Carlo Mazzoli – Il Garibaldi d’altura

S:2 – Ep.42

Carlo Mazzoli è una persona qualunque.

Carlo era nato a Cesena, in Provincia di Forlì, il 31 agosto 1879 ed era il fiero ed irrequieto nipote di Felice Orsini, uno scrittore e rivoluzionario italiano, noto per aver causato una strage il 14 gennaio 1858, nel tentativo di assassinare l’imperatore francese Napoleone III.

Felice Orsini era un anticlericale e mazziniano convinto, fu un acceso sostenitore dell’indipendenza della sua terra d’origine, la Romagna, dal dominio dello Stato Pontificio, aveva gettato rudimentali ordigni esplosivi contro la carrozza di Napoleone III, i francesi lo arrestarono e ghigliottinarono il 13 marzo del 1858 e sua sorella era la madre del nostro Carlo Mazzoli che nel 1899 iniziava la vita militare come allievo sergente, diventerà caporale, poi caporal maggiore, quindi Sergente nel 1901 per il Regio Esercito Italiano.

Farà anche il furiere prima di diventare allievo alla Scuola Militare, le sue parole fin da subito furono chiare su ciò che voleva diventare: “A ventidue anni mi sono dato all’Italia. Vivo di essa e per essa, indifferente a tutte le gioie ed a tutti i dolori della vita”.

Al termine del corso con il grado di Sottotenente venne assegnato, nel settembre 1905, in servizio di prima nomina nei Granatieri e, pochi mesi dopo, transitò negli Alpini assegnato al Battaglione “Edolo” del 5° Reggimento Alpini.

Con questo reparto partecipò dall’ottobre 1911, come Tenente fresco di nomina, alla campagna di Libia dove si distinse nei combattimenti di Derna Ridotta Lombardia dell’11 e 12 febbraio 1912 guadagnando subito una prima medaglia d’argento, ed in quelli successivi del 17 settembre in località “Rudero” e dell’8-10 ottobre a Bu Msafer, guadagnando due medaglie di bronzo trasformate poi in Argento.

Forti nuclei turco-arabi attaccarono un battaglione del 35º Reggimento fanteria italiano inviato con compiti di sorveglianza nei dintorni della ridotta “Lombardia” dislocato nei pressi della testata del Bu Msafer; dopo un breve combattimento il battaglione riuscì a scacciare gli assalitori con ripetuti assalti alla baionetta.

Ma l’azione nemica non fu solitaria, nella stessa mattinata, verso le 11:00, le truppe turco-arabe con forze considerevoli, stimate in circa 10.000 uomini, ripresero l’offensiva tentando di accerchiare il battaglione: il tentativo fu vanificato dal pronto accorrere dei soccorsi provenienti da Derna, costituiti da un altro battaglione del 35º e da uno del 26º e dal battaglione alpini “Edolo” con il nostro Carlo Mazzoli rinforzato con elementi dei battaglioni alpini “Ivrea” e “Verona” e da una batteria da montagna.

Le forze sopraggiunte, attaccando sulla sinistra, riuscirono prima a respingere e poi a far retrocedere le forze rivali che si attestarono combattendo in un vallone situato nella zona dell’Uadi Msafer dove si organizzarono a difesa, le perdite da parte italiana furono di 8 ufficiali morti e 57 uomini di truppa, feriti 13 ufficiali e 164 soldati, ma la stima delle perdite da parte turca si aggirò su circa 800 uomini.

Con la conclusione della guerra italo-turca, dal gennaio 1913 venne inviato in Albania quale componente della commissione internazionale per la riorganizzazione di quello Stato, ma visto l’imminente ingresso nella prima guerra mondiale dell’Italia, fu richiamato in patria nel gennaio 1915, venne promosso Capitano e transitò nell’8° Rgt. Alpini.

La grande guerra iniziò e gli venne affidato il comando della 97ª compagnia del Btg. “Gemona”, la “compagnia dei Briganti” e venne inviato a presidiare la Val Dogna in Carnia, il motto della 97ª era “Mai daùr”, “Mai indietro” e motto più azzeccato per Carlo Mazzoli non esisteva.

Prestante nel fisico, al pari degli alpini friulani che componevano quasi esclusivamente la compagnia, aveva un forte ascendente sui suoi uomini che guidava nelle varie azioni ponendosi sempre alla testa, ai soldati piaceva anche la sua spregiudicatezza e l’anticonformismo, per esempio, attribuiva il soldo e le licenze in base al merito effettivo e non al diritto formale.

Spesso li comandava in pattuglia di notte nelle retrovie per razziare legname o altro materiale al comando del proprio Genio italiano, “sordo” alle richieste del loro fabbisogno, non mancarono giovani ufficiali subalterni che abbreviarono la licenza a casa per tornare al fronte al suo fianco.

Per il suo aspetto decisamente anticonformista, portava i capelli lunghi fino alle spalle e una folta barba, fu presto soprannominato il Garibaldi della Val Dogne, lui raccontava di essere stato autorizzato dal Re in persona a portarli e nessuno sentì mai la necessità di smentirlo o di controllare se quello che dicesse fosse realmente vero.

Usava i suoi lunghi capelli per cercare di nascondere le cicatrici che portava come ricordo delle battaglie fatte in Libia, altra sua caratteristica era quella di attorniarsi di grossi cani che personalmente addestrava a varie mansioni e che conduceva all’attacco.

Determinante il suo apporto per la scaltrezza ed impiego tattico della compagnia nella battaglia del 18 e 19 ottobre che portò alla conquista del Mittagskofel, in quell’occasione una bomba lo abbatté procurandogli ben tredici ferite, subito lo dettero per morto, ma aveva la pelle dura e si salvò.

Raccolto con delle coperte dai suoi e portato al vicino ospedale da campo, dopo tre mesi, contro ogni più rosea previsione, fu di nuovo in piedi e venne promosso al grado di Maggiore per meriti di guerra.

La promozione però, con suo grande rammarico, lo allontanò dagli alpini in quanto destinato al comando di un battaglione di fanteria della Brigata Cuneo, comandata a sua volta dal colonnello BADOGLIO, teatro di battaglia furono le quote di Selz a Gorizia.

L’offensiva porterà all’occupazione di parte di una trincea nemica dislocata in prossimità del valloncello di Selz, vicino all’attuale Ronchi dei Legionari sul fronte carsico, un’azione durante la quale il reggimento perderà 250 uomini, 19 di questi erano ufficiali.

Anche qui si distinse per l’audacia ed i vittoriosi risultati e fu decorato con un’altra medaglia d’argento, i comandi austriaci che cercarono caparbiamente con ripetuti attacchi di riconquistare le posizioni perdute, sempre tenacemente respinti, lo soprannominarono “il diavolo” e posero una taglia per la sua cattura.

Verrà poi chiamato il 1 Febbraio 1917 dal Generale Barco, suo Comandante in Libia, a comandare il battaglione “Val d’Orco” del 4° Rgt. Alpini, doveva ricostituire lo spirito del Battaglione fortemente provato dai combattimenti della zona del Monte Nero, cima duramente conquistata il 16 giugno 1915 ma ripetutamente sotto attacco nemico per la riconquista.

Assegnato alla difesa di Val Zebrù a Capanna Milano (m. 2877) si rese ben presto protagonista di quella “guerra bianca” d’alta quota che lo vide quale principale stratega nei successivi venti mesi di guerra.

Resosi subito conto di essere si alpino ma non alpinista, nel senso tecnico della definizione che comprende anche la necessità legata al teatro di battaglia, affrontò subito un duro addestramento con gli scalatori arditi di Val Zebrù.

Per risparmiare estenuanti fatiche ai suoi alpini organizzò per primo una “corvè” di asini per il traino di slitte con viveri e munizioni, ben presto però furono sostituiti con migliori risultati dai suoi grossi cani che personalmente addestrava.

Questa sua idea, raccolta dallo Stato Maggiore dell’Esercito, portò ad istituire un “reclutamento” di cani da slitta inviati prima presso i canili militari per l’addestramento, il più importante era a Bologna, quindi assegnati ai reparti alpini “cagnari”.

Nel maggio 1917 dopo accurato studio e preparazione, si rese protagonista dell’azione di conquista della quota a m. 3800 di cima Königspitze, a pochi metri dagli austriaci, quota che rimane la più alta occupazione dell’esercito italiano raggiunta per “via ordinaria”.

Ai primi di settembre guidò la riconquista della strategica quota 3555 di Punta Trafoier, strappata agli alpini qualche giorno prima, con lo stratagemma usato dal nemico di una galleria di circa 1400 metri scavata nel ghiaccio.

Sorpreso dal metodo insidioso e nuovo usato dall’oppositore, decise subito per il contrattacco, scegliendo però lo scontro diretto frontale, l’azione riuscì e molti furono i decorati, escluso il comandante.

Promosso Tenente Colonnello nel gennaio 1918, si rese ancora protagonista di altre impegnative azioni per la conquista definitiva dell’intero gruppo Ortles, Zebrù, Cevedale, San Matteo.

Con la conclusione della guerra e la resa austriaca del 4 novembre 1918, venne nominato nella Commissione istituita per definire i nuovi confini dell’Italia e nel 1920, conclusi i lavori della Commissione italo-austriaca, venne assegnato in servizio al Comando del 2° Rgt. Alpini.

Insofferente alla vita di caserma, amante com’era degli spazi aperti, pochi mesi dopo chiese ed ottenne di partire per la Cirenaica con l’incarico di consulente militare.

Si sposerà con Rimpatrio nel 1926 per fine missione, al termine della licenza però, chiese di ritornare ancora in colonia dove assunse il comando di un reparto di polizia militare con compiti di scorta armata alle carovane dei coloni italiani.

Ma dalla inquieta Cirenaica il 10 giugno 1928, una lunga lettera del Cappellano militare padre Ezechiele Frambrosi inviata a Cesena a don Giuseppe Mazzoli, allora parroco di San Rocco, chiudeva con questa affermazione: “Si consoli, Rev.mo Signore, il colonnello Mazzoli è in Paradiso“.

Un’affermazione cristianamente importante che leniva un grande dolore per una notizia drammatica, giunta improvvisa da quel lontano lembo d’Africa, Carlo, il fratello maggiore del sacerdote, di appena 49 anni, era deceduto nell’ospedale di Bengasi per un’infezione da tifo contratta per aver bevuto acqua inquinata in un’oasi del Fezzan.

La salma riportata in Italia ed onorata con solenni funerali alla presenza delle massime autorità cittadine e reparti in armi, venne tumulata nel cimitero di Cesena.

Sul fronte delle più alte vette delle nostre Alpi dove eccelsero i suoi valori di uomo e di soldato, la eco del colonnello Carlo Mazzoli tramandata come leggenda, é ancor viva oggi dopo oltre un secolo trascorso, in quelle popolazioni d’altitudine dove il vento delle grandi montagne che sovrastano, lambendo altissime cime innevate, creste vertiginose, pareti inaccessibili, oscure forre e ghiacciai, continua a spolverare memorie su memorie di eroismi e di umanità profonda.

Ma questa, è un’altra storia.

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Pompeo Aloisi – Il colpo di Zurigo

S:2 – Ep.41

Pompeo Aloisi è una persona qualunque.

Nato a Roma il 6 novembre 1875 da Paolo e Irène, nata contessa de Belloy, Pompeo Aloisi appartiene ad una di quelle antiche famiglie che gravitano attorno alla Curia Romana, se i fratelli maggiori raggiunsero l’esercito, Pompeo invece si destina in un primo tempo alla marina come addetto navale all’ambasciata di Parigi dove farà il suo ingresso nel mondo diplomatico e dove svolgerà una carriera delle più brillanti per oltre trent’anni.

Nel 1899 Aloisi sposa Maria Federiga de Larderel, discendente di François Jacques de Larderel, un ingegnere e imprenditore francese che promosse lo sfruttamento industriale dei soffioni boraciferi della Toscana e cognata del principe Piero Ginori Conti, un nobile, imprenditore e politico italiano che fu il primo al mondo a sfruttare l’energia geotermica per la produzione industriale di corrente elettrica.

Pompeo, dopo essere uscito primo al concorso di diplomazia nel 1902, venne mandato di nuovo a Parigi, dove vede nascere nel 1907 l’unico figlio che ebbe, Folco, destinato in futuro a seguire le orme del padre, ed infatti diventerà una tradizione di famiglia avverata tutt’oggi nella persona di Francesco Aloisi de Larderel, un tempo ambasciatore d’Italia in Egitto.

Ma torniamo alla grande guerra, più precisamente al 27 settembre 1915, la prima guerra mondiale è cominciata da quattro mesi, la Regia marina italiana costringe la flotta imperiale austriaca alla fonda nei porti dell’Adriatico.

Nel mare di Brindisi si staglia la figura della corazzata Benedetto Brin, l’ammiraglia della flotta italiana, alle otto un’esplosione tremenda squassa la nave che viene avvolta da una coltre di fumo giallo e rossastro alta cento metri, metà dell’equipaggio rimane ucciso nella tragedia, 21 ufficiali e 433 tra sottufficiali e marinai.

Il 2 agosto 1916 la nave da battaglia Leonardo da Vinci, altro fiore all’occhiello italiano, è scossa anch’essa da un’esplosione, seguita da altre che la faranno a pezzi, anche qui una tragedia, muoiono 249 marinai e 21 ufficiali.

Questi sono i colpi più eclatanti dei servizi segreti austriaci e tedeschi in territorio italiano che uccideranno più di 1.000 militari, i cui sabotatori riescono anche a distruggere una intera calata del porto a Genova, un hangar di dirigibili ad Ancona, il piroscafo Etruria a Livorno e un’intera fabbrica, il dinamitificio di Cengio sopra a Savona e subisce gravi danni anche la centrale idroelettrica di Terni, ma l’evento più devastante è l’esplosione di un carro ferroviario carico di proiettili navali vicino alla Spezia, dove muoiono altre 265 persone.

Aloisi, promosso capo dei servizi segreti della marina durante la Prima Guerra mondiale, si distinguerà nell’occasione del famoso colpo di Zurigo; nonostante inizialmente lo stato italiano tentò di far passare questi eventi come sfortunate casualità, anche se si trattava chiaramente di sabotaggi e di spionaggio nemico, la Regia Marina si mise all’opera con il proprio controspionaggio che scoprì una fitta rete di spie che facevano capo al capitano di corvetta austriaco Rudolph Mayer.

Poco più di un secolo fa si compiva una epica missione di agenti segreti della Marina italiana, chiamata, per l’appunto, il “Colpo di Zurigo”, tutto iniziò quando un uomo, italiano, venne arrestato dai carabinieri mentre stava piazzando una potente carica di dinamite sotto la diga del bacino idroelettrico delle Marmore Alte, presso Terni, si intuì che gli austriaci avevano iniziato a fare leva su nostri concittadini disposti a tradire per denaro la propria patria.

Dagli interrogatori dei sabotatori arrestati, e dalle confidenze e dalle notizie fornite dagli informatori, il servizio informazioni italiani capì che il centro organizzativo dell’azione terroristica si trovava in Svizzera, a Zurigo, nella sede del consolato austriaco.

Rudolph Mayer, console austriaco, Capitano di Corvetta della Imperial Regia Marina di Vienna, comprava uomini, soprattutto italiani, con listini da star ed una disponibilità economica quasi illimitata.

Fu inviato un ufficiale italiano, Pompeo Aloisi a Zurigo, studiò la situazione, fece sorvegliare la palazzina del consolato austriaco ed intanto organizzava un piano, ma non poteva fare tutto da solo, aveva bisogno di un gruppo di uomini.

Il piano che preparava, oggigiorno sarebbe da film, entrare nell’ufficio di Mayer, aprire la cassaforte, portar via i progetti dei sabotaggi e le cartelle dei sabotatori e far saltare l’intera organizzazione, ma doveva essere fatto senza nessuna copertura ufficiale del governo e della Marina.

Si preparò il gruppo di uomini: il primo fu il tenente Ugo Cappelletti, inviato sotto copertura diplomatica, subito a Zurigo; giunto nella città elvetica Ugo Cappelletti cominciò a frequentare il locale di un marchigiano anarchico, che aveva conosciuto a Vienna quando studiava all’università e con il quale era rimasto in contatto.

Il padrone presentò a Cappelletti un cliente che non veniva spesso ma sembrava bene informato: l’avvocato Livio Bini, che divenne il secondo uomo del gruppo.

Fu in questo modo che Bini, astuto e opportunista, a seguito di una denuncia ai suoi fiduciari che vennero arrestati dal Reparto Informazioni della Regia Marina, gli tornò utile collaborare per uscirne ricco e pulito, Bini conosceva Mayer e faceva il doppio gioco.

Mayer reperiva informazioni da Bini e a sua volta, l’ufficiale austro-ungarico, continuò a fornirne, non sapendo che collaborava col Servizio italiano ma continuando a tenere sul proprio libro paga l’avvocato fiorentino che aveva in cambio il vantaggio di essere pagato da due parti.

Il terzo componente della squadra fu un ingegnere triestino, ottimo agente segreto: Salvatore Bonnes , irredento, volontario di guerra ed ingegnere del genio navale, conoscitore della lingua tedesca che venne nominato addetto commerciale alla legazione italiana di Berna.

Infine, gli “uomini di mano”: l’esperto tecnico Stenos Tanzini di Lodi, sottufficiale di marina, specialista torpediniere transitato nel servizio informazioni che fornì a Bronzin importanti indicazioni circa le abitudini e gli orari di sorveglianza del guardiano della palazzina obiettivo; e Remigio Bronzin, irredento triestino, alias “Remigio Franzioni (o Brausin)”, era un operaio della ditta Stigler di Milano che fabbricava ascensori, esperto di serrature, disposto a combattere l’Austria con ogni mezzo e che accettò senza chiedere nulla in cambio.

Ma il reclutamento più bizzarro fu quello dell’ultimo uomo, Natale Papini, era di Livorno e andarono a pescarlo in carcere dove si trova per avere svaligiato una banca di Viareggio, era uno specialista nell’aprire casseforti, la sua paga?

Libero in caso di esito positivo dell’azione.

L’avvocato Bini suggerì il luogo in cui si trovava la cassaforte, ma avvertì anche che bisogna passare attraverso sedici porte, di ognuna delle quali occorreva possederne la chiave, ma il doppiogiochista fiorentino ne fornì anche le impronte.

Fatte le copie delle chiavi, il gruppo decise che si sarebbe tentato la notte del 22 febbraio 1917, perché era Carnevale e in quell’occasione la sorveglianza della polizia sarebbe stata allentata e così gli uomini del commando arrivarono nella palazzina, superarono le sedici porte, ma…ne trovarono, inaspettatamente, una diciassettesima chiusa, la missione fallì al primo tentativo.

Compiendo autentici miracoli, l’agente doppiogiochista Bini riuscì a fornire anche lo stampo della diciassettesima porta a tempo di record, se ne fabbricò la chiave e si decise di ritentare nella notte del 24, sabato grasso.

Al secondo tentativo, dopo diciassette porte, arrivarono finalmente nell’ufficio del console, dove si trovava la cassaforte, si era calcolato un’ora di lavoro con la fiamma ossidrica ma ce ne vollero più di quattro.

Finalmente riuscirono a mettere le mani sul bottino: documenti, codici di cifratura, l’elenco completo delle spie austriache in Italia, il numero dei conti correnti dove venivano depositate le somme pagate per i sabotaggi, i piani per i futuri attentati, una grossa somma di denaro, gioielli e una preziosa collezione di francobolli, subito tutti depositati presso il ministero della Marina a Roma.

Il gruppo di assaltatori fuggì con il materiale e riuscì a ritornare rapidamente in Italia, il “colpo di Zurigo”, difficilissimo nell’esecuzione, era stato di eccezionale portata.

Seguirono varie operazioni congiunte, arrivarono retate, processi senza grandi risultati, alcuni documenti interessanti vennero persi o distrutti, personaggi conniventi rimasero nell’ombra e la verità non giunse mai a galla del tutto e ogni cosa finì, purtroppo, in un insabbiamento generale.

Un anno dopo la guerra finì ma Pompeo Aloisi, dopo essersi guadagnato il titolo di barone il 15 agosto 1919 per i servizi resi alla patria, tornò ad una carriera diplomatica di alto livello che culminò nel 1932, quando venne chiamato da Benito Mussolini, che aveva assunto a titolo momentaneo il ministero degli Esteri, come suo capo di gabinetto.

Inviato successivamente quale ministro plenipotenziario a Copenaghen, Bucarest e Tokyo, occupò l’ultimo mandato ad Ankara, prima di sostituire Dino Grandi a palazzo Chigi.

Dal 1932 al 1936, il barone Aloisi partecipò allo sviluppo dell’amicizia italo-tedesca ed all’estensione dell’impero italiano attraverso le varie conferenze internazionali sull’Etiopia e la Saar, che porteranno ineluttabilmente l’Italia alla rottura con Francia e Inghilterra, nonostante la spontanea simpatia nutrita che il barone, per metà francese e sposato con una discendente di Francesi, aveva nei confronti di entrambi questi paesi, così come del resto lo erano tutti i diplomatici della vecchia scuola.

Venne sostituito il 9 giugno 1936 da Galeazzo Ciano al ministero degli Esteri ma venne nominato senatore nel ‘39 e non rivestì più alcun incarico pubblico se non quello di comandante di un settore della difesa costiera durante la Seconda Guerra mondiale.

Assolto da ogni accusa di collaborazionismo durante i giudizi di epurazione dal fascismo, morì a Roma il 15 gennaio 1949.

Pur non negandone l’implicazione profonda nel regime fascista, occorre sottolineare l’importanza e la qualità dell’attività diplomatica di Pompeo Aloisi: uomo asciutto e privo di retorica, riuscì con il suo tatto ed il suo fascino personale ad avviare l’Italia verso una posizione internazionale, facendone, anche se col sacrificio dell’amicizia con l’Inghilterra e la Francia, una vera potenza almeno fino al 1940.

Ma questa, è un’altra storia.

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Natale Palli – Il volo su Vienna

S:2 – Ep.40

Natale Palli è una persona qualunque.

Discendente della famiglia ticinese dei Palli del paese di Pura, al confine con l’Italia sul lago di Lugano, nacque a Casale Monferrato il 24 luglio 1895 e compì gli studi primari e secondari presso le scuole della città natale, iniziando poi a frequentare il corso di Ingegneria presso il Politecnico di Milano.

Arruolatosi giovanissimo nel Regio Esercito, volontario in un reggimento di fanteria di stanza nella città lombarda nel corso del 1914, con ferma annuale, l’entrata in guerra del Regno d’Italia, avvenuta il 24 maggio 1915, lo trovò con il grado di sergente.

Nel mese di luglio fu promosso al grado di sottotenente di complemento, ma, rimasto affascinato dal mondo dell’aviazione, chiese, ed ottenne, di essere assegnato al Corpo Aeronautico Militare, conseguendo il brevetto di pilota militare il 15 ottobre 1915 sul campo d’aviazione di Cameri a Novara.

Il 27 ottobre venne inviato in zona d’operazioni, assegnato alla 2ª Squadriglia di aviazione per l’artiglieria di base a Pordenone, e nel marzo 1916 fu trasferito alla 5ª Squadriglia per l’artiglieria operante nel settore che andava da Plava a Tolmino, eseguendo missioni di ricognizione anche su Trieste.

Nel settembre successivo fu trasferito alla 48ª Squadriglia di base a Belluno e nel mese di novembre fu decorato con la medaglia di bronzo al valor militare dal generale Mario Nicolis di Robilant, comandante della 4ª Armata.

Il 24 aprile 1917 fu decorato con una prima medaglia d’argento al valor militare per una rischiosa missione di ricognizione sul Tirolo e nell’agosto dello stesso anno venne mandato sul campo d’aviazione della Malpensa, dove conseguì l’abilitazione al pilotaggio del nuovo velivolo Ansaldo S.V.A., per essere quindi assegnato alla fine di ottobre alla 1ª Sezione SVA, aggregata alla 75ª Squadriglia Caccia destinata alla difesa di Verona.

Nel novembre successivo entrò in servizio presso la 75ª Squadriglia da caccia di stanza a Castenedolo; in dicembre fu trasferito alla 72ª Squadriglia Caccia e nel gennaio 1918 alla 71ª Squadriglia Caccia di Sovizzo.

Promosso capitano il 3 febbraio 1918, tre giorni dopo venne decorato con la Croix de guerre dal re del Belgio Alberto I, ma non finisce qui, per una ricognizione su Innsbruck, effettuata il 20 febbraio fu decorato con una seconda medaglia d’argento e, verso la fine del mese successivo, venne mandato presso la 103ª Squadriglia di stanza sul campo d’aviazione di San Vito dei Normanni, in provincia di Brindisi, per effettuare alcune missioni sul basso Adriatico che gli valsero la concessione della terza medaglia d’argento al valor militare.

Passato in forza alla 87ª Squadriglia “Serenissima” di stanza all’aeroporto di San Pelagio, prese parte al volo su Vienna insieme al maggiore Gabriele D’Annunzio e per questo fatto venne insignito della Croce di Cavaliere dell’Ordine militare di Savoia.

Il volo era in progettazione da tempo da parte del Comando supremo militare italiano, su indicazione di Ugo Ojetti, giornalista e scrittore nonché comandante della sezione propaganda del Comando supremo.

D’Annunzio aveva proposto in passato un’operazione simile, ma le sue idee non erano state approvate; saputo però dell’iniziativa, cercò di prendervi parte anche se come semplice passeggero, in quanto era sprovvisto del brevetto di volo.

Inizialmente approvata, la sua partecipazione divenne in forse a causa della perdita del SVA9 da addestramento biposto, ma un secondo velivolo fu approntato in tempo da Giuseppe Brezzi, modificando il serbatoio del carburante a forma di sedile, ribattezzato macabramente “la seggiola incendiaria”.

Lo SVA modificato, pilotato dal capitano Natale Palli, poteva così prendere parte al “folle volo”, giunse così l’autorizzazione necessaria all’impresa.

Un primo tentativo venne compiuto il 2 agosto, ma a causa della nebbia incontrata sulle Alpi e in Pianura Padana i tredici apparecchi che vi parteciparono dovettero rinunciare; sette velivoli riuscirono a ritornare alla base, mentre altri furono costretti ad atterrare in campi diversi e tre aerei risultarono perfino inutilizzabili.

Un secondo tentativo si ebbe l’8 agosto, ma il vento contrario mandò a monte l’impresa anche questa volta e dopo questi due fallimenti, il progetto dannunziano rischiò seriamente di esser rimandato in un futuro indeterminato e in ogni caso molto lontano; D’Annunzio, tuttavia riuscì a ottenere che il volo si effettuasse il giorno successivo, anche per sfruttare al massimo l’«effetto sorpresa», già parzialmente compromesso avendo il tenente Censi gettato un ingente carico di volantini in territorio austriaco per alleggerire il velivolo.

Finalmente, alle 5:30 del 9 agosto dal Campo di Aviazione di San Pelagio nel comune di Due Carrare (PD), partirono gli undici apparecchi, dieci SVA monoposto e uno SVA modificato a due posti, guidato dal capitano Palli, nel quale si trovava D’Annunzio.

Pochi minuti dopo la partenza, il capitano Alberto Masprone fu costretto da un’avaria a un atterraggio di fortuna, nel quale il velivolo fu danneggiato e Masprone si ruppe la mandibola.

Il tenente Vincenzo Contratti e il sottotenente Francesco Ferrarin dovettero a loro volta riportare indietro gli aerei a causa di un irregolare funzionamento del motore e il tenente Giuseppe Sarti, infine, fu costretto ad atterrare per un arresto del motore, posandosi sul campo di Wiener Neustadt e incendiando il velivolo prima di essere preso prigioniero da ufficiali austriaci.

Gli otto aerei superstiti proseguirono il proprio volo verso la capitale austriaca, organizzati a cuneo e guidati dai seguenti piloti: il capitano Natale Palli e Gabriele D’Annunzio; il tenente Ludovico Censi; il tenente Aldo Finzi; il tenente Giordano Bruno Granzarolo; il tenente Antonio Locatelli; il tenente Pietro Massoni; il sottotenente Girolamo Allegri detto «Fra’ Ginepro» per la folta barba.

Dopo aver sorvolato la valle della Drava, i monti della Carinzia e infine le città di Reichenfels, Kapfenberg e Neuberg senza incontrare nessun ostacolo da parte dell’aviazione austriaca, solo due caccia austriaci che avevano avvistato la formazione e che si affrettarono ad atterrare per avvertire il comando, ma non furono creduti, e dopo aver superato formazioni temporalesche, la squadra italiana giunse su Vienna in gruppo compatto alle 9:20, mentre nelle strade e piazze sottostanti si stava verificando un grande concorso di folla, impaurita della presenza degli aeromobili e dall’eventualità di un bombardamento aereo.

Grazie alla limpidezza del cielo, lo stormo poté abbassarsi a una quota inferiore agli 800 metri e lanciare i manifesti, anche se quelli di D’Annunzio furono preparati solo in 50 000 copie e solo in italiano a causa del tono pomposo giudicato inefficace.

Il testo di D’Annunzio venne giudicato mancante di efficacia, nonché impossibile da rendere correttamente in tedesco, da Ferdinando Martini, per questo, contrariamente a quanto a volte si crede, il principale manifesto lanciato in 350 000 copie non fu quindi quello di D’Annunzio bensì quello redatto da Ugo Ojetti, che fu tradotto in tedesco per essere compreso dalla popolazione di Vienna:

VIENNESI! Imparate a conoscere gli italiani. Noi voliamo su Vienna, potremmo lanciare bombe a tonnellate. Non vi lanciamo che un saluto a tre colori: i tre colori della libertà. Noi italiani non facciamo la guerra ai bambini, ai vecchi, alle donne. Noi facciamo la guerra al vostro governo nemico delle libertà nazionali, al vostro cieco testardo crudele governo che non sa darvi né pace né pane, e vi nutre d’odio e d’illusioni.
VIENNESI! Voi avete fama di essere intelligenti. Ma perché vi siete messi l’uniforme prussiana? Ormai, lo vedete, tutto il mondo s’è volto contro di voi. Volete continuare la guerra? Continuatela, è il vostro suicidio. Che sperate? La vittoria decisiva promessavi dai generali prussiani? La loro vittoria decisiva è come il pane dell’Ucraina: si muore aspettandola.
POPOLO DI VIENNA, pensa ai tuoi casi. Svegliati! VIVA LA LIBERTÀ! VIVA L’ITALIA! VIVA L’INTESA!

Dopo aver sganciato i manifestini lo stormo prese la via del ritorno, scegliendo un percorso diverso da quello intrapreso all’andata per scongiurare il verificarsi di attacchi della contraerea e dopo aver valicato le Alpi, la formazione aerea sorvolò Lubiana, Trieste e Venezia, dove D’Annunzio scelse di far cadere un messaggio augurale per comunicare all’ammiraglio e al sindaco il felice esito dell’impresa; alle 12:40, infine, gli aerei rientrarono al campo di San Pelagio dopo aver percorso in sette ore e dieci minuti mille chilometri, di cui ottocento su territorio austriaco, a sfida di ogni avversità balistica e aerea.

Il volo su Vienna, pur essendo stato militarmente inoffensivo, ebbe una vastissima eco morale, psicologica e propagandistica sia in Italia sia all’estero, e compromise sensibilmente l’opinione pubblica dell’Impero asburgico.

La stessa stampa austriaca accolse favorevolmente l’«incursione inerme», così fu definita, degli aerei italiani a Vienna: analogamente, il Frankfurter Zeitung condusse una critica aspra e virulenta «non contro gl’Italiani, ma contro le autorità, a cui i Viennesi devono gratitudine per la visita degli aviatori.

Non occorre dire quale catastrofe poteva accadere se, invece di proclami, avessero gettato bombe e ancora oggi non si comprende come abbiano varcato centinaia di chilometri senza essere avvistati dalle stazioni di osservazione austriache».

Natale Palli fu poi trasferito per qualche tempo sul fronte francese sempre insieme con D’Annunzio, compì insieme al Vate un’ardita ricognizione su Lienz.

A cannoni fermi, il 20 marzo del 1919 dopo il termine della prima guerra mondiale, durante il raid Padova-Parigi-Roma, tentato insieme all’amico Francesco Ferrarin, altro componente che tentò il “folle volo” dannunziano, per un guasto al velivolo fu costretto ad atterrare sul Mont Pourri, nei pressi di Sainte-Foy, dove morì assiderato.

La sua salma fu trasportata a Casale Monferrato dove, il 27 marzo 1919, gli furono tributate solenni onoranze funebri alla presenza di un’immensa folla, di Gabriele D’Annunzio e dei piloti della “Serenissima”, con la sola eccezione di Antonio Locatelli che si trovava in Argentina.

Ma questa, è un’altra storia.

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Giovanni Agnelli – FIAT

S:2 – Ep.39

Giovanni Agnelli è una persona qualunque.

Figlio di Edoardo Agnelli e di Aniceta Frisetti, fu il capostipite della notissima famiglia di imprenditori torinesi, era il nonno del più contemporaneo Gianni Agnelli.

Giovanni Francesco Luigi Edoardo Aniceto Lorenzo nacque il 13 agosto 1866 in una famiglia di proprietari terrieri, tra le mura della casa appartenente al nonno, nel comune piemontese di Villar Perosa; venne iscritto da bambino al collegio San Giuseppe e frequentò poi il ginnasio di Pinerolo, completando gli studi classici a Torino.

In seguito venne avviato alla carriera militare presso l’Accademia militare di Modena, dove conseguì il grado di ufficiale di cavalleria di prim’ordine nel Nizza Cavalleria, ma ben presto avvertì un crescente disinteresse per la vita militare, era infatti attirato dai progressi tecnologici, che a poco a poco, grazie anche alla diffusione delle idee positiviste nell’Europa della Belle Époque, alimentate dai progressi della rivoluzione industriale di matrice anglosassone, stimolavano in lui il desiderio d’intraprendere una carriera dedita interamente alla produzione di nuovi mezzi tecnologici.

Nel 1889 sposò Clara Boselli e dal matrimonio nacquero due figli: Aniceta Caterina che sposerà poi il barone Carlo Nasi ed Edoardo che sposerà Donna Virginia Bourbon del Monte, dei principi di San Faustino.

Abbandonata la carriera militare nel 1893, sviluppò un vivo interesse per la meccanica, che lo portò, senza grossi risultati, ad alcuni tentativi imprenditoriali nel campo e lasciato l’esercito, tornò a Villar Perosa con l’intenzione di dedicarsi all’attività di famiglia, l’agricoltura.

Per breve tempo divenne commerciante di legnami e sementi, a Torino, dove poi si trasferì, frequentava assiduamente il caffè di madame Burello, dove conobbe alcuni aristocratici appassionati di meccanica e di automobilismo.

Nel 1896 entrò come socio di capitale nelle Officine Storero, che a Torino costruivano biciclette, per le quali concluse un contratto d’importazione in esclusiva dei tricicli Prunelle, dotati di motore a scoppio De Dion-Bouton.

L’11 luglio 1899 fondò, insieme ad alcuni investitori molto noti nel campo automobilistico, la Fabbrica Italiana Automobili Torino, conosciuta poi semplicemente come FIAT.

L’azienda ebbe fin dall’inizio un rapido sviluppo, grazie soprattutto all’amicizia che l’imprenditore condivideva con Giovanni Giolitti (cinque volte primo ministro italiano); fra il 1902 e il 1906 la produzione annua della Fiat passò da 73 a 1.097 vetture, con una crescita media del 72%.

I risultati economici superano le aspettative e nel 1906 la prima società Fiat viene liquidata e ricostituita con un capitale di nove milioni e un oggetto sociale molto ampio, che incluse, oltre alle automobili, i trasporti ferroviari, i mezzi di navigazione e gli aeroplani.

Agnelli risultava il maggiore azionista della società, nel 1908 avviò la produzione della “Tipo 1 Fiacre”, prima automobile pensata come taxi e successivamente progettò la “Fiat Zero”, anche se il vero successo arrivò con la prima guerra mondiale.

Fu il primo in Italia ad avviare la produzione di mitragliatrici e raggiunse subito un’alta specializzazione anche nel campo degli esplosivi, degli apparati per sottomarini, nell’artiglieria e nei motori navali nonché nel settore aeronautico.

La Fiat-Revelli Mod.1914 è stata una mitragliatrice media, adottata dal Regio Esercito italiano nella prima guerra mondiale, fu in assoluto l’arma automatica più usata nella Grande Guerra.

Il progetto dell’arma risale al 1910 quando Abiel Revelli decise di modificare la mitragliatrice Perino Mod. 1908 oramai obsoleta, il prototipo fu presentato ad un bando indetto dal Regio Esercito, che però fu vinto dalla Maxim.

Dalla modifica della Fiat-Revelli Mod. 1914, alla luce delle nuove dottrine operative, si andavano evidenziando i limiti di questa arma, legati soprattutto al peso eccessivo del raffreddamento ad acqua ed al sistema di alimentazione poco affidabile.

Non di meno, il calibro da 6,5 × 52 mm, pur garantendo la standardizzazione con quello dei fucili Carcano Mod. 91, con ovvie ricadute positive sulla catena degli approvvigionamenti, si dimostrava però troppo poco prestante sui nuovi e dinamici campi di battaglia.

Il Regio Esercito, mentre quindi avviava l’acquisizione della nuova Breda Mod. 37 in calibro 8 × 59 mm RB Breda, pensò di sfruttare le numerosissime Mod. 14 ancora disponibili riconvertendole al nuovo calibro e modificandone gli aspetti che avevano mostrato le maggiori criticità.

Non solo la Revelli fu prodotta dalla Fiat, anche la Villar Perosa, denominazione ufficiale FIAT Mod. 1915, è stato un mitra progettato in Italia nel 1914 ed utilizzato nella prima guerra mondiale, fu continuamente rimaneggiata nel corso del conflitto ma costituì l’arma principale degli Arditi.

Nel giugno 1913 a Nettuno lo Stato Maggiore dell’Esercito testò di nuovo l’arma ritenendola stavolta rispondente ai requisiti; tuttavia il buon risultato non si concretizzò in un ordine a causa dell’inconveniente di dover addestrare i mitraglieri su due modelli diversi.

Ma a causa del ritardo nelle consegne delle 920 Maxim ordinate (delle quali solo 609 consegnate), nel novembre 1914 lo Stato Maggiore dell’esercito rivalutò per la terza volta la mitragliatrice Fiat, che venne finalmente ordinata.

Il principale terreno d’espansione fu comunque quello degli autotrasporti, alla Fiat fu dovuta in misura determinante la creazione ex novo e il successivo potenziamento del parco automobilistico per i servizi generali e per il trasporto delle artiglierie e delle truppe di fanteria e cavalleria.

Così come gli autocarri 15bis e 15ter avevano avuto una funzione cruciale nella campagna di Libia, il 18BL ne ebbe una importantissima negli spostamenti di truppe durante la grande guerra.

Nel 1909 il Regio Esercito richiese un autocarro leggero multiruolo, per trasporto di personale e materiali, la Fiat Veicoli Industriali progettò così il Fiat 15 che entrò in servizio nel 1911 e venne massicciamente impiegato nella Guerra italo-turca.

Nel 1911 entrò in produzione la versione Fiat 15 bis, detto anche Libia perché destinata all’impiego in questa colonia, sostituita nello stesso ruolo, nel 1913 dalla Fiat 15 ter, quest’ultima venne prodotta su licenza in 6.285 esemplari dalla russa AMO/ZIL, che lo denominò F-15.

Durante la prima guerra mondiale, alla sua produzione per le forze armate si affiancò quella del Fiat 18, sviluppato e prodotto a partire dal 1911, ma il vero successo per questo autocarro arrivò proprio durante la Grande Guerra, quando il modello Fiat 18BL divenne la spina dorsale della logistica italiana, specialmente durante le offensive del 1916.

L’esercito italiano aveva aperto le ostilità con 400 vetture e 3.400 autocarri, per lo più di produzione Fiat e al termine del conflitto, nonostante le ingenti perdite subìte, si trovava a disporre di 2.500 vetture e di 28.600 autocarri.

Fiat fabbricò tra il 1914 e il 1918 qualcosa come 71.000 autovetture, di cui circa 63.000 per conto non solo dell’amministrazione militare italiana, ma anche di quelle alleate, negli ultimi mesi di guerra giunse a fornire il 92 per cento della produzione nazionale di autocarri e l’80 per cento dei motori di aviazione.

Ci provò anche con i mezzi blindati, il Fiat 2000 Mod. 17 era un carro armato pesante costruito in Italia e adottato dal Regio Esercito durante la prima guerra mondiale, fu progettato dalla FIAT nel 1917 e venne prodotto in due soli esemplari, uno nel 1917 e uno nel 1918.

Fu il primo carro armato progettato e realizzato in Italia, e causa della sua corazzatura, la più spessa tra i carri coevi, con le sue 40 tonnellate fu il mezzo più pesante prodotto durante il primo conflitto mondiale, eccezione fatta per il mai ultimato tedesco K-Wagen da 120 tonnellate.

Oltre che per il peso, si distingueva per alcune innovative soluzioni, come la torretta completamente girevole presente anche sul carro francese Renault FT, armata di cannone ed il vano motore separato dal vano equipaggio.

La guerra poi finì e poco dopo, il 1º dicembre 1920, Giovanni Agnelli acquistò dal senatore Alfredo Frassati una quota azionaria del 20% del quotidiano torinese La Stampa, con un diritto di prelazione sulla rimanente parte del capitale, il che gli consentì dall’ottobre 1926 di controllare finanziariamente la testata.

In quegli anni viene fondato il famoso stabilimento del “Lingotto” dove venne impiantata la prima catena di montaggio italiana, ispirata alla Ford che l’imprenditore aveva visitato in quegli anni negli Stati Uniti.

Nel 1923 la FIAT era un produttore internazionale di automobili e Giovanni Agnelli divenne senatore del Regno, egli vide inoltre un grande futuro nello sci, sport allora nato da poco.

Fra il 1928 e il 1931 acquistò alcuni terreni al colle del Sestriere, in alta Val Chisone, dove costruì la seconda stazione sciistica italiana dopo Bardonecchia che era stata aperta nel 1908.

Il successo negli affari di Agnelli venne funestato dalla morte dei figli, Aniceta ed Edoardo, rimasto vittima di un incidente aereo all’idroscalo di Genova.

Gli anni successivi, fino allo scoppio della seconda guerra mondiale, registrarono un nuovo notevole sviluppo dell’impero FIAT: venne prodotta la prima Cinquecento, nota tra i consumatori e appassionati di automobilismo come Topolino: l’auto riscosse un ottimo successo internazionale.

Negli anni quaranta Giovanni Agnelli, ormai settantenne, scelse il nipote Gianni, figlio di Edoardo, come suo successore alla guida delle aziende.

Il 23 marzo 1945 Agnelli venne accusato dalla Commissione del CLN per le epurazioni di compromissione con il regime fascista e privato temporaneamente della proprietà delle sue imprese; informato in via ufficiosa della sentenza di assoluzione, morì a Torino il 16 dicembre 1945.

Ma questa, è un’altra storia.

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Marr e Duncan – Jakie e Rin Tin Tin

S:2 – Ep.38

Marr e Duncan sono due persone qualunque.

Albert Marr è sudafricano, Lee Duncan è statunitense e sono due soldati che saranno impiegati nella prima guerra mondiale, rispettivamente nei propri eserciti di appartenenza.

Nel primo caso siamo a Potchefstroom, nella provincia nord-occidentale del Sudafrica, è un tiepido giorno di fine agosto del 1915 ed è da poco scoppiata la Grande Guerra e siamo in piena campagna di reclutamento.

In fila tra gli altri uomini che vanno ad arruolarsi c’è un ragazzo di 25 anni, si chiama Albert Marr ed è qui per entrare nella brigata di fanteria, sembra uno come tanti, una persona qualunque ed in effetti lo è, ma quando si presenta ai suoi superiori non è da solo, il giovane Albert Marr ha una scimmia in braccio.

La scena è bizzarra, ma non così tanto come può sembrare a noi, da quelle parti succede spesso che i babbuini vengano presi in casa dalle famiglie come veri e propri animali domestici.

Quello di Albert di chiama Jackie e da qualche anno vive con lui a Pretoria, in una casa con un terreno che è quasi una fattoria, si tratta di un babbuino chacma, un animale molto diffuso in gran parte del continente africano.

Fin qui niente di molto strano, quindi: Albert ha portato al reclutamento il suo animale domestico e, nell’ingenuità del giovane alla sua prima esperienza militare, chiede ai superiori se può portare Jackie con sé al fronte.

Lo strano comincia adesso, un po’ alla volta, perché Albert ottiene il permesso, ma non solo, l’esercito non si limita a consentire che la scimmia lo segua, forse pensando che l’animale possa tenere alto il morale dei soldati, l’esercito sudafricano concede a Jackie, la scimmia, anche una divisa.

È una divisa speciale, chiaramente, fatta su misura, ma completa di berretto e distintivi del reggimento, per cui è una divisa vera, anzi, per fare in modo che Jackie possa restare al fronte senza difficoltà burocratiche e organizzative, gli ufficiali decidono che la scimmia sarà anche a libro paga e avrà le sue razioni standard.

Jackie ottiene quindi un normale numero di matricola e così la scimmia diventa a tutti gli effetti un membro dell’esercito sudafricano.

In un primo momento gli altri soldati del reggimento osservano la cosa con scarso interesse, c’è da capirli, sono appena partiti per la Grande Guerra, hanno ben altro a cui pensare, ma poi, man mano che passano i giorni, Jackie conquista la simpatia di tutti fino a che diventa la mascotte ufficiale del 3° Reggimento Transvaal.

Anche perché, va detto, Jackie è un ottimo soldato, a tavola mangia con coltello e forchetta, non sporca, non infastidisce nessuno, obbedisce agli ordini, non si lamenta e non scappa.

Quando vede un ufficiale si mette sull’attenti ed esegue un saluto perfetto, in trincea allunga sigarette a chi le vuole e, se serve, gliele accende pure, fiuta il nemico a distanza e lo sente arrivare con il suo udito sviluppato e dopo un po’, non si può più fare a meno di lui, e non può farne a meno soprattutto Albert Marr.

Durante la campagna dei Senussi, in Egitto, il 26 febbraio 1916 Albert viene ferito a una spalla da un proiettile nemico e Jackie rimane accanto a lui a leccargli la ferita e confortarlo fino all’arrivo dei barellieri, senza la scimmia, dirà dopo, probabilmente non sarebbe riuscito a cavarsela e invece si riprende del tutto e torna al fronte nel giro di pochi mesi.

Jackie è sempre al suo fianco, con lui passa tre anni in prima linea tra le trincee della Francia, delle Fiandre e in Africa ma poi, nell’aprile del 1918, per Albert e Jackie le cose si mettono male.

Si trovano a Passchendale, in Belgio, quando il loro reggimento finisce all’improvviso in mezzo ai bombardamenti, sotto il fuoco pesante del nemico, la situazione degenera in pochi minuti e il reggimento si trova in serio pericolo, tra esplosioni, polvere e paura.

I soldati, intrappolati nella foschia, saltano in aria a gruppi, Albert si butta a terra e urla a Jackie di mettersi al coperto, ma la scimmia non lo ascolta, corre, come impazzita, avanti e indietro.

Sulle prime, Albert non capisce cosa Jackie stia facendo, pensa che il babbuino sia nel panico, terrorizzato, ma dopo pochi secondi gli risulta chiarissimo: Jackie sta raccogliendo sassi, più in fretta che può.

Mentre intorno si succedono boati spaventosi, la scimmia ammassa pietre intorno ad Albert steso a terra, nel tentativo disperato di costruire una piccola barriera che lo protegga dal fuoco nemico, ha appena cominciato a farlo, quando una bomba esplode lì vicino.

Jackie viene travolto da una pioggia di schegge, Albert lo vede volare via, schizzare letteralmente per aria e rotolare sul campo di battaglia fino a sparire inghiottito dalla polvere, l’esplosione travolge anche Albert, lo assorda e lo tramortisce.

Quando arrivano i soccorsi, trovano Albert a terra ancora privo di sensi, mentre Jackie non si era fermato, continuava ostinato ad ammassare pietre trascinando la zampa destra, quasi del tutto maciullata.

Entrambi vengono immediatamente trasportati in un ospedale da campo, dove la zampa di Jackie viene amputata dal chirurgo militare Woodsend e mentre è ancora semi-cosciente con le bende a fasciargli il moncherino, la scimmia viene promossa caporale.

Gli ufficiali, stringendogli la zampa, gli conferiscono anche la medaglia al valor militare, pochi giorno dopo, Jackie e Albert rientrano in Sudafrica, congedati con onore e lasciano ufficialmente l’esercito sulla fine di aprile del 1918.

Nello stesso periodo un cane venne trovato da un soldato statunitense, Lee Duncan, in un canile bombardato in Lorena, per l’appunto poco prima della fine della prima guerra mondiale.

Secondo le stime, oltre 1.200.000 cavalli e 50.000 cani furono uccisi sul fronte occidentale durante la prima guerra mondiale, ma non Rinty.

Era l’unico esemplare sopravvissuto insieme alla sorella (chiamata poi Nanette) di una cucciolata, tornato Duncan a Los Angeles con i due cani, Nanette venne adottata da dei suoi conoscenti, mentre Rinty (ribattezzato poi “Rin Tin Tin”) venne addestrato dallo stesso Lee a saltare ed esibirsi in diversi giochi e fu casualmente notato dal produttore cinematografico Darryl F. Zanuck, che lo fece divenire un attore in diversi film, a partire dal 1923 con Where The North Begins, con Claire Adams, stella del cinema muto.

Grazie a lui diventò un celebre cane da pastore tedesco maschio protagonista di numerosi film realizzati negli Stati Uniti fra gli anni venti e trenta e dopo la sua morte, avvenuta nel 1932, il nome fu dato a diversi cani della stessa razza, impiegati in analoghe produzioni cinematografiche, radiofoniche e televisive.

L’immensa redditività dei suoi film ha contribuito al successo della casa di produzione Warner Bros.

I discendenti di Rin Tin Tin furono anch’essi addestrati da Duncan o dai suoi successori ed ebbero ruoli in produzioni televisive e cinematografiche, il primo di essi, Rin Tin Tin Jr., figlio del primo Rin Tin Tin, è apparso in alcuni serial cinematografici di scarso successo; Rin Tin Tin III, detto nipote di Rin Tin Tin, ma probabilmente solo imparentato, contribuì a promuovere l’uso militare dei cani durante la seconda guerra mondiale ed è anche apparso in un film con Robert Blake nel 1947.

Prima di lui c’è da dire che l’elevato numero di soldati accecati durante la grande guerra portò a rapidi progressi nell’addestramento e nell’uso dei cani guida, la Germania ha aperto la prima scuola di addestramento per cani guida nel 1917.

La prima guerra mondiale vide un uso intensivo di animali, su tutti i fronti e per gli scopi più diversi, dei “gatti di bordo” abbiamo già trattato in un altro episodio del nostro podcast, ma oltre i felini anche i cani venivano largamente utilizzati, per esempio, come cani da trasporto e cani soccorritori in forza alla Croce Rossa.

Uno dei centri di addestramento predisposti per questi cani, in Italia, si trovava a Bologna presso il complesso militare dei Prati di Caprara, qui i cani venivano addestrati a trainare prima carretti, poi slitte.

Al termine del corso venivano inviati in alta montagna per completare il tirocinio, quindi assegnati ai corpi alpini, la prima idea per un simile utilizzo sembra sia da attribuire al Maggiore cesenate Carlo Mazzoli, pluridecorato, amatissimo dai suoi uomini, noto come “il Garibaldi della Val Dogna”, curioso personaggio che portava i capelli lunghi e si permetteva comportamenti decisamente al di fuori delle rigide regole militari di quel tempo.

Mazzoli si muoveva sempre circondato da un branco di cani, anche nei momenti del combattimento, fu assegnato alla zona dell’Adamello, per i trasporti addestrò prima una speciale “squadra” di asini per il traino di slitte adibite al trasporto di viveri e munizioni quindi, alla luce degli scarsi risultati, i suoi cani.

Da questa idea rivelatasi vincente venne creato il centro di addestramento di Bologna.

Ma dall’altra parte del mondo, a Città del Capo nel 1918, quando scende dalla camionetta la scimmia Jackie, indossa sulla zampa anteriore una striscia d’oro e tre galloni blu, che indicano gli anni di servizio in prima linea, e viene applaudita da una folla di soldati.

Nei mesi seguenti, Jekie e Marr partirono per l’Inghilterra, dove Jackie diventò una celebrità e partecipò a diversi eventi della Croce Rossa per raccogliere fondi destinati ai soldati feriti.

Sarà solo dopo questo tour, che Albert e la sua scimmia torneranno finalmente alla loro fattoria di Pretoria, dove il caporale Jackie, babbuino nero e medaglia d’oro al valor militare, morirà da reduce il 22 maggio 1921.

Nella “grande guerra” furono mobilitati almeno 16 milioni di animali, tra cui 11 milioni di cavalli, 200 mila piccioni e colombi viaggiatori e poi muli, asini, buoi, maiali e oltre 100 mila cani.

La Francia ne ebbe in servizio 15.000 (erano solo 26 all’inizio della guerra), la Germania ben 30 mila (erano 6 mila nel 1915) – di cui solo il 10% fece ritorno a casa –, mentre l’Italia impiegò al fronte circa 3.500 cani.

Numeri drammatici, ma forse addirittura lontani dalla realtà, se, come qualcuno ricorda, la sola Russia utilizzò 50 mila cani: è così che il numero stimato dei cani morti sui tanti campi di battaglia potrebbe essere di poco inferiore al milione di esemplari.

Ma questa, è un’altra storia.

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Sigmund Freud – Il padre della psicoanalisi

S:2 – Ep.37

Sigmund Freud è una persona qualunque.

Sigismund Schlomo Freud nacque a Freiberg, nella regione austriaca della Moravia nel 1856, secondo figlio di Jacob Freud e della sua terza moglie Amalia Nathanson proveniente da Leopoli.

Nel 1877, a 21 anni, Sigismund abbreviò il suo nome in Sigmund, con il quale sarà conosciuto poi da tutti. Il giovane Sigmund non ricevette dal padre un’educazione tradizionalista, eppure già in giovanissima età si appassionò alla cultura e alle scritture ebraiche, in particolare allo studio della Bibbia.

Questi interessi lasciarono notevoli tracce nella sua opera, anche se Freud divenne presto ateo e avversò tutte le religioni, come lui stesso ben esplica nel suo L’avvenire di un’illusione.

Nella Vienna di quel periodo erano presenti forti componenti antisemite e ciò costituì per lui un ostacolo, che non riuscì però a limitare la sua libertà di pensiero, dalla madre e dal padre ricevette i primi rudimenti, poi fu iscritto ad una scuola privata e dall’età di nove anni frequentò con grande profitto per otto anni l’Istituto Superiore “Sperl Gimnasyum”.

Sino alla maturità, conseguita a diciassette anni, dimostrò grandi capacità intellettuali tanto da ricevere una menzione d’onore e nel 1873 si iscrisse alla facoltà di medicina dell’Università di Vienna, rettore Karl von Rokitansky.

Durante il corso di laurea maturò una crescente avversione per gli insegnanti che considerava non all’altezza; offeso per essere discriminato in quanto ebreo, sviluppò un senso critico che, di fatto, ritardò l’ottenimento della sua laurea in Medicina e Chirurgia.

Successivamente lavorò nel laboratorio di zoologia diretto da Ernst Wilhelm von Brücke e prese contatto con il darwinismo ma il lavoro di ricerca non lo soddisfaceva e dopo due anni cambiò lavoro e conobbe Brücke, nell’Istituto di fisiologia, dove condusse importanti ricerche nel campo della neuro-istologia degli animali e dove dimostrò che gli elementi cellulari del sistema nervoso degli invertebrati sono morfologicamente identici a quelli dei vertebrati.

Freud lasciò l’istituto dopo sei anni di permanenza anche se le ricerche effettuate gli assicuravano una carriera nel settore, era animato da grande ambizione e valutava troppo lenti i successi conseguibili in quel campo.

L’aspirazione all’indipendenza economica lo spinse a dedicarsi alla pratica clinica, lavorando per tre anni presso l’Ospedale Generale di Vienna con pazienti affetti da turbe neurologiche.

Questa disciplina, molto più remunerativa, gli avrebbe permesso di sposare Martha Bernays, parente del celebre spin doctor Edward Bernays con il quale Sigmund Freud ebbe una cospicua corrispondenza epistolare, fu mentre lavorava in questo ospedale, nel 1884, che Freud cominciò gli studi sulla cocaina, sostanza allora sconosciuta ai più.

Scoperto che la cocaina era utilizzata dai nativi americani come analgesico, la sperimentò su se stesso osservandone gli effetti stimolanti e privi, a suo dire, di effetti collaterali rilevanti.

La utilizzò in alternativa alla morfina per curare un suo caro amico divenuto morfinomane in seguito ad una lunga terapia del dolore, ma la conseguente instaurazione della dipendenza da essa, più pericolosa della morfina, fece scoppiare un caso che costituì una macchia nella sua carriera.

Il caso, che ebbe numerosi episodi paranoidei, nonché allucinazioni e deliri, spinsero il medico a pubblicare il saggio: “Osservazioni sulla dipendenza e paura da cocaina” e dopo la pubblicazione smise di farne uso e di prescriverla.

Nel 1885 ottenne la libera docenza e ciò gli assicurò facilitazioni nell’esercizio della professione medica, la notorietà e la stima dei colleghi gli permisero una facile carriera accademica, sino ad ottenere la cattedra di professore ordinario.

Nel biennio 1885-1886 iniziò gli studi sull’isteria e con una borsa di studio si recò a Parigi, dove era attivo Jean-Martin Charcot, questi, sia per i suoi metodi che per la sua forte personalità, suscitò notevole impressione sul giovane Freud.

Le modalità di cura dell’isteria attraverso l’ipnosi, insegnatagli da Charcot, furono applicate da Freud dopo il rientro a Vienna, ma i risultati furono deludenti, tanto da attirarsi le critiche di numerosi colleghi, nel frattempo il matrimonio con Martha Bernays era stato più volte rimandato a causa di difficoltà che apparivano a Freud insuperabili e quando, il 13 maggio 1886, riuscì a sposarsi, visse l’avvenimento come una grossa conquista.

L’8 dicembre 1887 fu iniziato nel B’nai B’rith di Vienna (un anno dopo la sua fondazione) con una conferenza sui sogni che anticipava di due anni l’uscita dell’Interpretazione dei sogni, fu accolta con entusiasmo e rimase legata alla loggia per tutto il resto della sua vita.

Lo stesso anno nacque la prima figlia, Mathilde, seguita da altri cinque figli, di cui l’ultima, Anna, diventò un’importante psicoanalista.

Nel 1886 iniziò l’attività privata aprendo uno studio a Vienna; utilizzò le tecniche allora in uso, quali le cure termali, l’elettroterapia, l’idroterapia e, tecnica in uso dal 1700 ritenuta in grado di agire sul sistema nervoso, ma priva di risultati apprezzabili, la magnetoterapia.

Utilizzò allora la tecnica dell’ipnosi e, per migliorare la stessa, compì un altro viaggio in Francia, a Nancy, ma non ottenne i risultati che si aspettava.

Freud era professore di neuropatologia, e le teorie sulla psicoanalisi avevano poca eco e considerazione nella scuola di medicina dell’epoca, una chiave di volta nel processo evolutivo delle teorie di Freud fu l’incontro con Josef Breuer – importante fisiologo che poi, in diverse circostanze, sostenne Freud anche finanziariamente – intorno al caso di Anna O..

Breuer curava l’isteria della paziente attraverso l’ipnosi nel tentativo di guarirla da sintomi invalidanti tra i quali un’idrofobia psicogena, nacquero così le prime intuizioni sui ricordi traumatici.

Generalmente si usa datare la nascita della psicoanalisi con la prima interpretazione di un sogno scritta da Freud, un suo sogno della notte tra il 23 e il 24 luglio 1895, riportato anche ne L’interpretazione dei sogni come “il sogno dell’iniezione di Irma”.

La sua interpretazione rappresentò l’inizio dello sviluppo della teoria freudiana sul sogno, l’analisi dei sogni segna l’abbandono del metodo ipnotico utilizzato in quella fase del suo sviluppo, che a ragione si può definire l’inizio della psicoanalisi.

Sebbene oggi la paternità del metodo psicoanalitico sia attribuita a Freud, egli, nella prima conferenza a Boston, riconobbe che l’eventuale merito non sarebbe spettato a lui, bensì al dottor Joseph Breuer, il cui lavoro è antecedente agli studi di Freud e ne costituisce il punto di partenza.

La voce più autorevole che si assume il compito di riflettere sul rapporto tra la civiltà occidentale e la guerra è proprio quella di Sigmund Freud, anche il padre della psicoanalisi non era rimasto immune dal turbine di patriottismo che aveva attraversato l’Europa in quel periodo.

Ma un solo anno di guerra gli era stato sufficiente per rielaborare una lettura più distaccata degli avvenimenti in un brevissimo scritto, intitolato Caducità (del 1915), nel quale egli coglie tutta la complessità e la drammaticità del problema.

Per Freud la guerra fa cadere definitivamente l’illusione che il processo di civilizzazione si sia sedimentato nell’animo e nel comportamento degli uomini: al contrario, è sufficiente che lo stato consenta e obblighi i cittadini all’uso legittimo della violenza affinché riemergano le più violente pulsioni aggressive.

Freud affida le proprie riflessioni sulla guerra a un saggio del 1915, Considerazioni sulla guerra e sulla morte, nel quale approfondisce il rapporto tra l’attività pulsionale e l’aggressività.

Quando nel 1933 Hitler prese il potere in Germania, le origini ebraiche di Freud costituirono un problema, nello stesso anno, il suo nome entrò nella lista di autori le cui opere dovevano essere distrutte.

La situazione diventò seria a partire dal 1938, anno in cui l’Austria venne annessa al Terzo Reich, la figlia Anna fu arrestata brevemente dalla Gestapo; i nazisti cominciarono a vessare Freud, che spesso dette loro somme di denaro per cacciarli da casa propria dove di frequente facevano irruzione, all’inizio si accontentavano di questo, ma presto la situazione divenne insostenibile.

Freud, privato intanto della cittadinanza austriaca e divenuto apolide, in pessime condizioni di salute, si preparò a lasciare Vienna pochi giorni dopo, accompagnato da Martha e da Anna che nel frattempo era stata rilasciata, partì per Londra dove avrà lo status di rifugiato politico.

Freud si era ammalato di carcinoma della bocca già negli ultimi anni viennesi, con il quale convisse per 16 anni e nonostante varie cure e ben 32 operazioni, alla fine dovette subire l’invasiva asportazione della mandibola, che lo costringerà a lavorare quasi esclusivamente in silenzio, effettuando sedute ascoltando solamente i pazienti e all’inserimento di una protesi.

Il 21 settembre 1939, Freud, consumato fra atroci sofferenze, sul letto di morte mormorò al dottor Max Schur, proprio medico di fiducia: «Ora non è più che tortura e non ha senso, ne parli con Anna, e se lei pensa che sia giusto, facciamola finita».

Freud si affidò al sentimento della figlia e il medico aumentò gradualmente la dose di oppiacei, morì due giorni dopo, senza risvegliarsi dal sonno tranquillo che la morfina gli aveva provocato, la stessa morfina che aveva combattuto ma che abbracciò sul letto di morte, all’età di 83 anni.

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Manfred von Richthofen – Il barone rosso

S:2 – Ep.36

Manfred von Richthofen è una persona qualunque.

Quello che per i francesi era le diable rouge e per gli inglesi the Red Baron, nacque il 2 maggio 1892 a Breslavia, capitale della regione della Slesia, nell’Impero Tedesco (ora in Polonia).

Era il secondo figlio della nobildonna Kunigunde von Schickfus und Neurdoff e del barone Rittmeister Albrecht Philip Karl Julius von Richtofen, ufficiale di fanteria di base a Breslavia, dove nacque anche il fratello di Manfred, Lothar, che a sua volta sarebbe divenuto aviatore.

Ancora bambino, Manfred si trasferì con la famiglia a Schweidnitz e praticò spesso e con entusiasmo caccia ed equitazione, seguendo la orme del padre, soldato che faceva parte della cavalleria imperiale.

Completò l’addestramento alla scuola per cadetti di Wahlstatt e in seguito fu addestrato nella Reale Accademia militare prussiana a Groß-Lichterfelde dalla quale uscì nella primavera del 1911.

Assegnato come alfiere al 1º Reggimento Ulani “Imperatore Alessandro III” a Ostrovo, una specialità della cavalleria leggera ideata in Polonia, andò a pochi chilometri dalla frontiera russa e nel 1912 fu nominato sottotenente.

Devoto al regime autocratico del kaiser Guglielmo II, già all’inizio della prima guerra mondiale compì diverse azioni sul fronte orientale: il 2 agosto 1914 passò la frontiera russa col suo reggimento, che poco dopo fu trasferito a ovest.

Fu in Lussemburgo, entrò in Belgio sempre col 1° Ulani e fronteggiò i Francesi a Verdun, dove passò mesi in trincea: non c’era niente da fare per gli Ulani in quel periodo di forzata inattività e Manfred scrisse alla madre lamentando che, mentre lui passava le ore in trincea, il fratello Lothar combatteva sul fronte orientale, ma per il coraggio dimostrato per le ricognizioni sotto il fuoco nemico ricevette comunque la Croce di Ferro.

Nel maggio del 1915 fu accolta la sua domanda per entrare nella Luftstreitkräfte, l’aviazione tedesca e superato l’addestramento ai primi di giugno venne destinato al 7º Reparto Complementi dell’aviazione di Colonia per un corso osservatori.

In quegli anni l’aviazione era usata solo come ricognizione, i piccoli velivoli del tempo non erano ancora armati o pochi iniziavano ad esserlo, l’aviatore possedeva solamente una pistola che usava o contro un aviatore nemico o su sé stesso, nel caso precipitasse malamente.

Teniamo presente che i paracaduti ed eventuali sistemi per eiettarsi dei velivoli non erano ancora stati inventati e a volte, più spesso di quello che si pensa, utilizzare la propria pistola su sé stessi prima di precipitare dietro alle linee nemiche, magari con il bacino fratturato dall’impatto al suolo e bloccati all’interno di un aereo di legno che prendeva fuoco, non era la morte migliore che ci si potesse augurare.

Nei mesi di giugno, luglio e agosto del 1915 tornò al fronte orientale e operò come osservatore aereo durante l’avanzata di Mackensen da Gorlice a Brest-Litovsk.

Il 21 agosto, in seguito a un nuovo improvviso trasferimento, ripassò al fronte occidentale e fu assegnato a Ostenda: qui iniziò l’addestramento come osservatore su un “aereo da battaglia”.

L’aviazione tedesca fu tra le prime, se non la prima in assoluto, che montò un mitragliatore su di un velivolo, poi, con l’andare della guerra, si scoprì che l’elemento aria poteva fare la differenza in battaglia e si progettarono anche bombardieri, prima si utilizzavano solo i dirigibili per queste azioni, o aerei con più mitragliatori, e anche più di un posto a bordo.

Ebbe il suo primo duello aereo il 1º settembre 1915 contro un apparecchio inglese, e rientrò senza troppi danni e senza alcun successo.

Segnò poi la sua prima vittoria nel corso della battaglia della Champagne abbattendo un Farman biposto, che però precipitò dieci chilometri oltre le linee, in territorio alleato, per cui, secondo le regole del tempo, non gli fu accreditato.

Il 1º ottobre 1915, durante un viaggio in treno mentre si stava recando alla Brieftauben Abteilung di Metz, Manfred conobbe il miglior pilota da caccia tedesco dell’epoca, Oswald Boelcke, che molto contribuì al suo futuro successo.

Nel novembre 1915 Richthofen andò a Berlino per sostenere gli esami da pilota e il 25 dicembre 1915 superò il terzo esame, nel marzo dell’anno successivo fu assegnato al 2º Stormo da combattimento, in quel periodo a Verdun.

Ebbe la sua prima vittoria da pilota da caccia abbattendo un Nieuport sul forte di Douamont il 26 aprile 1916, ma anche stavolta l’aereo cadde entro le linee francesi, così non gli fu accreditato nemmeno questo.

Nel giugno del 1916 venne trasferito in Russia con tutto il suo reparto, e operò prevalentemente come bombardiere dalla base di Kowel. In agosto Boelcke arrivò a Kowel per visitare il fratello e cercare piloti per lo stormo da caccia che gli era stato ordinato di organizzare e portare in combattimento sulla Somme, così chiese personalmente a Richthofen se volesse farne parte.

Questi accettò, e il 17 settembre 1916, nei pressi di Cambrai, costrinse un aereo inglese all’atterraggio nei pressi di un campo volo tedesco: fu la sua prima vittoria ufficialmente riconosciuta.

Alla fine del 1916, in occasione della sua sedicesima vittoria, fu decorato con il Pour le Mérite, il più prestigioso premio militare tedesco della prima guerra mondiale, una croce smaltata di blu chiamata anche “Blauer Max” e gli fu affidato il comando della Jasta 11 (squadriglia da caccia), che in seguito sarebbe diventata nota come il Circo Volante in virtù dei vivaci colori che decoravano gli apparecchi ma anche per l’abilità dei piloti, scelti attentamente da Richtofen.

Tra di essi c’erano il fratello di Manfred, Lothar, e il cugino Wolfram.

Tra i componenti della squadriglia spiccava il nome, divenuto poi famoso, di Hermann Göring, futuro capo della Luftwaffe e massimo gerarca nazista.

L’appellativo di Barone Rosso gli venne appunto dal fatto che molti degli aerei da lui pilotati, a partire dall’Albatros D.III, erano completamente dipinti di rosso.

Abbattuto senza conseguenze a metà marzo del 1917, continuò a cogliere una vittoria dopo l’altra e il 24 giugno 1917 ricoprì l’incarico di comandante di una nuova unità appena formata, il Primo stormo da caccia, che comprendeva le squadriglie 4, 6, 10 e 11.

Questo stormo da caccia doveva essere un’unità autosufficiente, con lo scopo di ottenere la superiorità aerea in settori decisivi, per contrastare le sempre più consistenti formazioni del Royal Flying Corps britannico.

Il 21 aprile 1918 decollò dal campo di Cappy con altri nove piloti, fra cui suo cugino Wolfram von Richthofen che era alle sue prime missioni di guerra ma incontrarono i Sopwith Camel della 209ª squadriglia della neoistituita Royal Air Force.

Il giovane tenente canadese Wilfrid May vide che Wolfram von Richthofen restava, come lui, ai margini del combattimento aereo, e gli andò in caccia mettendosi in coda, Il barone Rosso si accorse subito di cosa stava accadendo e del pericolo che correva suo cugino ed iniziò ad inseguire Wilfrid May, il quale, con la mitragliatrice inceppata, cercò di allontanarsi.

Questa era di solito la sua tecnica abituale: cercare gli aerei in difficoltà e prenderli in caccia, tuttavia stava sempre attento a non portarsi sulle linee nemiche, ma quel giorno non prese questa precauzione e forse a causa della stanchezza fu certamente poco prudente nel sorvolare a bassa quota quelle linee.

Vedendo il riconoscibile triplano di Manfred von Richthofen in procinto d’attaccare May, il capitano Arthur Roy Brown, altro pilota canadese, decise a sua volta di attaccare il Barone Rosso e ben presto i tre aerei si ritrovarono a bassissima quota sulla terra di nessuno che separava i due fronti.

Richthofen desistette dall’inseguimento, ma sembra che avesse calcolato male la sua posizione per cui, quando fece la virata per tornare indietro, sorvolò una delle zone più munite del fronte della Somme e colpito da proiettili provenienti dalle trincee, il triplano atterrò intatto in una zona controllata dagli australiani.

Alcuni testimoni oculari raccontarono che von Richthofen era già morto, riverso sulla cloche; altri che sopravvisse ancora alcuni minuti prima di emettere un ultimo sospiro, Kaputt, riferito al suo aeroplano.

Un caccia inglese lasciò cadere sul campo-base tedesco di Cappy il seguente messaggio: “AL CORPO D’AVIAZIONE TEDESCO. Il capitano barone Manfred von Richtofen è stato ucciso in battaglia il 21 aprile 1918 e seppellito con tutti gli onori militari“.

Il capitano Brown, ritenuto uno dei possibili abbattitori del Barone Rosso, non rivendicò mai ufficialmente la vittoria; recenti ricerche ne attribuiscono l’abbattimento al sergente mitragliere Cedric Popkin oppure all’artigliere Robert Buie o, il più probabile tra tutti questi, all’artigliere “Snowy” Evans, tali soldati facevano tutti parte della contraerea australiana della 1st AIF.

Le sue spoglie furono ospitate nel cimitero del villaggio di Bertangles, vicino ad Amiens.

Finita la guerra, nel 1919 furono traslate nel Cimitero Militare Tedesco di Fricourt, sulla Somme.

Il 16 novembre 1925 il feretro del Barone Rosso attraversò il Reno e fu accolto da una folla raccolta a Kehl, gli furono tributati grandi funerali di Stato e fu seppellito insieme ai più grandi eroi tedeschi nell’Invalidenfriedhof a Berlino.

Dopo la seconda guerra mondiale, questo cimitero si ritrovò nel settore Est di Berlino: allora la famiglia, temendo che la tomba non venisse più curata, chiese e ottenne, nel 1976, la traslazione delle spoglie nel cimitero sud di Wiesbaden, nella cappella di famiglia, vicino a sua madre e sua nonna.

Viene ricordato come un asso dell’aviazione: più precisamente, come l’asso degli assi, essendogli ufficialmente accreditate 80 vittorie aeree durante la prima guerra mondiale, prima di venire abbattuto il 21 aprile 1918, 7 mesi prima della fine della grande guerra.

Von Richthofen avrebbe compiuto da lì a undici giorni il suo ventiseiesimo compleanno.

Ma questa, è un’altra storia.

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George Foottit – Foottit e Chocolat

S:2 – Ep.35

George Foottit è una persona qualunque.

È difficile pensare ad un clown in tempo di guerra, fa strano immaginarsi questo simbolo dell’allegria costretto ad affrontare uno dei contesti più tragici nei quali può trovarsi un essere umano, eppure, ovviamente, anche i pagliacci subiscono le intemperie della Storia.

George Foottit nacque a Manchester il 24 aprile del 1864, figlio di Sarah e George Foottit.

Il padre, George “Geo” Foottit Senior, era pure lui un clown nello stile di Joseph Grimaldi e si esibiva al Drury Lane Theatre di Londra come Funny Foottit, nel 1867 George Foottit Senior fondò un suo circo itinerante in società con Anthony Powell e altri artisti, ma avendo problemi di alcolismo dovette ben presto rinunciare alla collaborazione.

A soli tre anni, George Foottit Junior debuttò nel circo di suo padre, che gli insegnò il suo repertorio acrobatico e quando di anni ne ebbe otto, nel 1872, i suoi genitori lo iscrissero all’Arnold College, vicino a Nottingham, per approfondire la sua cultura, soprattutto quella musicale.

George frequentò il college per due anni.

Foottit Senior morì nel 1874 e la vedova Sarah si risposò con il cavaliere Thomas Batty, che divenne il direttore del circo, Foottit Junior perfezionò le sue abilità equestri oltre che quelle acrobatiche e di equilibrista e successivamente soggiornò da suo zio materno Sanger, che possedeva un altro circo itinerante molto quotato.

Nel 1882, a diciotto anni, abbandonò il circo di famiglia e iniziò a esibirsi come acrobata a cavallo, anche se ben presto scelse di diventare un clown, come suo padre e 4 anni dopo iniziò a lavorare al Nouveau-Cirque, nel centro di Parigi, che diventò uno dei locali più conosciuti della capitale francese.

Dopo aver recitato da solo per un periodo, formò un duo con Rafael Padilla, in arte “Clown Chocolat”, Foottit impersonava il pagliaccio bianco mentre Chocolat il pagliaccio augusto.

Rafael Padilla, cognome attribuitogli ad arte e non legalmente, era figlio di una famiglia africana ridotta in schiavitù a Cuba.

Il luogo e la data di nascita quindi non sono noti con esattezza, perché non si usava registrare né la data di nascita né il battesimo degli schiavi; perché Rafael era nato schiavo, inoltre, in quanto famiglia di schiavi, quella di Rafael non aveva un cognome.

I suoi genitori scapparono dalla piantagione in cui lavoravano nel 1878, pare che sia rimasto orfano a 8 anni e che sia stato affidato a una signora in un quartiere poverissimo dell’Avana ma lei lo vendette per 18 once d’oro a Caridad Padilla, che gli attribuì il suo cognome ma mai legalmente, moglie di un commerciante di legna e zucchero, che lo portò con sé vicino a Bilbao.

Nella nuova casa Rafael venne sottoposto a bagni “sbiancanti” con spazzole per cavalli fino a che, nel 1882, scappò ma rimase nei paraggi di Bilbao, dove iniziò a lavorare come minatore, scaricatore di porto, fattorino, cantante di strada, nel frattempo, la schiavitù iniziava a essere abolita in diversi paesi: a Cuba sarebbe stata abolita nel 1886.

A Bilbao assistette a uno spettacolo del clown inglese Joseph Thomas “Tony” Grice e ne rimase affascinato.

Rafael si presentò a Grice offrendosi come aiutante, facendosi notare per la sua forza fisica e per il suo talento nella danza, così, dopo averlo assunto come tuttofare, Grice imbastì effettivamente uno spettacolo insieme a Rafael, in previsione del suo rientro in Francia: il quotidiano Le Figaro pubblicizzò il rientro di Tony Grice “insieme al suo negro, alla sua scimmia e al suo maiale.

Durante il sodalizio artistico con Grice, prese il nome d’arte di “Clown Chocolat”.

Il duo Tony Grice-Chocolat iniziò a esibirsi al “Nouveau Cirque” di Parigi dal 1886, in un periodo storico in cui l’intrattenimento diventa una sorta di industria, poi, nel 1888 i due litigarono e ruppero il loro sodalizio ma fu in questo periodo che conobbe la donna della sua vita, Marie Hecquet, all’epoca sposata Grimaldi.

Nel 1895 il marito di Marie, Enrico Grimaldi, presentò istanza di divorzio accusando la moglie di adulterio e abbandono del tetto coniugale, Rafael e Marie iniziarono a vivere insieme e diventarono una delle prime coppie miste nella storia francese.

Tuttavia, non poterono mai sposarsi legalmente perché Marie aveva divorziato con colpa di adulterio, quindi non le era consentito di sposare il suo “complice” e secondariamente perché Rafael non possedeva uno stato civile: egli rimase infatti senza documenti, e senza cognome, fino alla morte.

Chocolat veniva associato sempre più spesso a George Foottit, con discreto successo, tanto che la direzione del “Nouveau Cirque” si convince a formare un nuovo duo: Foottit avrebbe recitato la parte del pagliaccio bianco, autoritario, severo, preciso, mentre Chocolat la parte dell’ augusto, stralunato, incapace e pasticcione.

Ne risultò la coppia circense più in auge di fine secolo, innovatrice e iniziatrice di un nuovo genere clownesco, la “commedia clownesca” basata appunto sull’associazione fra clown bianco e augusto, che fino a quel momento non erano mai stati visti insieme.

In tutti gli sketch, Foottit schiaffeggia e picchia Chocolat, il quale tenta di restituire i colpi, questa costante sarà sia l’origine del loro successo, che del loro declino, l’atteggiamento dell’opinione pubblica verso Chocolat cambiò a causa dell’Affaire Dreyfus, che aveva sconvolto l’opinione politica francese tra il 1894 e il 1906.

L’Affare Dreyfus fu il maggiore conflitto politico e sociale della Terza Repubblica a seguito dell’accusa di tradimento e spionaggio a favore della Germania mossa nei confronti del capitano alsaziano ebreo Alfred Dreyfus, il quale però era innocente, anche gli storici sono concordi nell’identificare la vera spia nel maggiore Ferdinand Walsin Esterhazy.

L’affare costituì lo spartiacque nella vita francese tra i disastri della guerra franco-prussiana e la prima guerra mondiale: costrinse ministri a dimettersi, creò nuovi equilibri e raggruppamenti politici, spinse a un tentato colpo di Stato.

La condanna di Dreyfus fu un errore giudiziario, avvenuto nel contesto dello spionaggio militare, dell’antisemitismo imperversante nella società francese e nel clima politico avvelenato dalla perdita recente dell’Alsazia e di parte della Lorena, subita per opera dell’Impero tedesco di Bismarck nel 1871.

Lo scandalo giudiziario si allargò per gli elementi di falsificazione delle prove portati nel processo, gli intrighi e la coriacea volontà dei più alti vertici militari di Francia nell’impedire la riabilitazione di Dreyfus, mentre giornali e politici antisemiti, ambienti ecclesiastici e monarchici istigarono e aizzarono ampi settori della società francese contro Dreyfus, i pochi difensori della sua innocenza vennero a loro volta minacciati, condannati o dimessi dall’esercito.

Il maggiore Marie-Georges Picquart, capo dei servizi segreti militari e figura centrale nella riabilitazione di Dreyfus, fu prima degradato e trasferito in Africa, poi arrestato e condannato e solo grazie a un compromesso politico, Dreyfus, fu graziato e liberato nel 1899, ci vollero altri anni per ottenere la riabilitazione civile e il suo reintegro nell’esercito nel 1906.

Mentre prendeva progressivamente coscienza del suo antisemitismo, la società francese iniziava a interrogarsi sulla discriminazione e sul colonialismo, questa maggiore sensibilità fece sì che gli sketch in cui Foottit picchiava Chocolat smisero di far ridere e quindi, nell’agosto del 1905, la nuova direzione del “Nouveau Cirque” congedò Foottit e Chocolat e non rinnovò il loro contratto.

I due smisero di lavorare insieme per un anno, periodo in cui Chocolat finì in miseria ma tornarono sulla scena nel 1906 anche con i figli di Chocolat, ma il successo era progressivamente minore.

Nel 1910, mentre interpretava con Chocolat una parodia dell’Amleto, Foottit venne scritturato da André Antoine per interpretare il fool in una vera rappresentazione di Romeo e Giulietta di William Shakespeare al Teatro dell’Odéon.

Nel 1911, anche Chocolat ricevette un ingaggio per recitare nell’opera “Moïse” di Edmond Guiraud, tuttavia, essendo illetterato e parlando creolo haitiano, non riusciva a padroneggiare sufficientemente bene la lingua francese, e lo spettacolo fu giudicato un fiasco.

Negli anni successivi, lavorò al “Circo Medrano” che però vedeva la concorrenza del nascente cinema e dello sport, gli sketch dei clown diventavano solo intermezzi al cinema.

Nel 1913 la figlia Suzanne morì di tubercolosi e Chocolat cadde in depressione, sviluppando una dipendenza dall’alcol, lasciò Parigi e tornò a lavorare in un circo ambulante.

I due non si rivedranno mai più.

Durante la prima guerra mondiale, Foottit iniziò a esibirsi insieme ai suoi figli Thomas, George e Harry, per l’esercito francese ma anche lui patì la concorrenza del cinema e dello sport e visto che il lavoro diminuiva, Foottit aprì un bar a Parigi nei paraggi degli Champs Élysées che però gli assicurò un certo reddito.

Chocolat morì a Bordeaux nel 1917, apparentemente dimenticato, diversi giornali annunciarono la sua morte, in particolare l'”Excelsior” chiese a Foottit di scrivere un ricordo di lui: Foottit gli dedicò un commosso necrologio, dove ricostruì la sua vita in brevi cenni.

Nel 1920, dopo la guerra, interpretò il ruolo di un clown filosofo, nella commedia Les Mille et Une Nuits di Firmin Gémier, rappresentata al Théâtre des Champs-Élysées e l’anno successivo recitò nel cortometraggio muto Fièvre del regista Louis Delluc.

Si esibì pubblicamente per l’ultima volta, con una parodia che alludeva alle ballerine di Edgar Degas, in uno spettacolo a casa dello stilista Paul Poiret.

Morì di cancro all’età di 57 anni, nella sua casa di Parigi, il 29 aprile 1921, nei necrologi fu riconosciuto come “il principe dei clown”.

I fratelli Lumière filmarono il Foottit e Chocolat in diversi sketch e le prime pubblicità industriali fecero ricorso alla celebrità del duo, sfruttando lo stereotipo del nero sporco e del nero battuto e contento.

Ma questa, è un’altra storia.

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Arthur Machen – Gli angeli di Mons

S:2 – Ep.34

Arthur Machen è una persona qualunque.

Arthur Machen, pseudonimo di Arthur Llewelyn Jones è stato uno scrittore gallese, noto soprattutto per i suoi racconti dell’orrore, del fantastico e del soprannaturale.

Arthur nacque a Caerleon, trascorrendo la sua infanzia in quella regione ricca di suggestioni e riferimenti storici che influenzò profondamente la sua sensibilità e successivamente la sua produzione artistica.

La povertà della sua famiglia gli impedì di frequentare l’università e Machen si recò a Londra dove tuttavia dimostrò le proprie qualità letterarie, nel 1881 pubblicò il lungo poema Eleusinia, che si lasciava suggestionare da alcuni affascinanti elementi dei cosiddetti misteri eleusini, riti religiosi misterici che si celebravano ogni anno nel santuario di Demetra nell’antica città greca di Eleusi.

A Londra Arthur visse in relativa povertà lavorando come giornalista, impiegato di tipografia e istitutore, la persona addetta all’istruzione e all’ammaestramento dei figli di famiglie ricche, continuando nel tempo libero la sua attività di romanziere, che in quel periodo risentì molto delle lunghe passeggiate attraverso la città.

Nel 1910 Machen accettò un lavoro fisso come giornalista presso l’Evening News di Alfred Harmsworth sempre a Londra e allo scoppio della guerra, nel 1914, venne inviato come corrispondente, arrivò alla notorietà con gli episodi di “cronaca” The Bowman e Angels of Mons.

Pubblicò inoltre una serie di racconti, molti dei quali di propaganda, tra cui The Great Return (1915) e il romanzo breve Il terrore (1917), oltre ad una serie di articoli autobiografici poi raccolti nell’antologia Far off Things, ma oggi ci occuperemo nello specifico di Bowman, degli angeli di Mons, dei falsi miti della prima guerra mondiale e di quello che scaturirono.

Il 22 e il 23 agosto del 1914 le truppe britanniche e quelle tedesche si scontrarono nella città belga di Mons, era la prima grande battaglia della guerra, che contrariamente alle aspettative, costrinse l’esercito britannico a ritirarsi.

Poco dopo il nostro scrittore Machen, ispirato dalla battaglia, scrisse The Bowman, un racconto dove un soldato evocava grazie a San Giorgio un gruppo di arcieri fantasma della battaglia di Azincourt, avvenuta 500 anni prima.

La battaglia di Azincourt si svolse vicino l’omonima località nell’odierno dipartimento del Passo di Calais il 25 ottobre 1415 nell’ambito della guerra dei cent’anni, vedendo contrapporsi le forze del Regno di Francia di Carlo VI contro quelle del Regno d’Inghilterra di Enrico V.

Falliti i negoziati con i francesi, gli inglesi ripresero la campagna sul continente europeo ma a causa delle malattie, l’esercito di Enrico perse numerosi soldati e fu costretto a ritirarsi ripiegando, ma lungo la via per Calais i francesi sbarrarono loro la strada presso Azincourt con un’armata molto più numerosa.

Negli scontri che seguirono, re Enrico in persona guidò in prima linea il suo esercito, la battaglia vide un ampio uso dell’arco lungo, circa l’80% delle forze inglesi erano formate da arcieri mentre re Carlo VI di Francia non prese parte alla battaglia, a causa dei disturbi psichici di cui soffriva.

In virtù della decisiva vittoria inglese la battaglia è considerata uno dei momenti più cupi della storia della Francia e, al contrario, uno dei più fulgidi per l’Inghilterra.

L’articolo sugli angeli di Mons di Arthur Machen fu pubblicato sul London Evening News il 29 settembre di quell’anno, senza una chiara indicazione che si trattava di un racconto di fantasia e da quel momento Machen, che non aveva mai voluto creare una bufala, perse totalmente il controllo della sua creatura.

Nonostante i tentativi dell’autore di chiarire la faccenda, gli Angeli di Mons furono presi sul serio e si moltiplicarono le storie su di loro, spuntarono addirittura soldati pronti a confermare la loro esistenza, anche se non si trovavano nemmeno lì.

La propaganda britannica favorì la circolazione di questa (e altre) storie, che avevano il pregio di tenere alto il morale delle truppe, ma considerando che non può esistere il bene senza il male, da un’altra parte della guerra, si incominciò a parlare dei disertori cannibali.

La terra di nessuno, quel tratto di terra compresa fra due trincee nemiche tra loro, fa da sfondo a un’altra leggenda della Grande guerra, quella dei Wild deserters, in questo caso, però, la speranza dell’aiuto celeste cede decisamente il passo all’orrore.

Erano un branco di disertori che ospitava rappresentanti di quasi tutte le nazioni in conflitto (dal 1915 Italia compresa), il loro territorio era appunto la terra di nessuno, dove si nascondevano in grotte o in trincee abbandonate.

Questi rinnegati fedeli solo alla propria sopravvivenza, orribili nell’aspetto ma molto bene armati, emergevano dal sottosuolo e attaccavano di notte depredando i soldati, secondo alcuni non erano nemmeno umani, ma bestie soprannaturali che si cibavano dei cadaveri insepolti lasciati in quel lembo di terra.

La leggenda è nata con tutta probabilità nelle trincee ed è stata raccontata nelle biografie pubblicate dopo la guerra dai soldati, le guerre sono spesso associate a miti di questo tipo, diffusi sia tra la popolazione che sul fronte.

Molte leggende di guerra infatti devono il loro successo alla propaganda, che è particolarmente interessata a dare ampia pubblicità alle atrocità commesse dal nemico, queste possono essere reali, reali ma esagerate o anche totalmente false, come nel caso delle fabbriche di cadaveri tedesche, in grado di trasformare corpi umani in sapone e altri prodotti.

Come sempre non è facile ricostruire la genesi delle leggende, ma oggi gli storici pensano che sia andata in questo modo: già dal 1915 erano in circolazione voci di questo tipo, ma come voci appunto erano trattate e al massimo i giornali le usavano per fare satira.

Ma nel 1917, partendo da un articolo belga a propria volta basato su un articolo in lingua tedesca, i giornali inglesi pubblicarono quella che sembrava la prova dell’esistenza di una di queste fabbriche.

Persino la famosa rivista medica The Lancet non rinunciò a quello che forse oggi chiameremmo clickbait, e pubblicò un articolo su quello che si poteva ottenere in teoria da un corpo umano.

In realtà le Kadaver-Verwertungs-Anstalt descritte dall’articolo originale in tedesco processavano carcasse animali: kadaver in tedesco non si usa per corpi umani, la propaganda inglese lo sapeva bene, ma fece comunque in modo che la storia si diffondesse.

Dopo la guerra il capo dell’Intelligence britannica John Charteris confessò di aver inventato il tutto con l’obiettivo di convincere la Cina a entrare in guerra, in realtà aveva trasformato in propaganda, cioè in un’arma, una voce già esistente, e questo ebbe delle conseguenze a lungo termine.

I tedeschi di fatti non dimenticarono l’accaduto, e all’alba della II Guerra mondiale la loro propaganda usò la bufala per dimostrare quali falsità potevano raccontare i nemici, inoltre le procedure di sterminio della Shoah, con treni carichi di persone inviati in centri di produzione, ricordavano molto la leggenda delle fabbriche di cadaveri: questo potrebbe essere uno dei motivi per cui all’inizio, anche tra gli alleati, qualcuno non credeva che stesse davvero accadendo.

Ma quello che oggi chiamiamo fake news della prima guerra mondiale non finiscono qui, il 12 aprile del 1915 un giornale parigino, Le Journal des débats, riferì di una bambina che avrebbe raccontato alla madre di aver visto la vergine Maria.

Questa avrebbe previsto la morte della bambina e che la famiglia dopo tre giorni avrebbe ricevuto la notizia del ferimento del padre, l’ultima profezia della Madonna fu che la guerra sarebbe finita a maggio (di quell’anno, cioè il 1915), ovviamente tre giorni dopo, secondo la leggenda, il padre fu ferito veramente.

Le profezie avverate generano l’aspettativa per quella che interessa a tutti, cioè la fine della guerra.

Sempre del 1915 è una storia diffusa dal milanese Il Secolo che riferisce le previsioni di un’anziana agli altri passeggeri di un tram, in questo caso prima pronostica che la guerra finirà in tre mesi, poi, come prova, indovina quanto il bigliettaio ha in tasca, che a questo punto le promette un premio nel caso effettivamente la guerra finisca e, ovviamente, sempre secondo la previsione, la donna indovinò l’ammontare dei soldi in tasca al bigliettaio.

Quasi identica una storia riportata dal Corsera (Corriere della Sera) il 17 marzo 1917, che indicava come fonte il Petit Parisien, l’indovina in questo caso era la tranviera stessa, lo scettico un non precisato ufficiale di non si sa quale esercito, ma per il resto la storia è identica.

Fatto rimane che la guerra finì non a maggio come disse la bimba che vide la Madonna o tre mesi dopo la previsione della vecchia indovina del 1915 e nemmeno nel 1917 come detto dalla tranviera ma, per quelli a cui sfuggisse, l’11 novembre del 1918.

Machen visse quasi tutta la sua lunga vita in povertà, le difficoltà economiche ebbero termine solo nel 1943 in occasione del suo ottantesimo compleanno, quando venne inserito in una lista di importanti letterati, i proventi ricavati da quest’iniziativa gli permisero di vivere felicemente i suoi ultimi anni, fino al 1947 quando morì a Beaconsfield a 83 anni.

Tredici anni dopo la sua morte, Machen fu ampiamente citato ed elogiato come esempio paradigmatico di una diversa visione della realtà de Il mattino dei maghi di Pauwels e Berger e venne citato nel racconto di Lovecraft “Colui che sussurrava nelle tenebre” come autore di suggestivi racconti fantastici.

Certo, Arthur Machen aveva solamente inventato gli angeli di Mons, e ci provò pure a smentire la bufala, ma nessuno gli credette, mentre era più facile credere alle storie diffuse dai giornali delle varie nazioni, strano come oggi funzioni ancora così, a distanza di più di un secolo.

Ma questa, è un’altra storia.

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Gavrilo Princip – Dove tutto ebbe inizio

S:2 – Ep.33

Gavrilo Princip è una persona qualunque.

Da ormai 32 episodi raccontiamo storie più o meno conosciute del periodo storico della prima guerra mondiale, guerra, iniziata ufficialmente quando l’arciduca Francesco Ferdinando erede al trono venne assassinato, assieme alla moglie Sofia, da un terrorista.

Francesco Ferdinando era nipote (figlio del fratello) dell’imperatore Francesco Giuseppe I d’Austria e, al momento della sua nascita, terzo in linea di successione al trono dopo il cugino Rodolfo e il padre.

Nel 1889 il cugino Rodolfo si suicidò a Mayerling senza lasciare eredi maschi e Carlo Ludovico, padre di Francesco Ferdinando, divenne il primo in linea di successione, così, quando nel 1896 il padre morì Francesco Ferdinando divenne l’erede al trono austro-ungarico.

Ma l’imperatore Francesco Giuseppe, nonostante l’età avanzata, mantenne saldamente il potere e lo tenne sempre lontano dalle decisioni di governo, come del resto aveva fatto in precedenza con il figlio Rodolfo.

Non è noto con sicurezza dove Sophie abbia incontrato per la prima volta l’arciduca erede al trono austro-ungarico, sebbene molte fonti indichino che l’incontro sarebbe avvenuto durante un ballo a Praga, forse nel 1894.

Sophie e Francesco Ferdinando tennero segreta la loro relazione per diversi anni ma quando l’erede al trono iniziò a fare regolari visite nella casa dell’arciduca Federico d’Asburgo-Teschen, divenne di dominio pubblico che era innamorato della figlia di lui e scoppiò uno scandalo pubblico.

L’imperatore Francesco Giuseppe chiarì subito al principe Francesco Ferdinando che non avrebbe mai potuto sposare Sophie perché per essere una candidata ufficiale ad entrare a far parte della famiglia imperiale, avrebbe dovuto appartenere ad una delle famiglie regnanti in Europa o almeno ad una delle precedenti dinastie regnanti.

La famiglia Chotek non apparteneva a nessuna di queste categorie, Francesco Ferdinando replicò che in quel caso non avrebbe mai sposato nessun’altra candidata. Guglielmo II di Germania, lo zar Nicola II di Russia ed il papa Leone XIII furono coinvolti per intercedere in favore del volere imperiale affinché il contrasto tra Francesco Giuseppe e Francesco Ferdinando non minasse la stabilità della Corona imperiale.

Il suo matrimonio con la contessa Sophie Chotek von Chotkowa fu autorizzato solo dopo che la coppia ebbe accettato che la sposa non avrebbe goduto dello status di reale e che i loro figli non avrebbero dovuto avere pretese al trono, Francesco Giuseppe non partecipò alla cerimonia del matrimonio, così come non vi partecipò il fratello dello sposo, Ferdinando Carlo.

Nei primi anni del 20° sec. andarono delineandosi due blocchi contrapposti: Francia e Gran Bretagna, da una parte, saldarono la loro alleanza nell’Intesa cordiale del 1904 e dall’altra, gli ‘imperi centrali’, Austria-Ungheria e Germania, legarono a loro l’Impero ottomano.

Negli stessi anni le crisi internazionali si fecero ricorrenti, in particolare a seguito dell’annessione della Bosnia-Erzegovina da parte dell’Austria-Ungheria che alimentò gli scontri nei Balcani, principale focolaio di tensioni insieme con la competizione franco-tedesca.

Dopo l’attentato dell’arciduca, l’Austria-Ungheria, ottenuta mano libera dalla Germania, lanciò un ultimatum il 23 luglio 1914 alla Serbia, ritenendola corresponsabile e il 28 luglio l’Austria dichiarò guerra alla Serbia.

La catena delle alleanze fece precipitare la situazione: la Russia rispose con una mobilitazione generale, la Germania dichiarò guerra alla Russia e poi alla Francia, quindi violò la neutralità di Lussemburgo e Belgio e questo atto di forza decise l’ingresso in guerra della Gran Bretagna contro la Germania.

Poche settimane dopo anche il Giappone entrò nel conflitto, in quanto alleato della Gran Bretagna; Francia, Gran Bretagna e Russia sanzionarono con il Patto di Londra una vera e propria alleanza.

La Turchia, timorosa della Russia e legata alla Germania, decretò la chiusura degli stretti alla navigazione commerciale e si unì agli Imperi centrali.

Il Portogallo si schierò a fianco dell’Intesa.

Tutto iniziò, per l’appunto, quando Ferdinando e Sofia furono uccisi con due colpi di pistola da una persona qualunque, un terrorista serbo che si chiamava Gavrilo Princip.

Gavrilo nacque il 25 luglio 1894 in Bosnia Erzegovina, all’epoca territorio amministrato dall’Austria-Ungheria ma soggetto alla sovranità formale dell’impero ottomano.

Era il sesto di nove fratelli e fu uno dei soli tre a sopravvivere durante l’infanzia, era figlio di un postino e la sua gioventù fu segnata dalla povertà e dalle precarie condizioni di salute: contrasse la tubercolosi da bambino.

Studiò presso la Scuola Commerciale a Sarajevo e in seguito si iscrisse alla Scuola superiore ma durante la sua infanzia presso la Scuola Commerciale si distaccò apertamente dai movimenti radicali serbi delle organizzazioni giovanili private.

Divenuto adolescente, nel 1912 fu mandato a Belgrado per continuare la sua istruzione ma abbandonò gli studi quando venne coinvolto nel movimento ultra-nazionalistico serbo, unendosi a un’associazione politico-rivoluzionaria, la Giovane Bosnia, il cui obiettivo era liberare la Bosnia Erzegovina dal dominio dell’Impero austro-ungarico e annetterla al regno di Serbia.

L’organizzazione Giovane Bosnia, nata a Sarajevo agli albori del XX secolo, ebbe dapprima lo scopo ultimo di liberare il territorio bosniaco occupato dal nemico austriaco, senza però essere guidata né da alcuna ideologia comune né da dogmi.

L’attentato vide la partecipazione, oltre a Princip, anche di altri cinque membri della Giovane Bosnia, il gruppo era armato di pistole e bombe, fornite da una società segreta, la Mano Nera, che aveva anche molti sostenitori tra gli ufficiali serbi e i funzionari del governo.

La Mano Nera, ufficialmente Unificazione o Morte, fu una società segreta fondata in Serbia nel maggio del 1911 come parte del più ampio movimento nazionalista pan-slavo, che aveva come obiettivo quello di unire sotto lo stesso Stato tutti i territori con popolazioni serbe, ovvero la Bosnia ed Erzegovina e il Montenegro.

Il gruppo annoverava una vasta gamma di ideologie, dagli ufficiali militari favorevoli alla cospirazione fino agli studenti idealisti tendenti ad ideali repubblicani, a dispetto dell’ideologia fortemente nazionalistica del movimento vicina ai circoli fedeli alla corona.

Il leader del movimento, il Colonnello Dragutin Dimitrijević detto “Apis”, era stato un responsabile diretto nel colpo di Stato del giugno del 1903 che aveva portato al potere il re Petar Karađorđević.

L’obiettivo della Mano Nera era quello di creare uno Stato indipendente slavo guidato dalla Serbia e quelli croati, assoggettati da tempo.

Il progetto dell’organizzazione terroristica panslavista vedeva un ostacolo nel disegno “trialistico” di cui l’arciduca Francesco Ferdinando era il più autorevole sostenitore, che prevedeva la creazione all’interno dell’impero asburgico di un terzo polo nazionale slavo accanto a quelli tedesco e magiaro.

Quello del 28 giugno 1914, a Sarajevo, fu senza dubbio un attentato fuori dal comune, all’inizio sembrava destinato al fallimento, ma poi le cose andarono diversamente.

A Sarajevo, verso le ore 09:50, il commando di attentatori si era recato all’angolo del corso Voivoda, attendendo il passaggio dell’automobile dell’Arciduca per portare a termine la propria missione di morte.

Alle ore 10:00 in punto, lo studente Gavrilo Princip uscì da una locanda unendosi alla folla e posizionandosi in prima fila, con la mano che teneva in tasca stringeva la pistola con la quale avrebbe dovuto sparare all’Arciduca quando la sua auto fosse passata davanti a lui.

Improvvisamente, in fondo al corso, s’udì un’esplosione e, poco dopo, l’auto con a bordo la coppia reale passò a tutta velocità davanti al luogo dove si trovava appostato Princip, dirigendosi verso il municipio.

Il primo attentatore aveva infatti sbagliato il lancio di una bomba a mano, riuscendo solo a ferire l’aiutante di campo di Francesco Ferdinando e a questo punto la missione di Princip sembrava fallita, si incamminò verso via Re Pietro, nel frattempo però, l’automobile dell’Arciduca, raggiunto il municipio, vi si fermò solo il tempo necessario a Francesco Ferdinando per redarguire il sindaco di Sarajevo per l’accoglienza ricevuta, quindi ripercorse a ritroso la strada fatta in precedenza per andare a recuperare l’aiutante dell’erede al trono, che nel frattempo era stato medicato per le leggere ferite riportate in precedenza.

L’auto percorse l’itinerario a passo d’uomo, a causa della massa di gente che, sfollando, aveva invaso la sede stradale, Princip, che deluso stava ritornando alla taverna, si trovò proprio di fronte alla coppia reale ed esplose due colpi di pistola all’indirizzo delle sue vittime, questa volta colpendole a morte, i proiettili esplosi da Princip colpirono l’arciduca Francesco Ferdinando al collo, mentre la moglie fu ferita allo stomaco, causando la morte dei due in breve tempo.

Princip venne immediatamente tratto in arresto dalle guardie presenti.

Dei sei attentatori, la polizia riuscì ad arrestare soltanto Gavrilo Princip e l’amico Nedeljko Čabrinović, gli altri, a causa della grande folla di persone, non ebbero l’opportunità di entrare in azione e riuscirono a dileguarsi.

Una volta arrestato, Princip tentò di suicidarsi, prima provò a farlo ingerendo del cianuro, la seconda volta sparandosi con la sua pistola ma nessuno dei due tentativi andò a buon fine: nel primo caso vomitò il veleno, come successe anche a Čabrinović, mentre nel secondo caso la pistola venne allontanata prima che potesse sparare un altro colpo.

All’epoca dell’attentato Princip, ancora diciannovenne, era troppo giovane per poter subire la condanna a morte, l’assassino venne pertanto condannato a vent’anni di prigione.

Ma in cella trascorse soltanto quattro anni, vivendo in pessime condizioni nella prigione di Terezín, finché morì di tubercolosi il 28 aprile 1918, all’età di 23 anni.

Ma questa, è un’altra storia.

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