere dai parenti e conoscenti notizie degli spostamenti delle truppe austriache.

Come guida, portava al di là del Piave anche soldati italiani, per varie missioni militari.

Guidò perfino Emanuele Filiberto, Duca D’Aosta e comandante in capo della III Armata; entrando nella leggenda dei Caimani del Piave.

Questo piccolo grande uomo, che morì nel 1975, riusciva ad attraversare a nuoto il Piave, le linee di reticolato, passare tra le trincee austriache sia andando che tornando senza mai farsi scoprire, come facesse, questo ancora adesso rimane un mistero.

Sono famosi gli episodi di Arditi che varcarono il Piave a nuoto per andare a neutralizzare gli avamposti nemici sulla sponda opposta.

Anch’essi vestiti con le sole mutande rimboccate al ginocchio ma armati di moschetto, tascapane con petardi, giberne e pugnale tra i denti, raggiungevano la sponda avversaria per eliminare le postazioni di mitragliatrice, raccogliere preziose informazioni, osservando la disposizione delle difese nemiche e catturando prigionieri da interrogare.

Il più eclatante e famoso esempio è quello del giorno 12 settembre 1918, sul Basso Piave, dove questi intrepidi Arditi nuotatori ingannarono il nemico occupato a colpire imbarcazioni piene di fantocci, creati appositamente.

Ma questa, è un’altra storia.

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Ernest Hemingway – Addio alle armi

S:1 – Ep.16

Ernest Hemingway è una persona qualunque.

Mai pensare che la guerra, non importa quanto necessaria, non importa quanto sia giustificata, non sia un crimine.” – Addio alle armi, Ernest Hemingway

Chi ci segue da tempo sa, che quando abbiamo a che fare con nomi e cognomi altisonanti come quello di Ernest Hemingway, e come è successo per Houdinì, non lo menzioneremo per quello che l’ha reso famoso, perché basta nominare “Per chi suona la campana” o “Il vecchio e il mare” per risvegliare un ricordo anche di chi Hemingway non l’ha mai letto, ma lo racconteremo per quello che ha fatto durante la prima guerra mondiale, quando era ancora una persona qualunque.

Sì, perché Ernest Hemingway la grande guerra l’ha fatta, l’ha fatta da volontario e l’ha fatta in Italia e questo episodio della sua vita gli ispirò “Addio alle armi”, pubblicato nel 1929.

Nato a Oak Park il 21 luglio 1899, aveva solamente dieci anni quando gli fu regalato il suo primo fucile da caccia che imparò presto a usare con grande maestria suscitando l’invidia dei compagni, tanto che un giorno, a causa di un bottino di quaglie che stava portando a casa, venne assalito da un gruppetto di ragazzi che lo picchiarono, fu probabilmente questo episodio che gli fece nascere il desiderio di imparare anche la boxe.

Dopo aver frequentato senza grande entusiasmo la scuola elementare, venne iscritto alla “Municipal High School” ed ebbe la fortuna di incontrare due insegnanti che, avendo notato l’attitudine del ragazzo per la letteratura, lo incoraggiarono a scrivere.

Nacquero così i primi racconti e i primi articoli di cronaca.

Nel 1917 ottenne il diploma ma rifiutò sia di iscriversi all’università, come avrebbe desiderato suo padre medico, sia di dedicarsi al violoncello come voleva sua madre ex aspirante cantante d’opera lirica.

Il 6 aprile 1917, gli Stati Uniti d’America entrarono in guerra e Hemingway, lasciato il lavoro da cronista del quotidiano locale, il “Kansas City Star”, si presentò come volontario per andare a combattere in Europa con il Corpo di spedizione statunitense del generale Pershing, come già stavano facendo molti giovani aspiranti scrittori che provenivano dalle università.

Ma nonostante l’ottima mira nell’utilizzo del fucile e la pratica della boxe venne escluso dai reparti combattenti a causa di un difetto alla vista, venne comunque arruolato nei servizi di autoambulanza come autista dell’ARC (American Red Cross) e destinato al fronte italiano nella città di Schio e, dopo due settimane di addestramento e dieci giorni trascorsi a New York, si imbarcò, il 23 maggio 1918, sulla Chicago diretta a Bordeaux, città nella quale sbarcò il 29 maggio.

Due giorni dopo giunse a Parigi ed ebbe modo, girando per la città, di vedere il disastro provocato nei vari quartieri dal cannone tedesco chiamato Parisgeschütz (spesso erroneamente confuso con la Grande Berta).

Il Parisgeschütz era il nome di un pezzo di artiglieria con il quale i tedeschi bombardarono Parigi durante la prima guerra mondiale, dal marzo all’agosto del 1918.

Quando fu usato per la prima volta i parigini credettero di essere bombardati da un dirigibile perché non sentivano rumori di aeroplani o cannoni.

Fu il più grande pezzo di artiglieria mai utilizzato da tutti gli eserciti nel corso del primo conflitto.

Da Parigi Hemingway proseguì poi in treno per Milano, dove rimase per alcuni giorni prestando opera di soccorso.

Nelle campagne circostanti, a Bollate, era infatti saltata in aria una fabbrica di munizioni e molte erano state le vittime tra le operaie, tutte donne perché gli uomini erano totalmente impegnati nel regio esercito.

Il venerdì 7 giugno 1918, alle ore 13,50, lo stabilimento Sutter & Thèvenot fu scosso da una devastante esplosione che provocò, fra le operaie addette alla produzione, oltre una sessantina di vittime.

Non fu mai possibile stabilirne il numero definitivo in quanto la violenza dello scoppio, avvenuto verosimilmente nel reparto spedizione dove vi era la massima concentrazione del materiale esplodente, disperse i resti di molti corpi, e nulla si seppe in seguito della sorte di moltissimi feriti.

Per il giovane Hemingway la vista dei corpi dilaniati dall’esplosione fu un trauma tremendo.

Da questa visione non si liberò mai, tanto da portarlo a scriverne, quattordici anni dopo, nel racconto “Una storia naturale dei morti” che divenne poi parte della raccolta de “I 49 racconti” pubblicati del 1938.

Scrisse al riguardo: “Quanto al sesso dei defunti, è un dato di fatto che ci si abitua talmente all’idea che tutti i morti siano uomini che la vista di una donna morta risulta davvero sconvolgente.

Dopo quella tremenda esperienza fu inviato a Vicenza e assegnato alla Sezione IV della Croce Rossa Internazionale statunitense, presso il lanificio Cazzola a Schio, nella quale tornò anche nel primo dopoguerra.

Nel capolavoro “Addio alle Armi” immagina di trascorrere un periodo a Gorizia da dove descrisse il fronte; ma nella realtà, durante quel periodo, Gorizia era sotto il controllo austriaco e lo scrittore non avrebbe potuto soggiornarci.

Malgrado il 15 giugno si fosse scatenata sul fronte italiano la battaglia del solstizio, alla Sezione IV la situazione era tranquilla e, per alcune settimane, Hemingway alternò il lavoro di soccorso a bagni nel torrente e partite di pallone con gli amici.

Iniziò anche a collaborare ad un giornale intitolato Ciao con articoli scritti sotto forma di epistola e conobbe, recandosi in un paese vicino alla Sezione, John Dos Passos.

Ma il diciottenne scrittore desiderava assistere alla guerra da vicino e così fece domanda per essere trasferito.

Fu mandato sulla riva del Basso Piave, nelle vicinanze di Fossalta di Piave e Monastier di Treviso, come assistente di trincea.

Ernest Hemingway aveva il compito di distribuire generi di conforto ai soldati in trincea, recandosi quotidianamente alle prime linee in bicicletta, ma durante la notte tra l’8 e il 9 luglio rimase ferito dalle schegge di un colpo di una bombarda austriaca mentre consegnava cioccolata ai soldati.

Due dei tre uomini che erano con lui restarono uccisi.

Ripresa coscienza dopo l’esplosione, Hemingway si caricò il terzo, gravemente ferito, sulle spalle, ma mentre stava recandosi al posto di medicazione, fu colpito alla gamba destra dalle schegge che gli penetrarono nel piede e in una rotula.

Si salvò anche perché questi frammenti della bombarda austriaca, che lo ferirono comunque gravemente, gli arrivarono dopo avere colpito in pieno il soldato italiano che stava trasportando e che, facendogli involontariamente da scudo, gli salvò la vita perdendo a sua volta la propria.

Poco dopo, un Hemingway semicosciente fu trasportato all’Ospedale 62, una struttura indipendente gestita dall’allora neutrale Repubblica di San Marino, situata nella frazione di Dosson di Casier, in una splendida dimora.

Il 15 luglio fu finalmente trasportato su un treno ospedale e il 17 venne consegnato all’Ospedale della Croce Rossa Americana a Milano, dove subì diversi interventi per rimuovere chirurgicamente le 227 schegge che gli avevano perforato le gambe.

Lì rimase tre mesi, durante i quali si innamorò di un’infermiera statunitense di origine tedesca, Agnes von Kurowsky che però era legata sentimentalmente al Tenente napoletano Domenico Caracciolo.

Agnes considerava il rapporto con Ernest Hemingway una relazione giovanile e fugace platonica.

Anche questa esperienza ispirò qualche anno dopo, come detto nel 1929, Addio alle armi.

La guerra però continuava. Hemingway, ormai guarito, a fine ottobre, venne trasferito sul fronte del Monte Grappa, dove si ammalò di nuovo, questa volta di epatite; venne rispedito ancora una volta a Milano dove però Agnes non c’era più.

Dimesso nuovamente dall’ospedale milanese, insieme al capitano e pittore americano Gamble, trascorse la sua convalescenza e il Natale del 1918 a Taormina, a Casa Cuseni, la dimora, oggi Museo, del pittore britannico Robert Kitson, dove scrisse “I Mercenari”, il suo primo racconto giovanile.

Decorato con la medaglia d’argento al valor militare italiana, il 6 di gennaio del 1919 fece ritorno a Oak Park, dove venne accolto come un eroe e dove gli fu assegnata la Croce di Guerra, conferitagli dagli Stati Uniti del presidente Thomas Wilson.

Dopo il rientro a casa, Hemingway ricominciò a scrivere, ad andare a pesca e a dare conferenze nelle quali raccontava i giorni drammatici trascorsi sul fronte italiano.

Nel 1922 Hemingway era un collaboratore del Toronto Star, scriveva articoli che in seguito furono raccolti in diverse antologie e, nell’aprile dello stesso anno, il giornale lo mandò a Genova come inviato alla Conferenza Internazionale Economica, terminata con l’accordo concluso a Rapallo.

In giugno tornò in Italia con la moglie, passando a piedi il valico del Gran San Bernardo e trascorrendo una notte all’Ospizio del Colle.

Da Aosta arrivò in treno a Milano come aveva fatto nel 1918 dove aveva conosciuto Agnes e da lì proseguì per Schio e a Fossalta di Piave, dove la sua carriera militare era effettivamente iniziata, dove era stato ferito, dove era stato decorato come un eroe.

Fossalta me la ricordavo ridotta dalle bombe a cumuli di macerie, al punto che neppure i topi ci potevano abitare”.

Così scrisse Ernest Hemingway sul “Daily Star” di Toronto nel luglio del 1922.

Dal 1957 cadde in una profonda depressione e, durante i frequenti ricoveri degli ultimi anni, fu più volte sottoposto ad elettroshock.

La depressione delirante che lo aveva colpito lo portò al suicidio: si sparò con un fucile il 2 luglio 1961.

La vita di ogni uomo finisce nello stesso modo. Sono i particolari del modo in cui è vissuto e in cui è morto che differenziano un uomo da un altro.” E.H.

Ma questa, è un’altra storia.

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Aurelio Baruzzi – Predatore di austriaci

S:1 – Ep.15

Aurelio Baruzzi è una persona qualunque.

Nasce a Lugo il 9 gennaio 1897, è figlio di Giovanni e di Pia Cortesi, si diplomò ragioniere all’Istituto tecnico di Ravenna trovando subito un impiego in una banca locale.

Ma la contabilità non era quello che voleva fare nella vita Aurelio, era un operativo e rinchiuso in una banca si sentiva come gli animali selvatici in gabbia.

Ben pochi uomini nel 1915, ma anche ai giorni nostri, avrebbero fatto la scelta di Aurelio, abbandonare un sicuro e confortevole posto in banca per rischiare di perdere la vita in guerra, l’aria bellica era sempre più intensa e un ingresso nelle ostilità era già prevedibile e previsto, l’Italia aveva bisogno di uomini come Baruzzi, così in febbraio, si arruolò volontario nel Regio esercito come allievo sergente del 41º Reggimento fanteria, col quale entrò nella prima guerra mondiale il seguente 24 maggio.

Nel dicembre di quell’anno fu nominato sottotenente di complemento e assegnato al 28º Reggimento fanteria.

Pochi giorni dopo, il 22 dicembre, ricevette una prima medaglia di bronzo al valor militare per il suo comportamento durante la Seconda battaglia dell’Isonzo, nei combattimenti sui monti Sabotino e Podgora.

Sull’Isonzo, il fiume che faceva da frontiera orientale con l’Austria-Ungheria, le aspre battaglie si susseguivano e nel corso della Sesta battaglia Baruzzi si rese protagonista di uno degli episodi più strabilianti della Grande guerra.

Durante questa offensiva, precedendo all’attacco del reggimento, il 6 agosto si lanciò all’assalto di una postazione d’artiglieria austriaca, alla testa di un piccolo reparto di bombardieri a mano, riuscendo a neutralizzarla e catturando quattro lanciabombe e i militari addetti al loro tiro.

L’indomani l’avanzata verso Gorizia era bloccata da una forte postazione nemica dotata di mitragliatrici, insediatasi in una galleria ferroviaria della linea Lucinico-Gorizia e inattaccabile dall’artiglieria italiana perché lasciata a proteggere l’arretramento delle linee austriache.

Ripetuti tentativi di attacco frontale erano falliti, con pesanti perdite umane per la fanteria italiana, gli austriaci si sentivano sicuri e protetti e non vi era operazione che riuscisse a stanarli da quel buco.

Baruzzi si sentiva forte del prestigio derivante dall’azione dei suoi bombardieri a mano del giorno precedente così propose ai suoi superiori di lasciargli guidare un nuovo assalto con una ventina di uomini.

Poca cosa a confronto a ciò che poteva contenere realmente quella galleria, ma l’idea era di riuscire a posizionarsi ai lati della stessa e trovarsi a distanza utile per lanciare all’interno delle bombe a mano incendiarie e fumogene di “tipo Thévenot”, in modo da consentire ai fanti di raggiungere l’obbiettivo con il minor numero di perdite possibile, gli pareva una strategia vincente in quel momento.

I suoi superiori però, ritenevano l’azione pressoché inattuabile, non se la sentirono di investire venti uomini in un’azione quasi suicida, avevano perso già troppe vite nei falliti tentativi precedenti e quindi, se ci voleva provare, poteva farlo ma gli vennero concessi solo quattro uomini.

Sentiti i quattro volontari, Baruzzi decise di tentare ugualmente.

All’alba dell’8 agosto i cinque militari italiani lasciarono la trincea e, non visti, riuscirono a portarsi all’imbocco della galleria, presidiata da alcuni ignari austriaci.

In quattro, il piano di lanciare fumogeni e bombe incendiarie era futile, la loro potenza di attacco sarebbe stata vana e si sarebbero trovati sommersi dal fuoco austriaco, Aurelio fece prigionieri le guardie nemiche e, sul momento, decise di cambiare completamente strategia.

Riuscì a convincerli di essere alla testa di un intero battaglione attestato d’intorno e pronto all’assalto, ad un loro tramite offrì la facoltà di resa, garantendo salva la vita ai prigionieri.

Ci fu una breve trattativa ma le condizioni vennero accettate e fu così che Baruzzi e i suoi quattro bombardieri a mano incanalarono verso le linee italiane la colonna di prigionieri austriaci, composta da duecento fanti e dai loro ufficiali, sotto gli sguardi increduli dei commilitoni.

L’azione comportò la cattura di ingenti scorte di materiale bellico, oltre ad aprire la via di Gorizia così, assicurati i prigionieri alla custodia italiana, Baruzzi e i suoi bombardieri a mano non si attardarono in convenevoli e, imboccata la galleria, si diressero speditamente verso Gorizia che raggiunsero in giornata, guadando l’Isonzo.

Arrivati nella città appena sgomberata dalle truppe austriache e semidistrutta dai bombardamenti, ne presero formalmente possesso innalzando la bandiera italiana sul pennone della stazione ferroviaria.

Il forte valore simbolico dell’atto e le eclatanti imprese dei giorni precedenti valsero a Baruzzi la medaglia d’oro al valor militare, assegnatagli il 4 settembre 1916 dal re Vittorio Emanuele III.

Per l’occasione venne organizzata una cerimonia in grande stile e la decorazione fu gli consegnata personalmente sul campo dal Duca d’Aosta, davanti alle rappresentanze schierate di tutti i Reggimenti della 3ª Armata, mentre alcuni aerei sorvolavano la spianata lanciando fiori.

«Comandante di un reparto di bombardieri a mano, si slanciava per primo in un camminamento austriaco, catturandovi uomini e materiali. Due giorni dopo, accompagnato da soli quattro uomini, irrompeva in un sottopassaggio della ferrovia apprestato a difesa, contro il quale si erano spuntati gli attacchi dei due giorni precedenti, intimando audacemente la resa a ben duecento uomini, che venivano catturati unitamente a due cannoni e ricco bottino di armi e materiale. Più tardi partecipava al passaggio a guado dell’Isonzo, si spingeva in Gorizia e nella stazione innalzava la prima bandiera italiana.»

Nell’ottobre successivo venne promosso tenente e inserito nei ruoli del servizio permanente per merito di guerra, meglio non farselo scappare un soldato di questa lena.

Nel 1917 non resistette alla tentazione di entrare nei Reparti d’assalto degli arditi del Reggimento, partecipando a varie azioni, e nell’ottobre dello stesso anno venne promosso al grado di capitano.

La carriera di Aurelio avanzava speditamente come la guerra che entrava nel suo ultimo anno, durante la Battaglia del Solstizio, il 19 giugno 1918, il suo battaglione di Arditi venne inviato a sostenere l’azione della Brigata “Perugia”.

Il reparto comandato da Baruzzi si spinse molto in profondità oltre le linee nemiche e nei pressi di Meolo venne accerchiato dagli austriaci e neutralizzato dopo un’accanita resistenza.

La notizia della scomparsa del capitano Baruzzi e del suo reparto di arditi sollevò una grande impressione sia tra i commilitoni, sia nell’opinione pubblica per la quale l’impavido Aurelio era ormai diventato una figura romanzesca e di significativo impatto, un esempio da seguire, sembrava indistruttibile.

Fu decorato con un’altra medagli di bronzo al valor militare: «Comandante del reparto arditi del reggimento, già duramente provato in precedenti combattimenti, in una critica situazione, alla testa dei propri uomini, contrattaccava il nemico che minacciava di aggiramento altri reparti, infliggendogli gravi perdite, inseguendolo e facendo numerosi prigionieri. Venuto a trovarsi isolato con pochi uomini a circa due chilometri avanti alle altre truppe, assalito da forze soverchianti, si difendeva strenuamente entro una casa, finché veniva circondato e sopraffatto.»

Ma nel bollettino di guerra del 30 giugno le autorità militari precisarono che, nonostante le ricerche sui luoghi dello scontro, il cadavere di Baruzzi non era stato trovato e che era possibile fosse ferito e fatto prigioniero.

Tale comunicato, forse emesso per dare una speranza e alleviare lo sconforto, si rivelò invece vero.

Infatti Aurelio era la seconda volta nella sua vita che veniva preso prigioniero e nella prima occasione era riuscito a fuggire dopo poche ore.

Questa volta gli austriaci erano ben decisi a non lasciarselo scappare, la sua fama era conosciuta anche da loro e lo trasferirono immediatamente prima a Lubiana e poi in un campo di prigionia in Austria.

Ma da Lubiana il 26 giugno ebbe la possibilità di inviare un messaggio alla famiglia: «Sono illeso. Saluti. Baruzzi».

La missiva giunse a Lugo il 7 luglio, la notizia rimbalzò immediatamente su tutti i quotidiani.

E mentre la stampa dava spazio al redivivo eroe italiano, nel campo di prigionia Baruzzi stava “prendendo le misure” ai suoi carcerieri e trovò ben presto il sistema di fuggire, riuscendoci.

Era lontano da casa e dai soldati italiani e bisognava raggiungerli, era disarmato e con una divisa italiana addosso ma era vivo e libero, così decise di attraversare le Alpi a piedi, verso la fine di luglio, comparendo alle sentinelle degli avamposti italiani.

Si presentò in ottima salute, armato e in compagnia di una pattuglia di fanti ungheresi che aveva incontrato nel viaggio e non si era fatto scappare l’opportunità di farli tutti prigionieri, come avesse fatto da solo e disarmato a farlo rimarrà un segreto dal capitano degli arditi.

Nel 1920 ci fu la crisi di Valona, fu una crisi militare che si svolse in Albania tra il Regno d’Italia, che occupava la baia di Valona assieme all’isola di Saseno dal 1914, e le forze nazionaliste albanesi.

Le ostilità scoppiarono in seguito alla divulgazione, da parte ellenica, dell’accordo Venizelos-Tittoni di Parigi, in base al quale sarebbe stato riconosciuto all’Italia un mandato della Società delle Nazioni sull’Albania in cambio di vantaggi territoriali greci nell’Epiro albanese.

Baruzzi c’era e grazie anche a lui il presidio italiano riuscì a mantenere Valona a fronte di quattro attacchi facendogli guadagnare una croce di guerra al valor militare:

«Comandante della riserva, manifestatosi un violento attacco nemico, riuniva prontamente i propri dipendenti e li scaglionava a rinforzo del tratto di linea già attaccato. Incitava tutti alla resistenza e alla calma, con l’esempio e con la parola; sebbene colpito da malore, continuava la sua opera attiva per tutta la durata del combattimento.»

Restò in servizio nell’esercito dopo la conclusione del conflitto, raggiungendo il grado di generale e descrisse in due libri gli eventi bellici a cui aveva preso parte.

Ma questa, è un’altra storia.

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