Giovanni Agnelli – FIAT

S:2 – Ep.39

Giovanni Agnelli è una persona qualunque.

Figlio di Edoardo Agnelli e di Aniceta Frisetti, fu il capostipite della notissima famiglia di imprenditori torinesi, era il nonno del più contemporaneo Gianni Agnelli.

Giovanni Francesco Luigi Edoardo Aniceto Lorenzo nacque il 13 agosto 1866 in una famiglia di proprietari terrieri, tra le mura della casa appartenente al nonno, nel comune piemontese di Villar Perosa; venne iscritto da bambino al collegio San Giuseppe e frequentò poi il ginnasio di Pinerolo, completando gli studi classici a Torino.

In seguito venne avviato alla carriera militare presso l’Accademia militare di Modena, dove conseguì il grado di ufficiale di cavalleria di prim’ordine nel Nizza Cavalleria, ma ben presto avvertì un crescente disinteresse per la vita militare, era infatti attirato dai progressi tecnologici, che a poco a poco, grazie anche alla diffusione delle idee positiviste nell’Europa della Belle Époque, alimentate dai progressi della rivoluzione industriale di matrice anglosassone, stimolavano in lui il desiderio d’intraprendere una carriera dedita interamente alla produzione di nuovi mezzi tecnologici.

Nel 1889 sposò Clara Boselli e dal matrimonio nacquero due figli: Aniceta Caterina che sposerà poi il barone Carlo Nasi ed Edoardo che sposerà Donna Virginia Bourbon del Monte, dei principi di San Faustino.

Abbandonata la carriera militare nel 1893, sviluppò un vivo interesse per la meccanica, che lo portò, senza grossi risultati, ad alcuni tentativi imprenditoriali nel campo e lasciato l’esercito, tornò a Villar Perosa con l’intenzione di dedicarsi all’attività di famiglia, l’agricoltura.

Per breve tempo divenne commerciante di legnami e sementi, a Torino, dove poi si trasferì, frequentava assiduamente il caffè di madame Burello, dove conobbe alcuni aristocratici appassionati di meccanica e di automobilismo.

Nel 1896 entrò come socio di capitale nelle Officine Storero, che a Torino costruivano biciclette, per le quali concluse un contratto d’importazione in esclusiva dei tricicli Prunelle, dotati di motore a scoppio De Dion-Bouton.

L’11 luglio 1899 fondò, insieme ad alcuni investitori molto noti nel campo automobilistico, la Fabbrica Italiana Automobili Torino, conosciuta poi semplicemente come FIAT.

L’azienda ebbe fin dall’inizio un rapido sviluppo, grazie soprattutto all’amicizia che l’imprenditore condivideva con Giovanni Giolitti (cinque volte primo ministro italiano); fra il 1902 e il 1906 la produzione annua della Fiat passò da 73 a 1.097 vetture, con una crescita media del 72%.

I risultati economici superano le aspettative e nel 1906 la prima società Fiat viene liquidata e ricostituita con un capitale di nove milioni e un oggetto sociale molto ampio, che incluse, oltre alle automobili, i trasporti ferroviari, i mezzi di navigazione e gli aeroplani.

Agnelli risultava il maggiore azionista della società, nel 1908 avviò la produzione della “Tipo 1 Fiacre”, prima automobile pensata come taxi e successivamente progettò la “Fiat Zero”, anche se il vero successo arrivò con la prima guerra mondiale.

Fu il primo in Italia ad avviare la produzione di mitragliatrici e raggiunse subito un’alta specializzazione anche nel campo degli esplosivi, degli apparati per sottomarini, nell’artiglieria e nei motori navali nonché nel settore aeronautico.

La Fiat-Revelli Mod.1914 è stata una mitragliatrice media, adottata dal Regio Esercito italiano nella prima guerra mondiale, fu in assoluto l’arma automatica più usata nella Grande Guerra.

Il progetto dell’arma risale al 1910 quando Abiel Revelli decise di modificare la mitragliatrice Perino Mod. 1908 oramai obsoleta, il prototipo fu presentato ad un bando indetto dal Regio Esercito, che però fu vinto dalla Maxim.

Dalla modifica della Fiat-Revelli Mod. 1914, alla luce delle nuove dottrine operative, si andavano evidenziando i limiti di questa arma, legati soprattutto al peso eccessivo del raffreddamento ad acqua ed al sistema di alimentazione poco affidabile.

Non di meno, il calibro da 6,5 × 52 mm, pur garantendo la standardizzazione con quello dei fucili Carcano Mod. 91, con ovvie ricadute positive sulla catena degli approvvigionamenti, si dimostrava però troppo poco prestante sui nuovi e dinamici campi di battaglia.

Il Regio Esercito, mentre quindi avviava l’acquisizione della nuova Breda Mod. 37 in calibro 8 × 59 mm RB Breda, pensò di sfruttare le numerosissime Mod. 14 ancora disponibili riconvertendole al nuovo calibro e modificandone gli aspetti che avevano mostrato le maggiori criticità.

Non solo la Revelli fu prodotta dalla Fiat, anche la Villar Perosa, denominazione ufficiale FIAT Mod. 1915, è stato un mitra progettato in Italia nel 1914 ed utilizzato nella prima guerra mondiale, fu continuamente rimaneggiata nel corso del conflitto ma costituì l’arma principale degli Arditi.

Nel giugno 1913 a Nettuno lo Stato Maggiore dell’Esercito testò di nuovo l’arma ritenendola stavolta rispondente ai requisiti; tuttavia il buon risultato non si concretizzò in un ordine a causa dell’inconveniente di dover addestrare i mitraglieri su due modelli diversi.

Ma a causa del ritardo nelle consegne delle 920 Maxim ordinate (delle quali solo 609 consegnate), nel novembre 1914 lo Stato Maggiore dell’esercito rivalutò per la terza volta la mitragliatrice Fiat, che venne finalmente ordinata.

Il principale terreno d’espansione fu comunque quello degli autotrasporti, alla Fiat fu dovuta in misura determinante la creazione ex novo e il successivo potenziamento del parco automobilistico per i servizi generali e per il trasporto delle artiglierie e delle truppe di fanteria e cavalleria.

Così come gli autocarri 15bis e 15ter avevano avuto una funzione cruciale nella campagna di Libia, il 18BL ne ebbe una importantissima negli spostamenti di truppe durante la grande guerra.

Nel 1909 il Regio Esercito richiese un autocarro leggero multiruolo, per trasporto di personale e materiali, la Fiat Veicoli Industriali progettò così il Fiat 15 che entrò in servizio nel 1911 e venne massicciamente impiegato nella Guerra italo-turca.

Nel 1911 entrò in produzione la versione Fiat 15 bis, detto anche Libia perché destinata all’impiego in questa colonia, sostituita nello stesso ruolo, nel 1913 dalla Fiat 15 ter, quest’ultima venne prodotta su licenza in 6.285 esemplari dalla russa AMO/ZIL, che lo denominò F-15.

Durante la prima guerra mondiale, alla sua produzione per le forze armate si affiancò quella del Fiat 18, sviluppato e prodotto a partire dal 1911, ma il vero successo per questo autocarro arrivò proprio durante la Grande Guerra, quando il modello Fiat 18BL divenne la spina dorsale della logistica italiana, specialmente durante le offensive del 1916.

L’esercito italiano aveva aperto le ostilità con 400 vetture e 3.400 autocarri, per lo più di produzione Fiat e al termine del conflitto, nonostante le ingenti perdite subìte, si trovava a disporre di 2.500 vetture e di 28.600 autocarri.

Fiat fabbricò tra il 1914 e il 1918 qualcosa come 71.000 autovetture, di cui circa 63.000 per conto non solo dell’amministrazione militare italiana, ma anche di quelle alleate, negli ultimi mesi di guerra giunse a fornire il 92 per cento della produzione nazionale di autocarri e l’80 per cento dei motori di aviazione.

Ci provò anche con i mezzi blindati, il Fiat 2000 Mod. 17 era un carro armato pesante costruito in Italia e adottato dal Regio Esercito durante la prima guerra mondiale, fu progettato dalla FIAT nel 1917 e venne prodotto in due soli esemplari, uno nel 1917 e uno nel 1918.

Fu il primo carro armato progettato e realizzato in Italia, e causa della sua corazzatura, la più spessa tra i carri coevi, con le sue 40 tonnellate fu il mezzo più pesante prodotto durante il primo conflitto mondiale, eccezione fatta per il mai ultimato tedesco K-Wagen da 120 tonnellate.

Oltre che per il peso, si distingueva per alcune innovative soluzioni, come la torretta completamente girevole presente anche sul carro francese Renault FT, armata di cannone ed il vano motore separato dal vano equipaggio.

La guerra poi finì e poco dopo, il 1º dicembre 1920, Giovanni Agnelli acquistò dal senatore Alfredo Frassati una quota azionaria del 20% del quotidiano torinese La Stampa, con un diritto di prelazione sulla rimanente parte del capitale, il che gli consentì dall’ottobre 1926 di controllare finanziariamente la testata.

In quegli anni viene fondato il famoso stabilimento del “Lingotto” dove venne impiantata la prima catena di montaggio italiana, ispirata alla Ford che l’imprenditore aveva visitato in quegli anni negli Stati Uniti.

Nel 1923 la FIAT era un produttore internazionale di automobili e Giovanni Agnelli divenne senatore del Regno, egli vide inoltre un grande futuro nello sci, sport allora nato da poco.

Fra il 1928 e il 1931 acquistò alcuni terreni al colle del Sestriere, in alta Val Chisone, dove costruì la seconda stazione sciistica italiana dopo Bardonecchia che era stata aperta nel 1908.

Il successo negli affari di Agnelli venne funestato dalla morte dei figli, Aniceta ed Edoardo, rimasto vittima di un incidente aereo all’idroscalo di Genova.

Gli anni successivi, fino allo scoppio della seconda guerra mondiale, registrarono un nuovo notevole sviluppo dell’impero FIAT: venne prodotta la prima Cinquecento, nota tra i consumatori e appassionati di automobilismo come Topolino: l’auto riscosse un ottimo successo internazionale.

Negli anni quaranta Giovanni Agnelli, ormai settantenne, scelse il nipote Gianni, figlio di Edoardo, come suo successore alla guida delle aziende.

Il 23 marzo 1945 Agnelli venne accusato dalla Commissione del CLN per le epurazioni di compromissione con il regime fascista e privato temporaneamente della proprietà delle sue imprese; informato in via ufficiosa della sentenza di assoluzione, morì a Torino il 16 dicembre 1945.

Ma questa, è un’altra storia.

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Marr e Duncan – Jakie e Rin Tin Tin

S:2 – Ep.38

Marr e Duncan sono due persone qualunque.

Albert Marr è sudafricano, Lee Duncan è statunitense e sono due soldati che saranno impiegati nella prima guerra mondiale, rispettivamente nei propri eserciti di appartenenza.

Nel primo caso siamo a Potchefstroom, nella provincia nord-occidentale del Sudafrica, è un tiepido giorno di fine agosto del 1915 ed è da poco scoppiata la Grande Guerra e siamo in piena campagna di reclutamento.

In fila tra gli altri uomini che vanno ad arruolarsi c’è un ragazzo di 25 anni, si chiama Albert Marr ed è qui per entrare nella brigata di fanteria, sembra uno come tanti, una persona qualunque ed in effetti lo è, ma quando si presenta ai suoi superiori non è da solo, il giovane Albert Marr ha una scimmia in braccio.

La scena è bizzarra, ma non così tanto come può sembrare a noi, da quelle parti succede spesso che i babbuini vengano presi in casa dalle famiglie come veri e propri animali domestici.

Quello di Albert di chiama Jackie e da qualche anno vive con lui a Pretoria, in una casa con un terreno che è quasi una fattoria, si tratta di un babbuino chacma, un animale molto diffuso in gran parte del continente africano.

Fin qui niente di molto strano, quindi: Albert ha portato al reclutamento il suo animale domestico e, nell’ingenuità del giovane alla sua prima esperienza militare, chiede ai superiori se può portare Jackie con sé al fronte.

Lo strano comincia adesso, un po’ alla volta, perché Albert ottiene il permesso, ma non solo, l’esercito non si limita a consentire che la scimmia lo segua, forse pensando che l’animale possa tenere alto il morale dei soldati, l’esercito sudafricano concede a Jackie, la scimmia, anche una divisa.

È una divisa speciale, chiaramente, fatta su misura, ma completa di berretto e distintivi del reggimento, per cui è una divisa vera, anzi, per fare in modo che Jackie possa restare al fronte senza difficoltà burocratiche e organizzative, gli ufficiali decidono che la scimmia sarà anche a libro paga e avrà le sue razioni standard.

Jackie ottiene quindi un normale numero di matricola e così la scimmia diventa a tutti gli effetti un membro dell’esercito sudafricano.

In un primo momento gli altri soldati del reggimento osservano la cosa con scarso interesse, c’è da capirli, sono appena partiti per la Grande Guerra, hanno ben altro a cui pensare, ma poi, man mano che passano i giorni, Jackie conquista la simpatia di tutti fino a che diventa la mascotte ufficiale del 3° Reggimento Transvaal.

Anche perché, va detto, Jackie è un ottimo soldato, a tavola mangia con coltello e forchetta, non sporca, non infastidisce nessuno, obbedisce agli ordini, non si lamenta e non scappa.

Quando vede un ufficiale si mette sull’attenti ed esegue un saluto perfetto, in trincea allunga sigarette a chi le vuole e, se serve, gliele accende pure, fiuta il nemico a distanza e lo sente arrivare con il suo udito sviluppato e dopo un po’, non si può più fare a meno di lui, e non può farne a meno soprattutto Albert Marr.

Durante la campagna dei Senussi, in Egitto, il 26 febbraio 1916 Albert viene ferito a una spalla da un proiettile nemico e Jackie rimane accanto a lui a leccargli la ferita e confortarlo fino all’arrivo dei barellieri, senza la scimmia, dirà dopo, probabilmente non sarebbe riuscito a cavarsela e invece si riprende del tutto e torna al fronte nel giro di pochi mesi.

Jackie è sempre al suo fianco, con lui passa tre anni in prima linea tra le trincee della Francia, delle Fiandre e in Africa ma poi, nell’aprile del 1918, per Albert e Jackie le cose si mettono male.

Si trovano a Passchendale, in Belgio, quando il loro reggimento finisce all’improvviso in mezzo ai bombardamenti, sotto il fuoco pesante del nemico, la situazione degenera in pochi minuti e il reggimento si trova in serio pericolo, tra esplosioni, polvere e paura.

I soldati, intrappolati nella foschia, saltano in aria a gruppi, Albert si butta a terra e urla a Jackie di mettersi al coperto, ma la scimmia non lo ascolta, corre, come impazzita, avanti e indietro.

Sulle prime, Albert non capisce cosa Jackie stia facendo, pensa che il babbuino sia nel panico, terrorizzato, ma dopo pochi secondi gli risulta chiarissimo: Jackie sta raccogliendo sassi, più in fretta che può.

Mentre intorno si succedono boati spaventosi, la scimmia ammassa pietre intorno ad Albert steso a terra, nel tentativo disperato di costruire una piccola barriera che lo protegga dal fuoco nemico, ha appena cominciato a farlo, quando una bomba esplode lì vicino.

Jackie viene travolto da una pioggia di schegge, Albert lo vede volare via, schizzare letteralmente per aria e rotolare sul campo di battaglia fino a sparire inghiottito dalla polvere, l’esplosione travolge anche Albert, lo assorda e lo tramortisce.

Quando arrivano i soccorsi, trovano Albert a terra ancora privo di sensi, mentre Jackie non si era fermato, continuava ostinato ad ammassare pietre trascinando la zampa destra, quasi del tutto maciullata.

Entrambi vengono immediatamente trasportati in un ospedale da campo, dove la zampa di Jackie viene amputata dal chirurgo militare Woodsend e mentre è ancora semi-cosciente con le bende a fasciargli il moncherino, la scimmia viene promossa caporale.

Gli ufficiali, stringendogli la zampa, gli conferiscono anche la medaglia al valor militare, pochi giorno dopo, Jackie e Albert rientrano in Sudafrica, congedati con onore e lasciano ufficialmente l’esercito sulla fine di aprile del 1918.

Nello stesso periodo un cane venne trovato da un soldato statunitense, Lee Duncan, in un canile bombardato in Lorena, per l’appunto poco prima della fine della prima guerra mondiale.

Secondo le stime, oltre 1.200.000 cavalli e 50.000 cani furono uccisi sul fronte occidentale durante la prima guerra mondiale, ma non Rinty.

Era l’unico esemplare sopravvissuto insieme alla sorella (chiamata poi Nanette) di una cucciolata, tornato Duncan a Los Angeles con i due cani, Nanette venne adottata da dei suoi conoscenti, mentre Rinty (ribattezzato poi “Rin Tin Tin”) venne addestrato dallo stesso Lee a saltare ed esibirsi in diversi giochi e fu casualmente notato dal produttore cinematografico Darryl F. Zanuck, che lo fece divenire un attore in diversi film, a partire dal 1923 con Where The North Begins, con Claire Adams, stella del cinema muto.

Grazie a lui diventò un celebre cane da pastore tedesco maschio protagonista di numerosi film realizzati negli Stati Uniti fra gli anni venti e trenta e dopo la sua morte, avvenuta nel 1932, il nome fu dato a diversi cani della stessa razza, impiegati in analoghe produzioni cinematografiche, radiofoniche e televisive.

L’immensa redditività dei suoi film ha contribuito al successo della casa di produzione Warner Bros.

I discendenti di Rin Tin Tin furono anch’essi addestrati da Duncan o dai suoi successori ed ebbero ruoli in produzioni televisive e cinematografiche, il primo di essi, Rin Tin Tin Jr., figlio del primo Rin Tin Tin, è apparso in alcuni serial cinematografici di scarso successo; Rin Tin Tin III, detto nipote di Rin Tin Tin, ma probabilmente solo imparentato, contribuì a promuovere l’uso militare dei cani durante la seconda guerra mondiale ed è anche apparso in un film con Robert Blake nel 1947.

Prima di lui c’è da dire che l’elevato numero di soldati accecati durante la grande guerra portò a rapidi progressi nell’addestramento e nell’uso dei cani guida, la Germania ha aperto la prima scuola di addestramento per cani guida nel 1917.

La prima guerra mondiale vide un uso intensivo di animali, su tutti i fronti e per gli scopi più diversi, dei “gatti di bordo” abbiamo già trattato in un altro episodio del nostro podcast, ma oltre i felini anche i cani venivano largamente utilizzati, per esempio, come cani da trasporto e cani soccorritori in forza alla Croce Rossa.

Uno dei centri di addestramento predisposti per questi cani, in Italia, si trovava a Bologna presso il complesso militare dei Prati di Caprara, qui i cani venivano addestrati a trainare prima carretti, poi slitte.

Al termine del corso venivano inviati in alta montagna per completare il tirocinio, quindi assegnati ai corpi alpini, la prima idea per un simile utilizzo sembra sia da attribuire al Maggiore cesenate Carlo Mazzoli, pluridecorato, amatissimo dai suoi uomini, noto come “il Garibaldi della Val Dogna”, curioso personaggio che portava i capelli lunghi e si permetteva comportamenti decisamente al di fuori delle rigide regole militari di quel tempo.

Mazzoli si muoveva sempre circondato da un branco di cani, anche nei momenti del combattimento, fu assegnato alla zona dell’Adamello, per i trasporti addestrò prima una speciale “squadra” di asini per il traino di slitte adibite al trasporto di viveri e munizioni quindi, alla luce degli scarsi risultati, i suoi cani.

Da questa idea rivelatasi vincente venne creato il centro di addestramento di Bologna.

Ma dall’altra parte del mondo, a Città del Capo nel 1918, quando scende dalla camionetta la scimmia Jackie, indossa sulla zampa anteriore una striscia d’oro e tre galloni blu, che indicano gli anni di servizio in prima linea, e viene applaudita da una folla di soldati.

Nei mesi seguenti, Jekie e Marr partirono per l’Inghilterra, dove Jackie diventò una celebrità e partecipò a diversi eventi della Croce Rossa per raccogliere fondi destinati ai soldati feriti.

Sarà solo dopo questo tour, che Albert e la sua scimmia torneranno finalmente alla loro fattoria di Pretoria, dove il caporale Jackie, babbuino nero e medaglia d’oro al valor militare, morirà da reduce il 22 maggio 1921.

Nella “grande guerra” furono mobilitati almeno 16 milioni di animali, tra cui 11 milioni di cavalli, 200 mila piccioni e colombi viaggiatori e poi muli, asini, buoi, maiali e oltre 100 mila cani.

La Francia ne ebbe in servizio 15.000 (erano solo 26 all’inizio della guerra), la Germania ben 30 mila (erano 6 mila nel 1915) – di cui solo il 10% fece ritorno a casa –, mentre l’Italia impiegò al fronte circa 3.500 cani.

Numeri drammatici, ma forse addirittura lontani dalla realtà, se, come qualcuno ricorda, la sola Russia utilizzò 50 mila cani: è così che il numero stimato dei cani morti sui tanti campi di battaglia potrebbe essere di poco inferiore al milione di esemplari.

Ma questa, è un’altra storia.

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Sigmund Freud – Il padre della psicoanalisi

S:2 – Ep.37

Sigmund Freud è una persona qualunque.

Sigismund Schlomo Freud nacque a Freiberg, nella regione austriaca della Moravia nel 1856, secondo figlio di Jacob Freud e della sua terza moglie Amalia Nathanson proveniente da Leopoli.

Nel 1877, a 21 anni, Sigismund abbreviò il suo nome in Sigmund, con il quale sarà conosciuto poi da tutti. Il giovane Sigmund non ricevette dal padre un’educazione tradizionalista, eppure già in giovanissima età si appassionò alla cultura e alle scritture ebraiche, in particolare allo studio della Bibbia.

Questi interessi lasciarono notevoli tracce nella sua opera, anche se Freud divenne presto ateo e avversò tutte le religioni, come lui stesso ben esplica nel suo L’avvenire di un’illusione.

Nella Vienna di quel periodo erano presenti forti componenti antisemite e ciò costituì per lui un ostacolo, che non riuscì però a limitare la sua libertà di pensiero, dalla madre e dal padre ricevette i primi rudimenti, poi fu iscritto ad una scuola privata e dall’età di nove anni frequentò con grande profitto per otto anni l’Istituto Superiore “Sperl Gimnasyum”.

Sino alla maturità, conseguita a diciassette anni, dimostrò grandi capacità intellettuali tanto da ricevere una menzione d’onore e nel 1873 si iscrisse alla facoltà di medicina dell’Università di Vienna, rettore Karl von Rokitansky.

Durante il corso di laurea maturò una crescente avversione per gli insegnanti che considerava non all’altezza; offeso per essere discriminato in quanto ebreo, sviluppò un senso critico che, di fatto, ritardò l’ottenimento della sua laurea in Medicina e Chirurgia.

Successivamente lavorò nel laboratorio di zoologia diretto da Ernst Wilhelm von Brücke e prese contatto con il darwinismo ma il lavoro di ricerca non lo soddisfaceva e dopo due anni cambiò lavoro e conobbe Brücke, nell’Istituto di fisiologia, dove condusse importanti ricerche nel campo della neuro-istologia degli animali e dove dimostrò che gli elementi cellulari del sistema nervoso degli invertebrati sono morfologicamente identici a quelli dei vertebrati.

Freud lasciò l’istituto dopo sei anni di permanenza anche se le ricerche effettuate gli assicuravano una carriera nel settore, era animato da grande ambizione e valutava troppo lenti i successi conseguibili in quel campo.

L’aspirazione all’indipendenza economica lo spinse a dedicarsi alla pratica clinica, lavorando per tre anni presso l’Ospedale Generale di Vienna con pazienti affetti da turbe neurologiche.

Questa disciplina, molto più remunerativa, gli avrebbe permesso di sposare Martha Bernays, parente del celebre spin doctor Edward Bernays con il quale Sigmund Freud ebbe una cospicua corrispondenza epistolare, fu mentre lavorava in questo ospedale, nel 1884, che Freud cominciò gli studi sulla cocaina, sostanza allora sconosciuta ai più.

Scoperto che la cocaina era utilizzata dai nativi americani come analgesico, la sperimentò su se stesso osservandone gli effetti stimolanti e privi, a suo dire, di effetti collaterali rilevanti.

La utilizzò in alternativa alla morfina per curare un suo caro amico divenuto morfinomane in seguito ad una lunga terapia del dolore, ma la conseguente instaurazione della dipendenza da essa, più pericolosa della morfina, fece scoppiare un caso che costituì una macchia nella sua carriera.

Il caso, che ebbe numerosi episodi paranoidei, nonché allucinazioni e deliri, spinsero il medico a pubblicare il saggio: “Osservazioni sulla dipendenza e paura da cocaina” e dopo la pubblicazione smise di farne uso e di prescriverla.

Nel 1885 ottenne la libera docenza e ciò gli assicurò facilitazioni nell’esercizio della professione medica, la notorietà e la stima dei colleghi gli permisero una facile carriera accademica, sino ad ottenere la cattedra di professore ordinario.

Nel biennio 1885-1886 iniziò gli studi sull’isteria e con una borsa di studio si recò a Parigi, dove era attivo Jean-Martin Charcot, questi, sia per i suoi metodi che per la sua forte personalità, suscitò notevole impressione sul giovane Freud.

Le modalità di cura dell’isteria attraverso l’ipnosi, insegnatagli da Charcot, furono applicate da Freud dopo il rientro a Vienna, ma i risultati furono deludenti, tanto da attirarsi le critiche di numerosi colleghi, nel frattempo il matrimonio con Martha Bernays era stato più volte rimandato a causa di difficoltà che apparivano a Freud insuperabili e quando, il 13 maggio 1886, riuscì a sposarsi, visse l’avvenimento come una grossa conquista.

L’8 dicembre 1887 fu iniziato nel B’nai B’rith di Vienna (un anno dopo la sua fondazione) con una conferenza sui sogni che anticipava di due anni l’uscita dell’Interpretazione dei sogni, fu accolta con entusiasmo e rimase legata alla loggia per tutto il resto della sua vita.

Lo stesso anno nacque la prima figlia, Mathilde, seguita da altri cinque figli, di cui l’ultima, Anna, diventò un’importante psicoanalista.

Nel 1886 iniziò l’attività privata aprendo uno studio a Vienna; utilizzò le tecniche allora in uso, quali le cure termali, l’elettroterapia, l’idroterapia e, tecnica in uso dal 1700 ritenuta in grado di agire sul sistema nervoso, ma priva di risultati apprezzabili, la magnetoterapia.

Utilizzò allora la tecnica dell’ipnosi e, per migliorare la stessa, compì un altro viaggio in Francia, a Nancy, ma non ottenne i risultati che si aspettava.

Freud era professore di neuropatologia, e le teorie sulla psicoanalisi avevano poca eco e considerazione nella scuola di medicina dell’epoca, una chiave di volta nel processo evolutivo delle teorie di Freud fu l’incontro con Josef Breuer – importante fisiologo che poi, in diverse circostanze, sostenne Freud anche finanziariamente – intorno al caso di Anna O..

Breuer curava l’isteria della paziente attraverso l’ipnosi nel tentativo di guarirla da sintomi invalidanti tra i quali un’idrofobia psicogena, nacquero così le prime intuizioni sui ricordi traumatici.

Generalmente si usa datare la nascita della psicoanalisi con la prima interpretazione di un sogno scritta da Freud, un suo sogno della notte tra il 23 e il 24 luglio 1895, riportato anche ne L’interpretazione dei sogni come “il sogno dell’iniezione di Irma”.

La sua interpretazione rappresentò l’inizio dello sviluppo della teoria freudiana sul sogno, l’analisi dei sogni segna l’abbandono del metodo ipnotico utilizzato in quella fase del suo sviluppo, che a ragione si può definire l’inizio della psicoanalisi.

Sebbene oggi la paternità del metodo psicoanalitico sia attribuita a Freud, egli, nella prima conferenza a Boston, riconobbe che l’eventuale merito non sarebbe spettato a lui, bensì al dottor Joseph Breuer, il cui lavoro è antecedente agli studi di Freud e ne costituisce il punto di partenza.

La voce più autorevole che si assume il compito di riflettere sul rapporto tra la civiltà occidentale e la guerra è proprio quella di Sigmund Freud, anche il padre della psicoanalisi non era rimasto immune dal turbine di patriottismo che aveva attraversato l’Europa in quel periodo.

Ma un solo anno di guerra gli era stato sufficiente per rielaborare una lettura più distaccata degli avvenimenti in un brevissimo scritto, intitolato Caducità (del 1915), nel quale egli coglie tutta la complessità e la drammaticità del problema.

Per Freud la guerra fa cadere definitivamente l’illusione che il processo di civilizzazione si sia sedimentato nell’animo e nel comportamento degli uomini: al contrario, è sufficiente che lo stato consenta e obblighi i cittadini all’uso legittimo della violenza affinché riemergano le più violente pulsioni aggressive.

Freud affida le proprie riflessioni sulla guerra a un saggio del 1915, Considerazioni sulla guerra e sulla morte, nel quale approfondisce il rapporto tra l’attività pulsionale e l’aggressività.

Quando nel 1933 Hitler prese il potere in Germania, le origini ebraiche di Freud costituirono un problema, nello stesso anno, il suo nome entrò nella lista di autori le cui opere dovevano essere distrutte.

La situazione diventò seria a partire dal 1938, anno in cui l’Austria venne annessa al Terzo Reich, la figlia Anna fu arrestata brevemente dalla Gestapo; i nazisti cominciarono a vessare Freud, che spesso dette loro somme di denaro per cacciarli da casa propria dove di frequente facevano irruzione, all’inizio si accontentavano di questo, ma presto la situazione divenne insostenibile.

Freud, privato intanto della cittadinanza austriaca e divenuto apolide, in pessime condizioni di salute, si preparò a lasciare Vienna pochi giorni dopo, accompagnato da Martha e da Anna che nel frattempo era stata rilasciata, partì per Londra dove avrà lo status di rifugiato politico.

Freud si era ammalato di carcinoma della bocca già negli ultimi anni viennesi, con il quale convisse per 16 anni e nonostante varie cure e ben 32 operazioni, alla fine dovette subire l’invasiva asportazione della mandibola, che lo costringerà a lavorare quasi esclusivamente in silenzio, effettuando sedute ascoltando solamente i pazienti e all’inserimento di una protesi.

Il 21 settembre 1939, Freud, consumato fra atroci sofferenze, sul letto di morte mormorò al dottor Max Schur, proprio medico di fiducia: «Ora non è più che tortura e non ha senso, ne parli con Anna, e se lei pensa che sia giusto, facciamola finita».

Freud si affidò al sentimento della figlia e il medico aumentò gradualmente la dose di oppiacei, morì due giorni dopo, senza risvegliarsi dal sonno tranquillo che la morfina gli aveva provocato, la stessa morfina che aveva combattuto ma che abbracciò sul letto di morte, all’età di 83 anni.

Ma questa, è un’altra storia.

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Manfred von Richthofen – Il barone rosso

S:2 – Ep.36

Manfred von Richthofen è una persona qualunque.

Quello che per i francesi era le diable rouge e per gli inglesi the Red Baron, nacque il 2 maggio 1892 a Breslavia, capitale della regione della Slesia, nell’Impero Tedesco (ora in Polonia).

Era il secondo figlio della nobildonna Kunigunde von Schickfus und Neurdoff e del barone Rittmeister Albrecht Philip Karl Julius von Richtofen, ufficiale di fanteria di base a Breslavia, dove nacque anche il fratello di Manfred, Lothar, che a sua volta sarebbe divenuto aviatore.

Ancora bambino, Manfred si trasferì con la famiglia a Schweidnitz e praticò spesso e con entusiasmo caccia ed equitazione, seguendo la orme del padre, soldato che faceva parte della cavalleria imperiale.

Completò l’addestramento alla scuola per cadetti di Wahlstatt e in seguito fu addestrato nella Reale Accademia militare prussiana a Groß-Lichterfelde dalla quale uscì nella primavera del 1911.

Assegnato come alfiere al 1º Reggimento Ulani “Imperatore Alessandro III” a Ostrovo, una specialità della cavalleria leggera ideata in Polonia, andò a pochi chilometri dalla frontiera russa e nel 1912 fu nominato sottotenente.

Devoto al regime autocratico del kaiser Guglielmo II, già all’inizio della prima guerra mondiale compì diverse azioni sul fronte orientale: il 2 agosto 1914 passò la frontiera russa col suo reggimento, che poco dopo fu trasferito a ovest.

Fu in Lussemburgo, entrò in Belgio sempre col 1° Ulani e fronteggiò i Francesi a Verdun, dove passò mesi in trincea: non c’era niente da fare per gli Ulani in quel periodo di forzata inattività e Manfred scrisse alla madre lamentando che, mentre lui passava le ore in trincea, il fratello Lothar combatteva sul fronte orientale, ma per il coraggio dimostrato per le ricognizioni sotto il fuoco nemico ricevette comunque la Croce di Ferro.

Nel maggio del 1915 fu accolta la sua domanda per entrare nella Luftstreitkräfte, l’aviazione tedesca e superato l’addestramento ai primi di giugno venne destinato al 7º Reparto Complementi dell’aviazione di Colonia per un corso osservatori.

In quegli anni l’aviazione era usata solo come ricognizione, i piccoli velivoli del tempo non erano ancora armati o pochi iniziavano ad esserlo, l’aviatore possedeva solamente una pistola che usava o contro un aviatore nemico o su sé stesso, nel caso precipitasse malamente.

Teniamo presente che i paracaduti ed eventuali sistemi per eiettarsi dei velivoli non erano ancora stati inventati e a volte, più spesso di quello che si pensa, utilizzare la propria pistola su sé stessi prima di precipitare dietro alle linee nemiche, magari con il bacino fratturato dall’impatto al suolo e bloccati all’interno di un aereo di legno che prendeva fuoco, non era la morte migliore che ci si potesse augurare.

Nei mesi di giugno, luglio e agosto del 1915 tornò al fronte orientale e operò come osservatore aereo durante l’avanzata di Mackensen da Gorlice a Brest-Litovsk.

Il 21 agosto, in seguito a un nuovo improvviso trasferimento, ripassò al fronte occidentale e fu assegnato a Ostenda: qui iniziò l’addestramento come osservatore su un “aereo da battaglia”.

L’aviazione tedesca fu tra le prime, se non la prima in assoluto, che montò un mitragliatore su di un velivolo, poi, con l’andare della guerra, si scoprì che l’elemento aria poteva fare la differenza in battaglia e si progettarono anche bombardieri, prima si utilizzavano solo i dirigibili per queste azioni, o aerei con più mitragliatori, e anche più di un posto a bordo.

Ebbe il suo primo duello aereo il 1º settembre 1915 contro un apparecchio inglese, e rientrò senza troppi danni e senza alcun successo.

Segnò poi la sua prima vittoria nel corso della battaglia della Champagne abbattendo un Farman biposto, che però precipitò dieci chilometri oltre le linee, in territorio alleato, per cui, secondo le regole del tempo, non gli fu accreditato.

Il 1º ottobre 1915, durante un viaggio in treno mentre si stava recando alla Brieftauben Abteilung di Metz, Manfred conobbe il miglior pilota da caccia tedesco dell’epoca, Oswald Boelcke, che molto contribuì al suo futuro successo.

Nel novembre 1915 Richthofen andò a Berlino per sostenere gli esami da pilota e il 25 dicembre 1915 superò il terzo esame, nel marzo dell’anno successivo fu assegnato al 2º Stormo da combattimento, in quel periodo a Verdun.

Ebbe la sua prima vittoria da pilota da caccia abbattendo un Nieuport sul forte di Douamont il 26 aprile 1916, ma anche stavolta l’aereo cadde entro le linee francesi, così non gli fu accreditato nemmeno questo.

Nel giugno del 1916 venne trasferito in Russia con tutto il suo reparto, e operò prevalentemente come bombardiere dalla base di Kowel. In agosto Boelcke arrivò a Kowel per visitare il fratello e cercare piloti per lo stormo da caccia che gli era stato ordinato di organizzare e portare in combattimento sulla Somme, così chiese personalmente a Richthofen se volesse farne parte.

Questi accettò, e il 17 settembre 1916, nei pressi di Cambrai, costrinse un aereo inglese all’atterraggio nei pressi di un campo volo tedesco: fu la sua prima vittoria ufficialmente riconosciuta.

Alla fine del 1916, in occasione della sua sedicesima vittoria, fu decorato con il Pour le Mérite, il più prestigioso premio militare tedesco della prima guerra mondiale, una croce smaltata di blu chiamata anche “Blauer Max” e gli fu affidato il comando della Jasta 11 (squadriglia da caccia), che in seguito sarebbe diventata nota come il Circo Volante in virtù dei vivaci colori che decoravano gli apparecchi ma anche per l’abilità dei piloti, scelti attentamente da Richtofen.

Tra di essi c’erano il fratello di Manfred, Lothar, e il cugino Wolfram.

Tra i componenti della squadriglia spiccava il nome, divenuto poi famoso, di Hermann Göring, futuro capo della Luftwaffe e massimo gerarca nazista.

L’appellativo di Barone Rosso gli venne appunto dal fatto che molti degli aerei da lui pilotati, a partire dall’Albatros D.III, erano completamente dipinti di rosso.

Abbattuto senza conseguenze a metà marzo del 1917, continuò a cogliere una vittoria dopo l’altra e il 24 giugno 1917 ricoprì l’incarico di comandante di una nuova unità appena formata, il Primo stormo da caccia, che comprendeva le squadriglie 4, 6, 10 e 11.

Questo stormo da caccia doveva essere un’unità autosufficiente, con lo scopo di ottenere la superiorità aerea in settori decisivi, per contrastare le sempre più consistenti formazioni del Royal Flying Corps britannico.

Il 21 aprile 1918 decollò dal campo di Cappy con altri nove piloti, fra cui suo cugino Wolfram von Richthofen che era alle sue prime missioni di guerra ma incontrarono i Sopwith Camel della 209ª squadriglia della neoistituita Royal Air Force.

Il giovane tenente canadese Wilfrid May vide che Wolfram von Richthofen restava, come lui, ai margini del combattimento aereo, e gli andò in caccia mettendosi in coda, Il barone Rosso si accorse subito di cosa stava accadendo e del pericolo che correva suo cugino ed iniziò ad inseguire Wilfrid May, il quale, con la mitragliatrice inceppata, cercò di allontanarsi.

Questa era di solito la sua tecnica abituale: cercare gli aerei in difficoltà e prenderli in caccia, tuttavia stava sempre attento a non portarsi sulle linee nemiche, ma quel giorno non prese questa precauzione e forse a causa della stanchezza fu certamente poco prudente nel sorvolare a bassa quota quelle linee.

Vedendo il riconoscibile triplano di Manfred von Richthofen in procinto d’attaccare May, il capitano Arthur Roy Brown, altro pilota canadese, decise a sua volta di attaccare il Barone Rosso e ben presto i tre aerei si ritrovarono a bassissima quota sulla terra di nessuno che separava i due fronti.

Richthofen desistette dall’inseguimento, ma sembra che avesse calcolato male la sua posizione per cui, quando fece la virata per tornare indietro, sorvolò una delle zone più munite del fronte della Somme e colpito da proiettili provenienti dalle trincee, il triplano atterrò intatto in una zona controllata dagli australiani.

Alcuni testimoni oculari raccontarono che von Richthofen era già morto, riverso sulla cloche; altri che sopravvisse ancora alcuni minuti prima di emettere un ultimo sospiro, Kaputt, riferito al suo aeroplano.

Un caccia inglese lasciò cadere sul campo-base tedesco di Cappy il seguente messaggio: “AL CORPO D’AVIAZIONE TEDESCO. Il capitano barone Manfred von Richtofen è stato ucciso in battaglia il 21 aprile 1918 e seppellito con tutti gli onori militari“.

Il capitano Brown, ritenuto uno dei possibili abbattitori del Barone Rosso, non rivendicò mai ufficialmente la vittoria; recenti ricerche ne attribuiscono l’abbattimento al sergente mitragliere Cedric Popkin oppure all’artigliere Robert Buie o, il più probabile tra tutti questi, all’artigliere “Snowy” Evans, tali soldati facevano tutti parte della contraerea australiana della 1st AIF.

Le sue spoglie furono ospitate nel cimitero del villaggio di Bertangles, vicino ad Amiens.

Finita la guerra, nel 1919 furono traslate nel Cimitero Militare Tedesco di Fricourt, sulla Somme.

Il 16 novembre 1925 il feretro del Barone Rosso attraversò il Reno e fu accolto da una folla raccolta a Kehl, gli furono tributati grandi funerali di Stato e fu seppellito insieme ai più grandi eroi tedeschi nell’Invalidenfriedhof a Berlino.

Dopo la seconda guerra mondiale, questo cimitero si ritrovò nel settore Est di Berlino: allora la famiglia, temendo che la tomba non venisse più curata, chiese e ottenne, nel 1976, la traslazione delle spoglie nel cimitero sud di Wiesbaden, nella cappella di famiglia, vicino a sua madre e sua nonna.

Viene ricordato come un asso dell’aviazione: più precisamente, come l’asso degli assi, essendogli ufficialmente accreditate 80 vittorie aeree durante la prima guerra mondiale, prima di venire abbattuto il 21 aprile 1918, 7 mesi prima della fine della grande guerra.

Von Richthofen avrebbe compiuto da lì a undici giorni il suo ventiseiesimo compleanno.

Ma questa, è un’altra storia.

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George Foottit – Foottit e Chocolat

S:2 – Ep.35

George Foottit è una persona qualunque.

È difficile pensare ad un clown in tempo di guerra, fa strano immaginarsi questo simbolo dell’allegria costretto ad affrontare uno dei contesti più tragici nei quali può trovarsi un essere umano, eppure, ovviamente, anche i pagliacci subiscono le intemperie della Storia.

George Foottit nacque a Manchester il 24 aprile del 1864, figlio di Sarah e George Foottit.

Il padre, George “Geo” Foottit Senior, era pure lui un clown nello stile di Joseph Grimaldi e si esibiva al Drury Lane Theatre di Londra come Funny Foottit, nel 1867 George Foottit Senior fondò un suo circo itinerante in società con Anthony Powell e altri artisti, ma avendo problemi di alcolismo dovette ben presto rinunciare alla collaborazione.

A soli tre anni, George Foottit Junior debuttò nel circo di suo padre, che gli insegnò il suo repertorio acrobatico e quando di anni ne ebbe otto, nel 1872, i suoi genitori lo iscrissero all’Arnold College, vicino a Nottingham, per approfondire la sua cultura, soprattutto quella musicale.

George frequentò il college per due anni.

Foottit Senior morì nel 1874 e la vedova Sarah si risposò con il cavaliere Thomas Batty, che divenne il direttore del circo, Foottit Junior perfezionò le sue abilità equestri oltre che quelle acrobatiche e di equilibrista e successivamente soggiornò da suo zio materno Sanger, che possedeva un altro circo itinerante molto quotato.

Nel 1882, a diciotto anni, abbandonò il circo di famiglia e iniziò a esibirsi come acrobata a cavallo, anche se ben presto scelse di diventare un clown, come suo padre e 4 anni dopo iniziò a lavorare al Nouveau-Cirque, nel centro di Parigi, che diventò uno dei locali più conosciuti della capitale francese.

Dopo aver recitato da solo per un periodo, formò un duo con Rafael Padilla, in arte “Clown Chocolat”, Foottit impersonava il pagliaccio bianco mentre Chocolat il pagliaccio augusto.

Rafael Padilla, cognome attribuitogli ad arte e non legalmente, era figlio di una famiglia africana ridotta in schiavitù a Cuba.

Il luogo e la data di nascita quindi non sono noti con esattezza, perché non si usava registrare né la data di nascita né il battesimo degli schiavi; perché Rafael era nato schiavo, inoltre, in quanto famiglia di schiavi, quella di Rafael non aveva un cognome.

I suoi genitori scapparono dalla piantagione in cui lavoravano nel 1878, pare che sia rimasto orfano a 8 anni e che sia stato affidato a una signora in un quartiere poverissimo dell’Avana ma lei lo vendette per 18 once d’oro a Caridad Padilla, che gli attribuì il suo cognome ma mai legalmente, moglie di un commerciante di legna e zucchero, che lo portò con sé vicino a Bilbao.

Nella nuova casa Rafael venne sottoposto a bagni “sbiancanti” con spazzole per cavalli fino a che, nel 1882, scappò ma rimase nei paraggi di Bilbao, dove iniziò a lavorare come minatore, scaricatore di porto, fattorino, cantante di strada, nel frattempo, la schiavitù iniziava a essere abolita in diversi paesi: a Cuba sarebbe stata abolita nel 1886.

A Bilbao assistette a uno spettacolo del clown inglese Joseph Thomas “Tony” Grice e ne rimase affascinato.

Rafael si presentò a Grice offrendosi come aiutante, facendosi notare per la sua forza fisica e per il suo talento nella danza, così, dopo averlo assunto come tuttofare, Grice imbastì effettivamente uno spettacolo insieme a Rafael, in previsione del suo rientro in Francia: il quotidiano Le Figaro pubblicizzò il rientro di Tony Grice “insieme al suo negro, alla sua scimmia e al suo maiale.

Durante il sodalizio artistico con Grice, prese il nome d’arte di “Clown Chocolat”.

Il duo Tony Grice-Chocolat iniziò a esibirsi al “Nouveau Cirque” di Parigi dal 1886, in un periodo storico in cui l’intrattenimento diventa una sorta di industria, poi, nel 1888 i due litigarono e ruppero il loro sodalizio ma fu in questo periodo che conobbe la donna della sua vita, Marie Hecquet, all’epoca sposata Grimaldi.

Nel 1895 il marito di Marie, Enrico Grimaldi, presentò istanza di divorzio accusando la moglie di adulterio e abbandono del tetto coniugale, Rafael e Marie iniziarono a vivere insieme e diventarono una delle prime coppie miste nella storia francese.

Tuttavia, non poterono mai sposarsi legalmente perché Marie aveva divorziato con colpa di adulterio, quindi non le era consentito di sposare il suo “complice” e secondariamente perché Rafael non possedeva uno stato civile: egli rimase infatti senza documenti, e senza cognome, fino alla morte.

Chocolat veniva associato sempre più spesso a George Foottit, con discreto successo, tanto che la direzione del “Nouveau Cirque” si convince a formare un nuovo duo: Foottit avrebbe recitato la parte del pagliaccio bianco, autoritario, severo, preciso, mentre Chocolat la parte dell’ augusto, stralunato, incapace e pasticcione.

Ne risultò la coppia circense più in auge di fine secolo, innovatrice e iniziatrice di un nuovo genere clownesco, la “commedia clownesca” basata appunto sull’associazione fra clown bianco e augusto, che fino a quel momento non erano mai stati visti insieme.

In tutti gli sketch, Foottit schiaffeggia e picchia Chocolat, il quale tenta di restituire i colpi, questa costante sarà sia l’origine del loro successo, che del loro declino, l’atteggiamento dell’opinione pubblica verso Chocolat cambiò a causa dell’Affaire Dreyfus, che aveva sconvolto l’opinione politica francese tra il 1894 e il 1906.

L’Affare Dreyfus fu il maggiore conflitto politico e sociale della Terza Repubblica a seguito dell’accusa di tradimento e spionaggio a favore della Germania mossa nei confronti del capitano alsaziano ebreo Alfred Dreyfus, il quale però era innocente, anche gli storici sono concordi nell’identificare la vera spia nel maggiore Ferdinand Walsin Esterhazy.

L’affare costituì lo spartiacque nella vita francese tra i disastri della guerra franco-prussiana e la prima guerra mondiale: costrinse ministri a dimettersi, creò nuovi equilibri e raggruppamenti politici, spinse a un tentato colpo di Stato.

La condanna di Dreyfus fu un errore giudiziario, avvenuto nel contesto dello spionaggio militare, dell’antisemitismo imperversante nella società francese e nel clima politico avvelenato dalla perdita recente dell’Alsazia e di parte della Lorena, subita per opera dell’Impero tedesco di Bismarck nel 1871.

Lo scandalo giudiziario si allargò per gli elementi di falsificazione delle prove portati nel processo, gli intrighi e la coriacea volontà dei più alti vertici militari di Francia nell’impedire la riabilitazione di Dreyfus, mentre giornali e politici antisemiti, ambienti ecclesiastici e monarchici istigarono e aizzarono ampi settori della società francese contro Dreyfus, i pochi difensori della sua innocenza vennero a loro volta minacciati, condannati o dimessi dall’esercito.

Il maggiore Marie-Georges Picquart, capo dei servizi segreti militari e figura centrale nella riabilitazione di Dreyfus, fu prima degradato e trasferito in Africa, poi arrestato e condannato e solo grazie a un compromesso politico, Dreyfus, fu graziato e liberato nel 1899, ci vollero altri anni per ottenere la riabilitazione civile e il suo reintegro nell’esercito nel 1906.

Mentre prendeva progressivamente coscienza del suo antisemitismo, la società francese iniziava a interrogarsi sulla discriminazione e sul colonialismo, questa maggiore sensibilità fece sì che gli sketch in cui Foottit picchiava Chocolat smisero di far ridere e quindi, nell’agosto del 1905, la nuova direzione del “Nouveau Cirque” congedò Foottit e Chocolat e non rinnovò il loro contratto.

I due smisero di lavorare insieme per un anno, periodo in cui Chocolat finì in miseria ma tornarono sulla scena nel 1906 anche con i figli di Chocolat, ma il successo era progressivamente minore.

Nel 1910, mentre interpretava con Chocolat una parodia dell’Amleto, Foottit venne scritturato da André Antoine per interpretare il fool in una vera rappresentazione di Romeo e Giulietta di William Shakespeare al Teatro dell’Odéon.

Nel 1911, anche Chocolat ricevette un ingaggio per recitare nell’opera “Moïse” di Edmond Guiraud, tuttavia, essendo illetterato e parlando creolo haitiano, non riusciva a padroneggiare sufficientemente bene la lingua francese, e lo spettacolo fu giudicato un fiasco.

Negli anni successivi, lavorò al “Circo Medrano” che però vedeva la concorrenza del nascente cinema e dello sport, gli sketch dei clown diventavano solo intermezzi al cinema.

Nel 1913 la figlia Suzanne morì di tubercolosi e Chocolat cadde in depressione, sviluppando una dipendenza dall’alcol, lasciò Parigi e tornò a lavorare in un circo ambulante.

I due non si rivedranno mai più.

Durante la prima guerra mondiale, Foottit iniziò a esibirsi insieme ai suoi figli Thomas, George e Harry, per l’esercito francese ma anche lui patì la concorrenza del cinema e dello sport e visto che il lavoro diminuiva, Foottit aprì un bar a Parigi nei paraggi degli Champs Élysées che però gli assicurò un certo reddito.

Chocolat morì a Bordeaux nel 1917, apparentemente dimenticato, diversi giornali annunciarono la sua morte, in particolare l'”Excelsior” chiese a Foottit di scrivere un ricordo di lui: Foottit gli dedicò un commosso necrologio, dove ricostruì la sua vita in brevi cenni.

Nel 1920, dopo la guerra, interpretò il ruolo di un clown filosofo, nella commedia Les Mille et Une Nuits di Firmin Gémier, rappresentata al Théâtre des Champs-Élysées e l’anno successivo recitò nel cortometraggio muto Fièvre del regista Louis Delluc.

Si esibì pubblicamente per l’ultima volta, con una parodia che alludeva alle ballerine di Edgar Degas, in uno spettacolo a casa dello stilista Paul Poiret.

Morì di cancro all’età di 57 anni, nella sua casa di Parigi, il 29 aprile 1921, nei necrologi fu riconosciuto come “il principe dei clown”.

I fratelli Lumière filmarono il Foottit e Chocolat in diversi sketch e le prime pubblicità industriali fecero ricorso alla celebrità del duo, sfruttando lo stereotipo del nero sporco e del nero battuto e contento.

Ma questa, è un’altra storia.

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Arthur Machen – Gli angeli di Mons

S:2 – Ep.34

Arthur Machen è una persona qualunque.

Arthur Machen, pseudonimo di Arthur Llewelyn Jones è stato uno scrittore gallese, noto soprattutto per i suoi racconti dell’orrore, del fantastico e del soprannaturale.

Arthur nacque a Caerleon, trascorrendo la sua infanzia in quella regione ricca di suggestioni e riferimenti storici che influenzò profondamente la sua sensibilità e successivamente la sua produzione artistica.

La povertà della sua famiglia gli impedì di frequentare l’università e Machen si recò a Londra dove tuttavia dimostrò le proprie qualità letterarie, nel 1881 pubblicò il lungo poema Eleusinia, che si lasciava suggestionare da alcuni affascinanti elementi dei cosiddetti misteri eleusini, riti religiosi misterici che si celebravano ogni anno nel santuario di Demetra nell’antica città greca di Eleusi.

A Londra Arthur visse in relativa povertà lavorando come giornalista, impiegato di tipografia e istitutore, la persona addetta all’istruzione e all’ammaestramento dei figli di famiglie ricche, continuando nel tempo libero la sua attività di romanziere, che in quel periodo risentì molto delle lunghe passeggiate attraverso la città.

Nel 1910 Machen accettò un lavoro fisso come giornalista presso l’Evening News di Alfred Harmsworth sempre a Londra e allo scoppio della guerra, nel 1914, venne inviato come corrispondente, arrivò alla notorietà con gli episodi di “cronaca” The Bowman e Angels of Mons.

Pubblicò inoltre una serie di racconti, molti dei quali di propaganda, tra cui The Great Return (1915) e il romanzo breve Il terrore (1917), oltre ad una serie di articoli autobiografici poi raccolti nell’antologia Far off Things, ma oggi ci occuperemo nello specifico di Bowman, degli angeli di Mons, dei falsi miti della prima guerra mondiale e di quello che scaturirono.

Il 22 e il 23 agosto del 1914 le truppe britanniche e quelle tedesche si scontrarono nella città belga di Mons, era la prima grande battaglia della guerra, che contrariamente alle aspettative, costrinse l’esercito britannico a ritirarsi.

Poco dopo il nostro scrittore Machen, ispirato dalla battaglia, scrisse The Bowman, un racconto dove un soldato evocava grazie a San Giorgio un gruppo di arcieri fantasma della battaglia di Azincourt, avvenuta 500 anni prima.

La battaglia di Azincourt si svolse vicino l’omonima località nell’odierno dipartimento del Passo di Calais il 25 ottobre 1415 nell’ambito della guerra dei cent’anni, vedendo contrapporsi le forze del Regno di Francia di Carlo VI contro quelle del Regno d’Inghilterra di Enrico V.

Falliti i negoziati con i francesi, gli inglesi ripresero la campagna sul continente europeo ma a causa delle malattie, l’esercito di Enrico perse numerosi soldati e fu costretto a ritirarsi ripiegando, ma lungo la via per Calais i francesi sbarrarono loro la strada presso Azincourt con un’armata molto più numerosa.

Negli scontri che seguirono, re Enrico in persona guidò in prima linea il suo esercito, la battaglia vide un ampio uso dell’arco lungo, circa l’80% delle forze inglesi erano formate da arcieri mentre re Carlo VI di Francia non prese parte alla battaglia, a causa dei disturbi psichici di cui soffriva.

In virtù della decisiva vittoria inglese la battaglia è considerata uno dei momenti più cupi della storia della Francia e, al contrario, uno dei più fulgidi per l’Inghilterra.

L’articolo sugli angeli di Mons di Arthur Machen fu pubblicato sul London Evening News il 29 settembre di quell’anno, senza una chiara indicazione che si trattava di un racconto di fantasia e da quel momento Machen, che non aveva mai voluto creare una bufala, perse totalmente il controllo della sua creatura.

Nonostante i tentativi dell’autore di chiarire la faccenda, gli Angeli di Mons furono presi sul serio e si moltiplicarono le storie su di loro, spuntarono addirittura soldati pronti a confermare la loro esistenza, anche se non si trovavano nemmeno lì.

La propaganda britannica favorì la circolazione di questa (e altre) storie, che avevano il pregio di tenere alto il morale delle truppe, ma considerando che non può esistere il bene senza il male, da un’altra parte della guerra, si incominciò a parlare dei disertori cannibali.

La terra di nessuno, quel tratto di terra compresa fra due trincee nemiche tra loro, fa da sfondo a un’altra leggenda della Grande guerra, quella dei Wild deserters, in questo caso, però, la speranza dell’aiuto celeste cede decisamente il passo all’orrore.

Erano un branco di disertori che ospitava rappresentanti di quasi tutte le nazioni in conflitto (dal 1915 Italia compresa), il loro territorio era appunto la terra di nessuno, dove si nascondevano in grotte o in trincee abbandonate.

Questi rinnegati fedeli solo alla propria sopravvivenza, orribili nell’aspetto ma molto bene armati, emergevano dal sottosuolo e attaccavano di notte depredando i soldati, secondo alcuni non erano nemmeno umani, ma bestie soprannaturali che si cibavano dei cadaveri insepolti lasciati in quel lembo di terra.

La leggenda è nata con tutta probabilità nelle trincee ed è stata raccontata nelle biografie pubblicate dopo la guerra dai soldati, le guerre sono spesso associate a miti di questo tipo, diffusi sia tra la popolazione che sul fronte.

Molte leggende di guerra infatti devono il loro successo alla propaganda, che è particolarmente interessata a dare ampia pubblicità alle atrocità commesse dal nemico, queste possono essere reali, reali ma esagerate o anche totalmente false, come nel caso delle fabbriche di cadaveri tedesche, in grado di trasformare corpi umani in sapone e altri prodotti.

Come sempre non è facile ricostruire la genesi delle leggende, ma oggi gli storici pensano che sia andata in questo modo: già dal 1915 erano in circolazione voci di questo tipo, ma come voci appunto erano trattate e al massimo i giornali le usavano per fare satira.

Ma nel 1917, partendo da un articolo belga a propria volta basato su un articolo in lingua tedesca, i giornali inglesi pubblicarono quella che sembrava la prova dell’esistenza di una di queste fabbriche.

Persino la famosa rivista medica The Lancet non rinunciò a quello che forse oggi chiameremmo clickbait, e pubblicò un articolo su quello che si poteva ottenere in teoria da un corpo umano.

In realtà le Kadaver-Verwertungs-Anstalt descritte dall’articolo originale in tedesco processavano carcasse animali: kadaver in tedesco non si usa per corpi umani, la propaganda inglese lo sapeva bene, ma fece comunque in modo che la storia si diffondesse.

Dopo la guerra il capo dell’Intelligence britannica John Charteris confessò di aver inventato il tutto con l’obiettivo di convincere la Cina a entrare in guerra, in realtà aveva trasformato in propaganda, cioè in un’arma, una voce già esistente, e questo ebbe delle conseguenze a lungo termine.

I tedeschi di fatti non dimenticarono l’accaduto, e all’alba della II Guerra mondiale la loro propaganda usò la bufala per dimostrare quali falsità potevano raccontare i nemici, inoltre le procedure di sterminio della Shoah, con treni carichi di persone inviati in centri di produzione, ricordavano molto la leggenda delle fabbriche di cadaveri: questo potrebbe essere uno dei motivi per cui all’inizio, anche tra gli alleati, qualcuno non credeva che stesse davvero accadendo.

Ma quello che oggi chiamiamo fake news della prima guerra mondiale non finiscono qui, il 12 aprile del 1915 un giornale parigino, Le Journal des débats, riferì di una bambina che avrebbe raccontato alla madre di aver visto la vergine Maria.

Questa avrebbe previsto la morte della bambina e che la famiglia dopo tre giorni avrebbe ricevuto la notizia del ferimento del padre, l’ultima profezia della Madonna fu che la guerra sarebbe finita a maggio (di quell’anno, cioè il 1915), ovviamente tre giorni dopo, secondo la leggenda, il padre fu ferito veramente.

Le profezie avverate generano l’aspettativa per quella che interessa a tutti, cioè la fine della guerra.

Sempre del 1915 è una storia diffusa dal milanese Il Secolo che riferisce le previsioni di un’anziana agli altri passeggeri di un tram, in questo caso prima pronostica che la guerra finirà in tre mesi, poi, come prova, indovina quanto il bigliettaio ha in tasca, che a questo punto le promette un premio nel caso effettivamente la guerra finisca e, ovviamente, sempre secondo la previsione, la donna indovinò l’ammontare dei soldi in tasca al bigliettaio.

Quasi identica una storia riportata dal Corsera (Corriere della Sera) il 17 marzo 1917, che indicava come fonte il Petit Parisien, l’indovina in questo caso era la tranviera stessa, lo scettico un non precisato ufficiale di non si sa quale esercito, ma per il resto la storia è identica.

Fatto rimane che la guerra finì non a maggio come disse la bimba che vide la Madonna o tre mesi dopo la previsione della vecchia indovina del 1915 e nemmeno nel 1917 come detto dalla tranviera ma, per quelli a cui sfuggisse, l’11 novembre del 1918.

Machen visse quasi tutta la sua lunga vita in povertà, le difficoltà economiche ebbero termine solo nel 1943 in occasione del suo ottantesimo compleanno, quando venne inserito in una lista di importanti letterati, i proventi ricavati da quest’iniziativa gli permisero di vivere felicemente i suoi ultimi anni, fino al 1947 quando morì a Beaconsfield a 83 anni.

Tredici anni dopo la sua morte, Machen fu ampiamente citato ed elogiato come esempio paradigmatico di una diversa visione della realtà de Il mattino dei maghi di Pauwels e Berger e venne citato nel racconto di Lovecraft “Colui che sussurrava nelle tenebre” come autore di suggestivi racconti fantastici.

Certo, Arthur Machen aveva solamente inventato gli angeli di Mons, e ci provò pure a smentire la bufala, ma nessuno gli credette, mentre era più facile credere alle storie diffuse dai giornali delle varie nazioni, strano come oggi funzioni ancora così, a distanza di più di un secolo.

Ma questa, è un’altra storia.

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Gavrilo Princip – Dove tutto ebbe inizio

S:2 – Ep.33

Gavrilo Princip è una persona qualunque.

Da ormai 32 episodi raccontiamo storie più o meno conosciute del periodo storico della prima guerra mondiale, guerra, iniziata ufficialmente quando l’arciduca Francesco Ferdinando erede al trono venne assassinato, assieme alla moglie Sofia, da un terrorista.

Francesco Ferdinando era nipote (figlio del fratello) dell’imperatore Francesco Giuseppe I d’Austria e, al momento della sua nascita, terzo in linea di successione al trono dopo il cugino Rodolfo e il padre.

Nel 1889 il cugino Rodolfo si suicidò a Mayerling senza lasciare eredi maschi e Carlo Ludovico, padre di Francesco Ferdinando, divenne il primo in linea di successione, così, quando nel 1896 il padre morì Francesco Ferdinando divenne l’erede al trono austro-ungarico.

Ma l’imperatore Francesco Giuseppe, nonostante l’età avanzata, mantenne saldamente il potere e lo tenne sempre lontano dalle decisioni di governo, come del resto aveva fatto in precedenza con il figlio Rodolfo.

Non è noto con sicurezza dove Sophie abbia incontrato per la prima volta l’arciduca erede al trono austro-ungarico, sebbene molte fonti indichino che l’incontro sarebbe avvenuto durante un ballo a Praga, forse nel 1894.

Sophie e Francesco Ferdinando tennero segreta la loro relazione per diversi anni ma quando l’erede al trono iniziò a fare regolari visite nella casa dell’arciduca Federico d’Asburgo-Teschen, divenne di dominio pubblico che era innamorato della figlia di lui e scoppiò uno scandalo pubblico.

L’imperatore Francesco Giuseppe chiarì subito al principe Francesco Ferdinando che non avrebbe mai potuto sposare Sophie perché per essere una candidata ufficiale ad entrare a far parte della famiglia imperiale, avrebbe dovuto appartenere ad una delle famiglie regnanti in Europa o almeno ad una delle precedenti dinastie regnanti.

La famiglia Chotek non apparteneva a nessuna di queste categorie, Francesco Ferdinando replicò che in quel caso non avrebbe mai sposato nessun’altra candidata. Guglielmo II di Germania, lo zar Nicola II di Russia ed il papa Leone XIII furono coinvolti per intercedere in favore del volere imperiale affinché il contrasto tra Francesco Giuseppe e Francesco Ferdinando non minasse la stabilità della Corona imperiale.

Il suo matrimonio con la contessa Sophie Chotek von Chotkowa fu autorizzato solo dopo che la coppia ebbe accettato che la sposa non avrebbe goduto dello status di reale e che i loro figli non avrebbero dovuto avere pretese al trono, Francesco Giuseppe non partecipò alla cerimonia del matrimonio, così come non vi partecipò il fratello dello sposo, Ferdinando Carlo.

Nei primi anni del 20° sec. andarono delineandosi due blocchi contrapposti: Francia e Gran Bretagna, da una parte, saldarono la loro alleanza nell’Intesa cordiale del 1904 e dall’altra, gli ‘imperi centrali’, Austria-Ungheria e Germania, legarono a loro l’Impero ottomano.

Negli stessi anni le crisi internazionali si fecero ricorrenti, in particolare a seguito dell’annessione della Bosnia-Erzegovina da parte dell’Austria-Ungheria che alimentò gli scontri nei Balcani, principale focolaio di tensioni insieme con la competizione franco-tedesca.

Dopo l’attentato dell’arciduca, l’Austria-Ungheria, ottenuta mano libera dalla Germania, lanciò un ultimatum il 23 luglio 1914 alla Serbia, ritenendola corresponsabile e il 28 luglio l’Austria dichiarò guerra alla Serbia.

La catena delle alleanze fece precipitare la situazione: la Russia rispose con una mobilitazione generale, la Germania dichiarò guerra alla Russia e poi alla Francia, quindi violò la neutralità di Lussemburgo e Belgio e questo atto di forza decise l’ingresso in guerra della Gran Bretagna contro la Germania.

Poche settimane dopo anche il Giappone entrò nel conflitto, in quanto alleato della Gran Bretagna; Francia, Gran Bretagna e Russia sanzionarono con il Patto di Londra una vera e propria alleanza.

La Turchia, timorosa della Russia e legata alla Germania, decretò la chiusura degli stretti alla navigazione commerciale e si unì agli Imperi centrali.

Il Portogallo si schierò a fianco dell’Intesa.

Tutto iniziò, per l’appunto, quando Ferdinando e Sofia furono uccisi con due colpi di pistola da una persona qualunque, un terrorista serbo che si chiamava Gavrilo Princip.

Gavrilo nacque il 25 luglio 1894 in Bosnia Erzegovina, all’epoca territorio amministrato dall’Austria-Ungheria ma soggetto alla sovranità formale dell’impero ottomano.

Era il sesto di nove fratelli e fu uno dei soli tre a sopravvivere durante l’infanzia, era figlio di un postino e la sua gioventù fu segnata dalla povertà e dalle precarie condizioni di salute: contrasse la tubercolosi da bambino.

Studiò presso la Scuola Commerciale a Sarajevo e in seguito si iscrisse alla Scuola superiore ma durante la sua infanzia presso la Scuola Commerciale si distaccò apertamente dai movimenti radicali serbi delle organizzazioni giovanili private.

Divenuto adolescente, nel 1912 fu mandato a Belgrado per continuare la sua istruzione ma abbandonò gli studi quando venne coinvolto nel movimento ultra-nazionalistico serbo, unendosi a un’associazione politico-rivoluzionaria, la Giovane Bosnia, il cui obiettivo era liberare la Bosnia Erzegovina dal dominio dell’Impero austro-ungarico e annetterla al regno di Serbia.

L’organizzazione Giovane Bosnia, nata a Sarajevo agli albori del XX secolo, ebbe dapprima lo scopo ultimo di liberare il territorio bosniaco occupato dal nemico austriaco, senza però essere guidata né da alcuna ideologia comune né da dogmi.

L’attentato vide la partecipazione, oltre a Princip, anche di altri cinque membri della Giovane Bosnia, il gruppo era armato di pistole e bombe, fornite da una società segreta, la Mano Nera, che aveva anche molti sostenitori tra gli ufficiali serbi e i funzionari del governo.

La Mano Nera, ufficialmente Unificazione o Morte, fu una società segreta fondata in Serbia nel maggio del 1911 come parte del più ampio movimento nazionalista pan-slavo, che aveva come obiettivo quello di unire sotto lo stesso Stato tutti i territori con popolazioni serbe, ovvero la Bosnia ed Erzegovina e il Montenegro.

Il gruppo annoverava una vasta gamma di ideologie, dagli ufficiali militari favorevoli alla cospirazione fino agli studenti idealisti tendenti ad ideali repubblicani, a dispetto dell’ideologia fortemente nazionalistica del movimento vicina ai circoli fedeli alla corona.

Il leader del movimento, il Colonnello Dragutin Dimitrijević detto “Apis”, era stato un responsabile diretto nel colpo di Stato del giugno del 1903 che aveva portato al potere il re Petar Karađorđević.

L’obiettivo della Mano Nera era quello di creare uno Stato indipendente slavo guidato dalla Serbia e quelli croati, assoggettati da tempo.

Il progetto dell’organizzazione terroristica panslavista vedeva un ostacolo nel disegno “trialistico” di cui l’arciduca Francesco Ferdinando era il più autorevole sostenitore, che prevedeva la creazione all’interno dell’impero asburgico di un terzo polo nazionale slavo accanto a quelli tedesco e magiaro.

Quello del 28 giugno 1914, a Sarajevo, fu senza dubbio un attentato fuori dal comune, all’inizio sembrava destinato al fallimento, ma poi le cose andarono diversamente.

A Sarajevo, verso le ore 09:50, il commando di attentatori si era recato all’angolo del corso Voivoda, attendendo il passaggio dell’automobile dell’Arciduca per portare a termine la propria missione di morte.

Alle ore 10:00 in punto, lo studente Gavrilo Princip uscì da una locanda unendosi alla folla e posizionandosi in prima fila, con la mano che teneva in tasca stringeva la pistola con la quale avrebbe dovuto sparare all’Arciduca quando la sua auto fosse passata davanti a lui.

Improvvisamente, in fondo al corso, s’udì un’esplosione e, poco dopo, l’auto con a bordo la coppia reale passò a tutta velocità davanti al luogo dove si trovava appostato Princip, dirigendosi verso il municipio.

Il primo attentatore aveva infatti sbagliato il lancio di una bomba a mano, riuscendo solo a ferire l’aiutante di campo di Francesco Ferdinando e a questo punto la missione di Princip sembrava fallita, si incamminò verso via Re Pietro, nel frattempo però, l’automobile dell’Arciduca, raggiunto il municipio, vi si fermò solo il tempo necessario a Francesco Ferdinando per redarguire il sindaco di Sarajevo per l’accoglienza ricevuta, quindi ripercorse a ritroso la strada fatta in precedenza per andare a recuperare l’aiutante dell’erede al trono, che nel frattempo era stato medicato per le leggere ferite riportate in precedenza.

L’auto percorse l’itinerario a passo d’uomo, a causa della massa di gente che, sfollando, aveva invaso la sede stradale, Princip, che deluso stava ritornando alla taverna, si trovò proprio di fronte alla coppia reale ed esplose due colpi di pistola all’indirizzo delle sue vittime, questa volta colpendole a morte, i proiettili esplosi da Princip colpirono l’arciduca Francesco Ferdinando al collo, mentre la moglie fu ferita allo stomaco, causando la morte dei due in breve tempo.

Princip venne immediatamente tratto in arresto dalle guardie presenti.

Dei sei attentatori, la polizia riuscì ad arrestare soltanto Gavrilo Princip e l’amico Nedeljko Čabrinović, gli altri, a causa della grande folla di persone, non ebbero l’opportunità di entrare in azione e riuscirono a dileguarsi.

Una volta arrestato, Princip tentò di suicidarsi, prima provò a farlo ingerendo del cianuro, la seconda volta sparandosi con la sua pistola ma nessuno dei due tentativi andò a buon fine: nel primo caso vomitò il veleno, come successe anche a Čabrinović, mentre nel secondo caso la pistola venne allontanata prima che potesse sparare un altro colpo.

All’epoca dell’attentato Princip, ancora diciannovenne, era troppo giovane per poter subire la condanna a morte, l’assassino venne pertanto condannato a vent’anni di prigione.

Ma in cella trascorse soltanto quattro anni, vivendo in pessime condizioni nella prigione di Terezín, finché morì di tubercolosi il 28 aprile 1918, all’età di 23 anni.

Ma questa, è un’altra storia.

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Charles Spencer Chaplin – Il monello vagabondo

S:2 – Ep.32

Charles Spencer Chaplin è una persona qualunque.

Charles Spencer Chaplin nacque il 16 aprile 1889 a East Street, nel sobborgo londinese di Walworth.

I suoi genitori erano Charles Chaplin Senior, un attore di varietà di discreto talento e successo ma compromesso dalla dipendenza dall’alcol, e Hannah Harriette Hill, un’attrice conosciuta come Lily Harley, di altrettanto talento, ma minor fortuna.

La coppia aveva già un figlio, Sydney, nato quattro anni prima dalla relazione con un uomo molto più anziano di lei, con cui era fuggita in Africa.

Col piccolo Charlie in fasce e suo padre in tournée in America, Hannah allacciò una relazione con un cantante all’epoca piuttosto in voga, Leo Dryden, dal quale ebbe un figlio, il matrimonio già in crisi subì un colpo definitivo dal tradimento: la separazione avvenne l’anno successivo alla nascita di Charles.

Per le precarie condizioni finanziarie della famiglia, Charles e suo fratello trascorsero due anni fra collegi e istituti per orfani ma il talento innato e la frequentazione dei teatri al seguito della madre forgiarono il piccolo Chaplin.

I primi passi sul palcoscenico li mosse assieme a lei a sette anni quando nel 1896, durante una recita in un teatro di varietà, Hannah, a causa di un improvviso abbassamento di voce, fu fischiata e costretta ad abbandonare il palcoscenico; l’impresario mandò a sostituirla in scena proprio il piccolo Charlie, che ottenne un discreto successo cantando una canzone popolare dell’epoca.

Nel 1900, quando Charlie aveva undici anni, suo fratello Sydney riuscì a fargli ottenere il ruolo comico di un gatto nella pantomima Cinderella, rappresentata all’Hyppodrome di Londra, nella quale recitava anche il famoso clown Marceline.

Nello stesso anno Sydney si imbarcò su una nave come trombettista: Charlie rimase solo a sostenere la madre, la cui salute, sia fisica che mentale, cominciava a manifestare segni di cedimento.

L’anno successivo vide la perdita del padre ma le faticose vicissitudini quotidiane segnarono anche la madre Hannah, obbligandola ad un primo ricovero ospedaliero a seguito di una importante forma depressiva a cui non era probabilmente estranea una condizione di denutrizione.

Nel 1903 Charles ottenne una piccola parte in Jim, the Romance of a Cockney e la sua prima personale recensione favorevole sulla stampa e di lì a poco il primo ruolo fisso in teatro: quello dello strillone Billy in Sherlock Holmes portato a lungo in tournée.

Intanto il fratello era tornato a Londra e aveva cominciato anche lui a lavorare in teatro, questo portò ad una migliore situazione finanziaria, i due riuscirono a far dimettere Hannah dall’ospedale, prendendosene cura, ma per poco tempo: una ricaduta ne determinò un nuovo internamento.

Fra il 1906 e il 1907 Chaplin lavorò ne Il Circo di Casey, misto di varietà e numeri circensi e l’esperienza gli permise di familiarizzare con il mondo del circo e di entrare nella compagnia di Fred Karno, anche grazie al fratello Sydney che già vi lavorava.

Il debutto avvenne nel 1906 con L’incontro di calcio, in cui Charles interpretava la parte di un individuo senza scrupoli che tentava di drogare il portiere avversario prima dell’incontro, in questo spettacolo il fratello maggiore ideava le pantomime e Charlie le doveva interpretare: così Chaplin imparò l’arte di esprimersi senza parole.

Ben presto il giovane Chaplin divenne, insieme a Stanley Jefferson (meglio conosciuto come Stan Laurel o, per noi italiani, Stanlio di Stanlio e Ollio) uno degli attori più apprezzati della compagnia.

Nel 1909 la compagnia di Karno iniziò le tournée all’estero: dapprima a Parigi e, due anni dopo, negli Stati Uniti.

Chaplin era il capocomico in A Night in an English Music Hall, atto unico di pantomima.

L’esperienza americana non fu particolarmente felice; ciononostante la compagnia ritornò oltreoceano anche l’anno successivo e questa volta le cose andarono diversamente: il successo fu grande e Chaplin fu notato dal produttore Mack Sennett, che nel novembre 1913 lo mise sotto contratto per la casa cinematografica Keystone, era il primo contratto di Chaplin per una casa cinematografica.

Nel 1914 Chaplin esordì nell’ancora acerbo mondo del cinema con il cortometraggio Charlot giornalista, in questo film, uscito il 2 febbraio di quell’anno, non indossava ancora i panni del personaggio che lo avrebbe in seguito reso universalmente celebre ed immortale ma i due cortometraggi usciti quasi contemporaneamente, Charlot ingombrante e Charlot all’hotel fece conoscere al pubblico la maschera di Charlot quale anche noi la conosciamo: bombetta, baffetti e bastone da passeggio, pantaloni e scarpe sformati e consunti, benché interpretando il ruolo di un comune ubriaco.

Il personaggio universalmente conosciuto come “Il vagabondo” si definirà pienamente soltanto nell’aprile del 1915, nel pieno della prima guerra mondiale alla quale però, gli Stati Uniti, ancora non vi erano entrati. Il vagabondo.

Per la californiana Keystone, nel solo 1914 Chaplin recitò in 35 cortometraggi, da virtuoso della pantomima, comunicava al pubblico una vasta gamma di emozioni, in particolare col volto, dei cui muscoli facciali padroneggiava appieno il controllo con il suo personaggio anticonvenzionale e a tratti sprezzante e nel dicembre 1915 si trasferì a Chicago, dove lavorò per la Essanay in altre 14 produzioni.

Con cachet adeguati a una popolarità sempre più grande, Chaplin approdò alla Mutual Film, firmando altri 12 corti: Charlot fu di volta in volta cameriere, milionario, muratore e sfaccendato e decise di scritturare la diciannovenne Edna Purviance, facendone la sua primadonna in ben 35 film fra il 1916 e il 1923.

I due vissero anche un intenso e travagliato legame affettivo, che si mantenne in amicizia anche dopo la fine della passione e della carriera artistica di lei, accelerata dagli eccessi dell’alcol.

Chaplin, non ancora trentenne, recitò e diresse quasi cento corti nell’arco di cinque anni.

Chaplin non progettava mai su carta nessuna delle sue gag, né tanto meno sceneggiava l’intreccio delle sue comiche, riusciva a tenere a mente un intero film per poi spiegarlo agli attori sul set man mano che lo girava.

Nel frattempo Gli USA entrarono nel Primo Conflitto Mondiale il 6 aprile del 1917, il loro ingresso in guerra fu provvidenziale per i Paesi della Triplice Intesa in quanto da marzo era venuto loro meno l’appoggio della Russia, a seguito della Rivoluzione interna in atto; la Russia quindi aveva firmato una pace separata a Brest Litvosk, ritirando tutte le proprie truppe.

Gli Stati Uniti apportarono nuove dotazioni belliche, un congruo numero di soldati e soprattutto forze fresche.

Si pensi che i soldati europei di entrambi gli schieramenti erano impegnati in una guerra di logoramento nelle trincee da ormai tre anni.

Nel 1918, Charlie Chaplin decise di mettersi in proprio e passò alla First National, con cui fece 10 film, fino al 1923.

Fu proprio la First National – grazie anche all’interessamento del fratello Sydney, ormai suo procuratore — a corrispondergli il favoloso ingaggio di un milione di dollari, cachet mai guadagnato prima da un attore.

Chaplin fondò la United Artists Corporation e da allora in poi curò da solo ogni fase della sua produzione cinematografica, ma a un periodo professionalmente felice non corrispose una vita privata altrettanto serena.

Nel 1918 aveva infatti sposato la giovane Mildred Harris, che credeva incinta di lui (la gravidanza si rivelò però falsa).

Harris rimase incinta poco dopo il matrimonio e diede alla luce un bambino gravemente malformato, Norman Spencer, che sopravvisse solo tre giorni.

I due divorziarono nel 1920.

Nel 1921 Chaplin lavorò ad una pellicola che lo consacrò definitivamente come star affermata.

Dopo diversi travagli che funestarono le riprese ebbe luogo la prima proiezione ufficiale de Il monello, che Chaplin diresse e interpretò e nel quale fece debuttare il piccolo-grande attore Jackie Coogan.

La febbre dell’oro del 1925 è considerato da molti una delle sue opere meglio riuscite ma la produzione del film successivo, Il circo (nel 1928), fu travagliata a causa dei problemi sorti nella vita privata: in quel periodo divorziò dalla seconda moglie, l’attrice Lita Grey, che aveva sposato nel 1924.

L’affermazione del sonoro (a partire dal 1927) colse in contropiede Chaplin, che aveva pensato e costruito Charlot solo per il cinema muto.

Chaplin decise di andare avanti proponendo il suo personaggio.

Nel 1929, l’assegnazione del suo primo Premio Oscar alla carriera lo consacrò come la prima star a vincere tale premio (rimane il più giovane regista nel XX secolo ad averlo vinto).

Quando nel 1929 Charlie Chaplin cominciò a interessarsi al suo nuovo film, il sonoro era diventato ormai pressoché irrinunciabile per qualsiasi regista dell’epoca e Sydney, fratello e manager di Charlot, non esitò a proporgli l’idea di una pellicola sonorizzata, ma Charlie era molto scettico rispetto alla nuova invenzione e tentò in tutti i modi di restare alla pantomima.

Chaplin girò nel 1931 Luci della città, film muto accompagnato dalla musica.

Fu il primo film di Chaplin con sonoro e musiche sincronizzate.

Le sue simpatie politiche non furono da lui mai rivelate esplicitamente, si ritiene fosse un progressista, ma non socialista o comunista, oltre che (cosa da lui invece rivelata) un pacifista e benché vivesse negli Stati Uniti da molti anni e vi pagasse le tasse, Chaplin non chiese mai la cittadinanza statunitense.

Charlie Chaplin morì in Svizzera, la notte di Natale del 1977, all’età di 88 anni.

Quel giorno, a pomeriggio inoltrato, Chaplin chiese alla sua quarta moglie Oona di spalancare le porte della camera affinché dalla hall sottostante potessero salire le note dei Christmas carol, come da rituale che si ripeteva da oltre vent’anni il 24 dicembre nella loro residenza.

Quella stessa notte, intorno alle 4, morì nel sonno.

Ma questa, è un’altra storia.

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Augusto Turati – La befana fascista

S:2 – Ep.31

Augusto Turati è una persona qualunque.

Nato a Parma il 25 agosto 1888 da famiglia con forti tradizioni anticlericali e garibaldine, si trasferì giovanissimo a Brescia, intraprendendo la carriera giornalistica quale redattore a La Provincia di Brescia, giornale di ispirazione liberal-democratica e nel contempo iniziò gli studi in legge, portati avanti in maniera discontinua.

Attivo interventista, prese parte alla prima guerra mondiale con il grado di capitano e venne decorato nel 1916 con una medaglia d’argento sulle alture di Santa Caterina e una medaglia di bronzo sull’altopiano dei sette comuni e, nel 1918, con una Croce al merito di guerra.

Al termine del conflitto, congedato dall’esercito nell’estate del 1919, riprese a lavorare per “La Provincia di Brescia” in qualità di caporedattore.

Nel 1920 aderì ai Fasci di combattimento e, l’anno successivo, al Partito Nazionale Fascista.

Nell’ambito dell’organizzazione del partito si dedicò all’attività sindacale e divenne poi segretario della federazione bresciana.

In seguito alla crisi politica determinata dal delitto Matteotti e allo scopo di fronteggiare il “rassismo” che ne era stato il principale responsabile, nel 1926 Mussolini incaricò Turati di sostituire Roberto Farinacci come segretario nazionale del PNF, affidandogli il difficile compito di rendere maggiormente disciplinato il partito, epurando gli elementi più estremisti.

Per chi non li avesse visti, nello speciale di 5 puntate del nostro podcast dedicate agli attentati al Presidente del Consiglio del 1925 e 1926, Benito Mussolini, Farinacci era uno dei principali sospettati all’organizzazione di, se non tutti, almeno dell’ultimo attentato, quello che portò al linciaggio del piccolo Anteo Zamboni prima che il Duce “spostasse” parecchie cariche e oscurasse Farinacci, sostituito alla segreteria del partito da, per l’appunto, Augusto Turati.

Turati svolse la sua opera moderatrice e moralizzatrice nel partito con estremo rigore e grande determinazione, non sempre riuscendo nell’intento, ma inimicandosi una folta schiera di gerarchi nazionali e locali, primi fra tutti Farinacci, ma anche Costanzo Ciano, De Vecchi, Giunta, Balbo (altro nome uscito nell’ultimo attentato) e Ricci, che dalle direttive di Turati erano stati fortemente colpiti negli interessi politici ed economici.

Chi temeva Turati erano appunto i vari gerarchi, preoccupati che il segretario del partito potesse rafforzarsi troppo nella posizione di vice-duce, così da succedere a Mussolini in caso di una sua prematura scomparsa, prematura scomparsa che, dopo aver subito 4 attentati in 11 mesi, non era da escludere così facilmente.

Ma Turati fu anche l’ideatore, allo scopo di dare visibilità sul territorio ai fasci femminili e all’opera nazionale del dopolavoro, della “Befana fascista”, ordinando alle Federazioni provinciali del Partito Nazionale Fascista di sollecitare commercianti, industriali e agricoltori a donazioni in occasione di tale festa, la cui gestione sarebbe stata curata dalle organizzazioni femminili e giovanili fasciste.

In verità, non fu una novità assoluta ma il recepimento e la pianificazione su scala nazionale di iniziative spontanee in precedenza assunte da molte sezioni del PNF, in Italia e all’estero, come, ad esempio, fu la “Befana fascista ante litteram” organizzata a Buenos Aires dalla sezione argentina dell’Associazione lavoratori fascisti all’estero, che il 6 gennaio 1927 vide una grande partecipazione di emigrati italiani, con la distribuzione di 1 500 doni.

Ma dove nasce “la befana”?

L’origine è forse connessa a un insieme di riti propiziatori pagani, risalenti al X-VI secolo a.C., in merito ai cicli stagionali legati all’agricoltura, ovvero relativi al raccolto dell’anno trascorso, ormai pronto per rinascere come anno nuovo.

La dodicesima notte dopo il solstizio invernale, si celebrava la morte e la rinascita della natura attraverso Madre Natura, i Romani credevano che in queste dodici notti delle figure femminili volassero sui campi coltivati, per propiziare la fertilità dei futuri raccolti, da cui il mito della figura “volante”.

Secondo alcuni, tale figura femminile fu dapprima identificata in Diana, la dea lunare non solo legata alla cacciagione, ma anche alla vegetazione, mentre secondo altri fu associata a una divinità minore chiamata Sàtia (dea della sazietà), oppure Abùndia (dea dell’abbondanza).

Già a partire dal IV secolo d.C. la Chiesa di Roma cominciò a ripudiare e in taluni casi a condannare esplicitamente tutti i riti e le credenze pagane, definendoli un frutto di influenze sataniche, queste sovrapposizioni diedero origine a molte personificazioni, che sfociarono a partire dal Basso Medioevo.

La scopa si pensa che sia una rappresentazione dei roghi in cui il manico rappresentava il palo in cui la condannata veniva legata e la saggina rappresentava la catasta di legna da ardere, ma la scopa volante, era anche antico simbolo da rappresentazione della purificazione delle case (e delle anime), in previsione della rinascita della stagione.

Condannata quindi dalla Chiesa, l’antica figura pagana femminile fu accettata gradualmente nel Cattolicesimo, come una sorta di dualismo tra il bene e il male e già nel periodo del teologo Epifanio di Salamina, la stessa ricorrenza dell’Epifania fu proposta alla data della dodicesima notte dopo il Natale, assorbendo così l’antica simbologia numerica pagana.

Sulle basi di queste tradizioni e della riluttanza alla sopportazione di una parte del cattolicesimo di Augusto e ricordandoci che discendeva da una famiglia anticlericale, Turati non approvava le leghe cattoliche pretendendo la rimozione dell’agronomo Antonio Bianchi – ideatore del “lodo di Soresina”- che metteva in discussione la dottrina sindacale fascista in materia di patti agrari, causando un notevole imbarazzo anche a Mussolini che, in quei mesi, governava con l’appoggio dei popolari, Turati iniziò la suo opera organizzativa della prima Befana ufficiale che divenne la Befana fascista.

Il 6 gennaio 1928 ebbe un successo superiore ad ogni aspettativa che ne decretò la riproposizione annuale, in un continuo crescendo di partecipazione e già nel 1930 i pacchi dono distribuiti superarono i 600 000, nel 1932 furono 1 243 351, ciò presupponeva una macchina organizzativa enorme e capillare, in grado di raccogliere, suddividere, confezionare e distribuire le donazioni.

Ma qualche anno prima, nell’ottobre del 1929, Farinacci diede inizio a una pesante campagna scandalistica contro Turati, forse per vendicarsi del posto “rubato”, basato sulle equivoche confidenze fattegli dalla maîtresse Paola Marcellino, che gestiva la lussuosa casa d’appuntamenti della quale erano entrambi clienti, nei primi mesi del 1930 Turati inviò le proprie dimissioni a Mussolini, che le respinse.

Le voci che Farinacci diffuse erano legate ai gusti sessuali di Turati, secondo ciò che venne diffuso un omosessuale, situazione che di certo non piaceva, vero o falso che fosse, al Partito Fascista Nazionale e, dopo un intero anno di campagna scandalistica, Turati rassegnò nuovamente le dimissioni, questa volta accettate, tornando così al giornalismo, prima come inviato del Corriere della Sera e poi come direttore de La Stampa.

L’abbandono del potere lo espose ancor più alle azioni degli avversari, che non si placarono e, anzi, vennero rafforzate dagli ex collaboratori come Achille Starace, uno dei quattro vicesegretari del PNF cui Turati non aveva mai risparmiato critiche per la sua pochezza, che divenne un suo implacabile persecutore.

Starace e Farinacci continuarono il loro operato denigratorio e ottennero risultati, Turati fu radiato dal partito e, nel 1933, venne confinato a Rodi, poi, dopo un breve soggiorno in Etiopia, rientrò in patria nel 1938.

A partire dal 1934, dopo la caduta in disgrazia di Turati, la “Befana fascista” mutò la denominazione in “Befana del duce” (o “Natale del duce” per le zone in cui era tradizione distribuire i doni ai bambini in tale data), allo scopo di utilizzare la ricorrenza per avallare il culto della personalità di Benito Mussolini, avviata dal nuovo segretario del PNF, Achille Starace.

Nonostante la strenua difesa in suo favore esercitata da Giovanni Agnelli (nonno e omonimo del più contemporaneo patron della Fiat) e Aldo Borelli, un giornalista e direttore molto affermato, fatte direttamente su Mussolini, Turati fu destituito dalla direzione de La Stampa, arrestato e rinchiuso nel manicomio di sant’Agnese a Roma, per poi essere trasferito in una casa di cura a Ramiola, in provincia di Parma.

Per chi non lo sapesse e per quanto fortunatamente queste cose siano inimmaginabili ai giorni nostri, il fascismo cercò sempre di reprimere le manifestazioni più eclatanti di omosessualità, e per poter mostrare che gli italiani fossero, in realtà, immuni da questo “vizio immondo” e antipatriottico, la patologizzazione dell’omosessualità, già ben inserita nella scienza psichiatrica nazionale in quegli anni, serviva anche a questo scopo al regime.

Prevenire o punire, a seconda dei casi, la pederastia, trattata più o meno come una vera e propria deficienza o “pazzia morale”, veniva fatta anche attraverso l’internamento in manicomio, era pratica molto usata non solo in Italia per la verità, ma questa sorte, nel Bel Paese, toccò anche Augusto Turati.

Quando ne uscì, abbandonò l’attività politica e si dedicò alla professione di consulente legale.

Nonostante si fosse manifestato contrario all’ingresso dell’Italia nella seconda guerra mondiale e al costituirsi della Repubblica Sociale Italiana, e domandiamoci il perché, nel dopoguerra venne processato e condannato per il suo trascorso nel Partito Nazionale Fascista di cui fu proprio il segretario, fu poi amnistiato nel 1946.

Augusto Turai morì a Roma il 27 agosto 1955, 9 anni dopo essere uscito dal carcere per essere stato un fascista.

La befana continuò ad esistere anche durante gli anni della seconda guerra mondiale, riprendendo la denominazione di “Befana fascista” dopo l’instaurazione della Repubblica Sociale Italiana.

Ma questa, è un’altra storia.

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Silvestro I° – La notte di capodanno

S:1 – Ep.30

Silvestro I° è una persona qualunque.

Silvestro I° è stato il 33º vescovo di Roma e papa della Chiesa cattolica dal 314 fino alla sua morte che è avvenuta il 31 dicembre del 335 a Roma e dalla quale prese il nome anche la notte di capodanno chiamata anche “notte di San Silvestro”.

La fine dell’anno porta a bilanci e come poteva mancare il nostro?

Abbiamo raccontato le storie di 34 persone (e animali) qualunque quest’anno e ci siamo chiesti, giunti alla fine del nostro primo anno di podcast, dov’erano le persone qualunque nella notte di capodanno di 110 anni fa?

Luisa Zeni, praticamente l’unica agente segreto donna del regio esercito, aveva passato il confine e si stava unendo al gruppo di irredentisti trentini che, poco prima dello scoppiare della prima guerra mondiale, si diressero a Milano per evitare di entrare in guerra con l’esercito austriaco, si sentivano italiani e volevano aiutare la loro nazione.

Raffaele Paolucci si era congedato da poco dall’esercito ed era in attesa di occupazione mentre Raffaele Rossetti nell’esercito c’era ancora, imbarcato sulla nave officina Vulcano, dovevano passare ancora 4 anni prima di conoscersi e portare a termine l’impresa di Pola e l’affondamento della Viribus Unitis grazie alla “mignatta” portata a nuoto nel porto nemico di Pola.

Andrea Giuliani, padre Reginaldo per intenderci, insegnava teologia e ancora non conosceva gli arditi di cui, poi, ne divenne la guida spirituale seguendoli costantemente in prima linea, attraversando più volte il Piave assieme a loro e incitandoli alla battaglia, sostenendoli nei momenti più difficili della grande guerra.

Antonio Cantore, il primo ufficiale italiano abbattuto in circostanze misteriose durante la prima guerra mondiale, era da poco tornato dalla Libia e fu posto al comando della brigata Pinerolo, il colpo che ricevette in mezzo alla fronte doveva ancora essere caricato.

Harry Houdini collaborava già come spia con l’ufficio di Scotland Yard diretto da Melville alla ricerca di spie tedesche, avevano da poco smascherato il barbiere di Karl Gustav Ernst come il centro di una rete di spie germaniche in una nazione già coinvolta nel primo conflitto mondiale.

Cosma Manera, il carabiniere padre degli irridenti, colui che girò il mondo alla fine della prima guerra mondiale per recuperare quegli uomini che nessuno più voleva, uomini che avevano combattuto e perso la prima guerra come austriaci e ungheresi e che poi divennero acquisiti italiani, a capodanno 1914 si trovava in Russia per la sua prima missione alla Corte Imperiale dello zar, gli irridenti non esistevano ancora.

Cher Ami, il piccione viaggiatore americano decorato al termine del primo conflitto, a capodanno 1914 beccava tranquilla all’interno della sua gabbietta, gli stati uniti non erano ancora entrati nel conflitto e la sua vita era semplice, qualche volo di addestramento e del becchime come premio.

Henry Tandey, colui che NON sparò (forse) ad Adolf Hithler quando ne ebbe l’occasione nel 1918, aveva appena preso parte alla prima battaglia di Ypres dove fu ferito a una gamba durante la battaglia della Somme ed era ricoverato per le cure del caso.

Albert Niemann era morto da oltre 50 anni ma la sua scoperta chimica, il fosgene, il gas mostarda che avrebbe poi intossicato 1.176.500 militari durante la prima guerra mondiale e ne avrebbe uccisi 85.000, era in produzione, per essere utilizzata poco dopo sui vari fronti.

Tito Zaniboni, il primo attentatore alla vita del presidente del consiglio del 1925, Benito Mussolini, a capodanno 1914 aveva aderito al Partito Socialista Italiano, nel quale militò nella corrente riformista, ed era consigliere provinciale di Volta Mantovana.

Violet Gibson, autrice del secondo attentato al Duce, era stata presentata come debuttante a corte durante il regno della regina Vittoria ma ne aveva rifiutato gli ideali, la religione e lo stile di vita diventando pacifista e venendo schedata da Scotland Yard.

Gino Lucetti, il terzo attentatore alla vita di Mussolini, il 31 dicembre 1914 lavorava ancora nelle terre di Avenza, di proprietà della madre Adele Crudeli, e militava nell’organizzazione giovanile del Partito Repubblicano.

Anteo Zamboni, il presunto ultimo attentatore o colui che fu linciato dalle camicie nere definendolo tale, l’ultimo giorno dell’anno del 1914 aveva solamente 3 anni e pochi altri gli lasciarono prima di ucciderlo barbaramente.

Anthony Sayer era deceduto qualche secolo prima di quel capodanno che portò poi l’Italia nel primo conflitto mondiale ma la sua creazione aveva già tessuto parecchi legami nel mondo con il nome con cui viene chiamata ancora oggi: massoneria.

Aurelio Baruzzi lavorava in una banca locale in provincia di Ravenna ma non sopportava più il suo lavoro e così due mesi più tardi si arruolò volontario nel Regio esercito come allievo sergente del 41º Reggimento fanteria, col quale entrò nella prima guerra mondiale il seguente 24 maggio e trasformandolo in un eroe.

Ernest Hemingway aveva 15 anni ed era iscritto alla “Municipal High School” dove ebbe la fortuna di incontrare due insegnanti che, avendo notato l’attitudine del ragazzo per la letteratura, lo incoraggiarono già ad iniziare a scrivere.

Remo Pontecorvo, il creatore dei caimani del Piave, era già nell’esercito ed era in missione in Libia ma nell’estate del 1914 le condizioni di sicurezza nei territori della Tripolitania si aggravarono rendendo difficoltosi i rifornimenti con la costa, mentre lo scoppio della prima guerra mondiale non consentì di proseguire in ulteriori azioni belliche, le riserve vennero così dirottate sul fronte aperto contro l’Austria-Ungheria.

Walt Disney aveva 13 anni e stava ancora frequentando la scuola, il resto del tempo lo impiegava lavorarono nel tempo libero nell’impresa paterna di distribuzione di giornali per contribuire alle spese della famiglia.

Margaretha Zelle, si faceva già chiamare Mata Hari e l’ultimo giorno dell’anno del 1914 si trovava a Parigi e si esibiva in case esclusive di aristocratici e finanzieri e in spettacoli nei locali prestigiosi, apparendo vestita con sottili veli traslucidi dei quali si spogliava uno dopo l’altro durante l’esibizione, ma non era ancora una spia doppiogiochista.

Emmy, Oscar e Blackie, i gatti di bordo di varie navi degli anni antecedenti e postumi la prima guerra mondiale, non si sa dove fossero, Oscar e Blackie probabilmente dovevano ancora nascere ed Emmy era scampata da qualche mese all’affondamento della RMS Empress of Ireland.

Giuseppe Aonzo, uno di quegli eroi che affondarono la Szent István nell’impresa di Premuda nel 1918, a capodanno di 4 anni prima lavorava nella marina mercantile civile e, grazie alla sua competenza e passione, dedizione e caparbietà, divenne capitano di lungo corso.

Maria Plozner Mentil stava trascorrendo l’ultima notte dell’anno assieme al marito Giuseppe e i suoi 4 figli a Timau e non sapeva che sarebbe diventata una portatrice carnica l’anno successivo e, soprattutto, non sapeva che sarebbe stata colpita da un cecchino austroungarico 14 mesi più tardi.

Henri Landru, il serial killer francese, doveva ancora iniziare ad uccidere ma aveva già iniziato a truffare e si trovava in carcere proprio per quello, fu lì che gli venne l’idea di agganciare donne in cerca di marito, sposarle ed ucciderle per ereditarne gli averi e facendosi attribuire il soprannome di Barbalù.

Bela Kiss, il serial killer ungherese invece ad uccidere aveva già iniziato da un po’ e anche parecchio, aveva già fatto a pezzi e messo dentro a dei bidoni la moglie e l’amante e parecchie donne della zona, la polizia non l’aveva ancora identificato ma lui era stato richiamato alle armi e si trovava al fronte da dove fece poi perdere le sue tracce.

Vasilij Komarov, l’omicida seriale russo, il lupo di Mosca, doveva ancora iniziare la sua lunga serie di omicidi, era già un alcolizzato, era uscito dal carcere dopo aver scontato la pena per rapina ad un magazzino ed aveva perso la prima moglie di colera ma si era risposato.

Carl Großmann, Fritz Haarmann e Karl Denke, i tre serial killer tedeschi soprannominati “i macellai” per come riducevano le proprie vittime, si trovavano nella Germania già impiegata nella prima guerra mondiale, ma non sotto le armi.

Großmann, dopo essere uscito dal carcere l’anno prima per crimini sessuali, si trasferì in un piccolo appartamento in un povero e malfamato quartiere di Berlino dove iniziò a portare a casa prostitute per poi ucciderle, farle a pezzi e cucinarle, utilizzando poi la carne per farcire panini da vendere alla stazione.

Forse stava facendo proprio questo il 31 dicembre 1914 mentre Haarmann lottava per tenere nascosto l’istinto dell’omicida sessuale seriale che, però, qualche anno dopo uscì comunque iniziando ad uccidere prostituti mordendoli al collo durante l’atto.

Denke in quel periodo era ancora soprannominato “padre Denke”, non era un prelato ma un uomo mosso da carità cristiana che accoglieva senza tetto e li accudiva nella propria casa.

oi iniziò ad ucciderli e farli a pezzi.

Luigi Rizzo a capodanno era sottotenente di vascello di complemento della riserva navale.

Dovette aspettare l’inizio della prima guerra mondiale per portare a termine una lunga serie di incursioni a bordo dei Mas tra cui ci fu anche la d’annunziana beffa di Buccari.

Andrea Lostia aveva già fatto tanto il 31 dicembre 1914, aveva guidato la rivolta dei sardi contro il proprio reggimento, era stato carcerato e liberato per questo e aveva già insinuato nella mente di alcuni ufficiali italiani l’idea di creare un intero reggimento di sardi che diventò poi, l’anno successivo, la brigata Sassari.

Bruce Bairnsfather era al fronte sulle fiandre ed era passata solamente una settimana dall’aver assistito all’evento pacifista non organizzato che coinvolse 100.000 militari dei vari eserciti che ancora oggi viene ricordata come “la tregua di natale”.

Buon anno a tutti i nostri fedeli appassionati e se volete ancora ascoltare storie di pagliacci, attori, soldati e politici del periodo pre e post bellico della grande guerra ci rivediamo martedì prossimo dove vi racconterò di Turati e della befana fascista nella seconda stagione di “una persona qualunque”.

Ma questa è un’altra storia.

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