Beppe, Orazio, Mario, Felice – Il calcio in guerra

S:2 – Ep.46

Giuseppe, Orazio, Mario e Felice sono persone qualunque.

Il 24 maggio 1915 l’Italia entrò ufficialmente nella prima guerra mondiale, dato assodato che ha modificato vite e abitudini di molti, abitudini importanti e anche sicuramente futili se paragonate ad un conflitto mondiale, ed una di queste futili abitudini era indubbiamente quella di seguire il campionato di calcio.

La Prima Categoria 1914-1915 è stata la 18ª edizione della massima serie del campionato italiano di calcio, disputata tra il 4 ottobre 1914 e il 23 maggio 1915, Il 23 maggio avrebbe dovuto svolgersi l’ultima giornata del girone finale Nord, con in programma i decisivi match Genoa-Torino e Milan-Inter.

Eventi politici di ben più alta levatura investirono, però, la settimana precedente le gare: il Parlamento italiano aveva votato giovedì 20 i pieni poteri al governo, al fine dell’ingresso nella prima guerra mondiale e sabato 22 venne annunciata la mobilitazione generale, domenica 23 la Commissione Tecnica della FIGC, presieduta da Antonio Scamoni, decise l’immediata sospensione del campionato senza curarsi di consultare con un referendum le società interessate.

Nella stessa domenica l’Italia dichiarò guerra all’Impero austro-ungarico, in precedenza la FIGC, per evitare la possibilità che il campionato venisse sospeso per la guerra, aveva proposto al Genoa, primatista del girone finale Nord, di giocare la penultima giornata il 13 maggio, come turno infrasettimanale, in modo da anticipare l’ultima giornata al 16 maggio, ma il club rossoblù aveva rifiutato, presumibilmente per impedimenti organizzativi.

Ciò nonostante, l’interruzione del torneo fu criticata con un comunicato ufficiale dallo stesso club genoano, il provvedimento federale fu ampiamente contestato anche da diverse testate giornalistiche: la rivista “Il Football”, ad esempio, fece presente che si tennero regolarmente altre manifestazioni sportive, e sottolineò che, su 44 giocatori partecipanti al girone finale, solo la metà rischiava di essere soggetta a precetto militare immediato.

Fra i giocatori che vennero precettati e che parteciparono poi alla grande guerra, ci furono anche nomi altisonanti di quel periodo, non potendoli nominare completi, ricorderemo i medagliati a rappresentanza di tutti perché sì, ce ne furono, e anche parecchi a dir la verità, ben 46 per la precisione tra tutte le categorie.

Giuseppe Caimi dell’Internazionale FC, Orazio Gaggiotti e Corrado Corelli della Podistica Lazio e Mario Giuriati dell’Enotria Goliardo furono plurimedagliati o medagliati d’oro non per le loro prestazioni calcistiche ma per ciò che fecero nel primo grande conflitto mondiale nel Regio esercito italiano.

Giuseppe Caimi era un atleta schermidore dal fisico prestante, militò nell’Inter dal 1911 al 1913, giocando 23 gare in due campionati di massima divisione, in cui la squadra si piazzò rispettivamente al quarto e al terzo posto nel proprio girone.

Allo scoppio della prima guerra mondiale si arruolò volontario venendo inserito nelle file del 5º Reggimento alpini come sottotenente di complemento distinguendosi in ardite ricognizioni notturne sul Panarotta.

Passato successivamente nel Battaglione “Feltre” del 7º Reggimento alpini con il grado di tenente comandante il Plotone esploratori; si distinse sul Monte Cauriol insieme a Gabriele Nasci e Angelo Manaresi.

Ferito una prima volta il 14 marzo 1916 nella battaglia di Santa Maria di Novaledo, fu decorato con la Medaglia d’argento al valor militare e a Sant’Andrea di Valsugana si guadagnò una seconda Medaglia d’argento al valor militare che rifiutò in cambio di una promozione a tenente in servizio permanente effettivo per merito di guerra.

Dopo la sconfitta di Caporetto seguì la ritirata del suo battaglione fino a Montebelluna, venendo decorato con una seconda Medaglia d’argento al valor militare sul Monte Taz il 21 novembre 1917.

Nei giorni immediatamente successivi alla conclusione della Prima battaglia del Piave, si trovò coinvolto nei combattimenti che portarono alla stabilizzazione del fronte del Grappa-Piave fino alla successiva Battaglia del solstizio.

Ferito gravemente il 14 dicembre 1917 sul Monte Valderoa, un’altura del Massiccio del Grappa, morì il 26 dicembre dello stesso anno all’ospedale della Croce Rossa di Ravenna per le ferite riportate e meritando la Medaglia d’oro al valor militare per il coraggio dimostrato, successivamente assegnatagli con Regio Decreto.

Orazio Gaggiotti, studente dell’istituto tecnico Leonardo da Vinci, suo padre era un noto fotografo dell’epoca ed era un attaccante e podista, un forte atleta, nelle file della podistica vinse diversi trofei.

Nel 1908 giocava in 3^ squadra, nel 1910 è in prima squadra ma poi divenne un soldato volontario nel 2° Reggimento Bersaglieri nel 1911 ed effettivo per mobilitazione al Deposito Bersaglieri in Roma assegnato all’XI Reggimento Bersaglieri per il prescritto servizio di prima nomina il 26 gennaio 1913.

Morì sul monte Pecinka, in Slovenia a quota 308, il 1° novembre 1916 il primo giorno di combattimenti della IX battaglia dell’Isonzo, era divenuto Capitano e fu decorato con la Medaglia d’Argento al Valor Militare perché alla testa della sua compagnia, la guidava arditamente all’assalto di forti posizioni nemiche, conquistandole dove cadde colpito a morte, ottenne anche la medaglia di bronzo al V.M.

Mario Giuriati nacque a Milano il 31 dicembre 1895, fu un calciatore e socio nella società milanese A.C. Enotria e si arruolò nel Regio esercito combattendo nella prima guerra mondiale, in servizio nel 144º Reggimento fanteria, con il grado di sottotenente.

Si distinse nella sesta battaglia dell’Isonzo: sul monte Sabotino, dove, già ferito gravemente, si sottraeva alle cure per ritornare sul campo di battaglia, tra le trincee e sostituendo il comandante ferito, guidava la sua compagnia nell’assalto della postazione austriaca.

Lì venne colpito ancora in modo grave, resistette fin che poté farlo, e cioè fino alla sua morte l’11 agosto 1916, due mesi dopo gli fu conferita la medaglia d’oro al valor militare alla memoria.

Corrado Corelli era figlio del pittore Augusto Corelli, nacque a Roma il 19 agosto del 1884, iniziò come scultore apprendendo i primi rudimenti del disegno dal padre e in seguito divenne allievo dello scultore Eugenio Maccagnani per poi diventare assistente e collaboratore dell’artista Giulio Aristide Sartorio.

Si dedicò prevalentemente alla piccola scultura e a creazioni in oro, argento e rame, più tardi si specializzò nella gioielleria artistica realizzando lavori per una clientela italiana ed internazionale, ebbe commissioni pubbliche e private in cui dimostrò capacità espressive di livello, per esempio, suoi gli arredi sacri della chiesa di San Benedetto a Pomezia.

Per quanto riguarda l’attività sportiva, insieme al fratello Filiberto, inizialmente furono ingaggiati dalla società calcistica della Virtus e nel giugno 1907, Sante Ancherani convinse Corrado e suo fratello a lasciare la Virtus per accasarsi alla Società Sportiva Lazio in occasione del primo torneo calcistico interregionale disputato a Pisa.

Corrado restò a disposizione della squadra biancoceleste fino al 1922, con un’interruzione dovuta allo scoppio della grande guerra e giocando le finalissime del campionato di calcio nel 1913 e 1914.

Militare di complemento, partirà per la grande guerra con il grado di sottotenente dell’81º fanteria brigata Torino, tornando con il grado di maggiore e con una medaglia d’argento al valor militare ottenuta per l’eroico comportamento avuto durante un’azione bellica e due medaglie di bronzo.

Unico dei sopracitati a fare ritorno dal fronte, partecipò alla Marcia su Roma nel 1922, ma la sua adesione al Fascismo fu breve e allo scoppio della seconda guerra mondiale fu richiamato alle armi con il grado di tenente colonnello; fu assegnato al comando delle tradotte che portavano truppe ed equipaggiamenti sul fronte russo.

Successivamente Corrado fu trasferito all’ufficio censura militare di Firenze, dopo l’armistizio rifiutò ogni collaborazione con i tedeschi e fece ritorno a Roma, tornando al suo lavoro di scultore.

Molte squadre di calcio videro i propri atleti partire per il fronte, medaglie d’argento e di bronzo vennero consegnate a calciatori del Genoa, Milan, Juventus, Udinese e di quasi tutte le società al tempo coinvolte nella prima categoria, ma non solo calciatori, due corrispondenti sportivi, Edoardo Rubino, corrispondente della Gazzetta dello Sport e Franco Scarioni, corrispondente de Il Secolo Illustrato e della Gazzetta dello Sport furono medagliati rispettivamente d’argento e di bronzo nella grande guerra.

Per ultimo riportiamo il nome di Felice Borda, inizialmente tesserato per la Juventus, giocò alcune partite nella seconda squadra come portiere ma iniziò ad arbitrare le categorie inferiori all’inizio della stagione 1911-1912, a disposizione del Comitato Regionale Piemontese; in seguito esordì in Prima Categoria a fine campionato 1911-1912, dirigendo il 12 maggio 1912 Andrea Doria-Piemonte.

Continuò ad arbitrare nella massima serie italiana fino alla stagione 1914-1915 e, malgrado fosse già stato chiamato alle armi, arbitrò anche due partite della Coppa Federale ma non tornò più ad arbitrare dopo la fine del conflitto mondiale.

Partecipò al conflitto mondiale quale ufficiale degli alpini e fu decorato quale sottotenente con la medaglia d’argento al valor militare quando, in un’azione notturna, per quanto ferito, sotto violento getto di bombe con pochi uomini, si lanciò su nemici appostati, uccidendone alcuni e catturandone altri.

Per la cronaca, per l’esattezza quella riportata da due articoli del quotidiano La Stampa e un articolo della Gazzetta del Popolo, la Federazione decise nel maggio 1919, sei mesi dopo la fine della prima guerra mondiale, di attribuire la vittoria del campionato italiano al Genoa, in quanto primo in classifica nel Girone Finale Nord al momento della sospensione bellica e pertanto più prossimo alla vittoria del torneo, questa decisione postuma trascurò i pari diritti delle squadre centro-meridionali, nonché quelli di Torino e Inter.

Ma questa, è un’altra storia.

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Francis Pegahmagabow – Il miglior cecchino

S:2 – Ep.45

Francis Pegahmagabow è una persona qualunque.

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Francis venne alla luce il 9 Marzo 1891 in quella che oggi è la riserva della Shawanaga First Nation a Nobel, Ontario.

Dopo lo scoppio della prima guerra mondiale, Francis si offrì volontario per il servizio presso la Canadian Expeditionary Force nell’agosto 1914, nonostante le discriminazioni del governo canadese che inizialmente escludeva le minoranze, infatti Francis era un canadese indigeno.

Con il termine popoli indigeni del Canada, noti anche come Indigeni canadesi o Aborigeni canadesi, si intendono le popolazioni autoctone che vivevano dentro i confini dell’attuale Canada prima della colonizzazione europea e i loro odierni discendenti, essi comprendono le Prime Nazioni, gli Inuit e i Métis.

Francis faceva parte delle Prime Nazioni, i popoli indigeni o autoctoni che non erano né Inuit né Métis (Meticci), numericamente le Prime Nazioni erano concentrate in Ontario e in Columbia Britannica ma erano presenti un po’ in tutte le province e territori canadesi.

Fu assegnato al 23 ° reggimento pionieri del nord e dopo essersi unito alla forza canadese, era di base al CFB Valcartier, decorò la sua tenda dell’esercito con simboli tradizionali tra cui un cervo, il simbolo del suo clan.

All’inizio di ottobre 1914 fu schierato all’estero con il 1 ° battaglione di fanteria della 1ª divisione, il primo contingente di truppe canadesi inviato a combattere in Europa, i suoi compagni lo soprannominarono “Peggy”.

Nell’aprile 1915, Peggy combatté nella seconda battaglia di Ypres, dove i tedeschi usarono il gas per la prima volta sul fronte occidentale e fu durante questa battaglia che iniziò a stabilire una solida reputazione come cecchino ed esploratore.

I primi a fare uso dei fucili con cannocchiale furono i tedeschi, all’epoca leader assoluti nel campo della produzione di materiale ottico.

Quando poco dopo l’inizio del conflitto, nato come guerra di movimento ma che si arenò subito nelle trincee, si venne a creare la necessità di armi di precisione, l’esercito tedesco riuscì velocemente a fornire alle sue truppe armi dotate di cannocchiale.

Le prime ad arrivare in linea furono armi da caccia civili, donate dai possessori o più probabilmente sequestrate, di fatto è facile trovare foto d’epoca con soldati dotati di armi simili.

Già verso la fine del 1914 vennero poi assemblati, presso gli arsenali statali, dei Gewehr 98 dotati di cannocchiale e data l’urgente necessità di armi con ottica, venne lasciata libertà di approvvigionamento ad ogni arsenale, col risultato che ognuno di essi assemblò le armi con cannocchiali ma soprattutto con sistemi di attacco diversi.

In questo modo successe che i cannocchiali usati furono i più vari, sia come produttori ma soprattutto come ingrandimenti e luminosità, comunque i tedeschi furono i leader assoluti in questo ambito nei primi due anni di guerra.

Queste armi speciali vennero affidate a persone con esperienza specifica, come cacciatori, guardacaccia o iscritti ai club di tiro a segno, vennero anche istituiti dei corsi di addestramento al fine di far utilizzare al meglio dette armi: veniva insegnato come tener conto dell’angolo di sito, della temperatura, dell’altitudine, del vento e di ogni altro fattore che potesse influenzare l’efficacia del tiro.

Si insegnava anche come mimetizzare la propria postazione e il comportamento in prima linea al fine di essere massimamente efficaci e anche, perché no, ad aumentare le probabilità di sopravvivenza dei cecchini stessi che, per antonomasia, spesso per tecniche di battaglia venivano abbandonati in avamposti isolati.

La parola che nella lingua italiana tutt’oggi identifica lo sniper, il soldato dotato di fucile con cannocchiale, ci deriva proprio dalla Prima Guerra Mondiale: CECCHINO, tale termine non è altro che il diminutivo di un “soldato di Franz Joseph”, l’imperatore austroungarico, in italiano Francesco Giuseppe che, abbreviato, diventerebbe Cecco Giuseppe, un piccolo Cecco, un cecchino per intenderci.

Questa innovazione, l’utilizzo del fucile col cannocchiale, venne recepita con ritardo dai nemici ma appena possibile sia i francesi che gli inglesi si dotarono delle loro armi da sniper, e con loro anche proprie colonie sparse per il mondo.

Una delle difficoltà principali per i paesi dell’Intesa fu il procurarsi i cannocchiali da montare, la Germania aveva il monopolio mondiale della produzione di vetro ottico e con lo scoppio del conflitto le nazioni alleate si trovarono a doversi inventare un’industria ottica, cosa che ovviamente non fu facile né immediata.

Comunque già dal 1915 si cominciò a vedere in linea qualche Lebel con ottica APX e pure dei Lee-Enfield.

Come ben noto la guerra in Italia cominciò solo nel 1915 ma nonostante questo “vantaggio temporale” al cecchinaggio non si pensò minimamente finché non ci si rese conto che il nemico aveva una strana abilità nel centrare il cranio di ufficiali, sentinelle e di ogni altro bersaglio “interessante” apparentemente ma non realmente al riparo da rischi, vista la presunta distanza elevata dal nemico.

In buona sostanza si scoprì che gli austroungarici usavano appunto dei fucili di precisione, in effetti i sudditi di Franz Joseph, grazie ai cugini germanici, da anni erano pure loro avvezzi all’uso di armi da caccia con mirino ottico e quindi, già allo scoppiare delle ostilità, qualche fucile civile con ottica arrivò in prima linea.

Qualche cecchino arrivò sul fronte italiano anche al seguito dell’Alpenkorps, che già nel 1915 era dotato, come ormai tutti i reparti di linea tedeschi, dei suoi cecchini con Gew98 in versione sniper.

Gli Austroungarici, ispirandosi ai cugini tedeschi, cominciarono a lavorare sul progetto di una versione da cecchino dell’M95 e furono facilitati in ciò dal fatto di avere due sole fabbriche di questa arma.

Ma torniamo al nostro cecchino canadese Peggy che, dopo la battaglia di Ypres, fu promosso caporale, poi, il suo battaglione prese parte alla battaglia della Somme nel 1916, durante la quale fu ferito alla gamba sinistra ma si riprese in tempo per tornare al 1 ° battaglione mentre si trasferivano in Belgio.

Ricevette la medaglia militare per aver portato messaggi lungo le linee durante queste due battaglie, inizialmente il suo ufficiale in comando, il tenente colonnello Frank Albert Creighton, lo aveva nominato per la Distinguished Conduct Medal, citando il suo disprezzo per il pericolo e “fedeltà al dovere”, ma fu declassato, forse a causa della sua appartenenza ad una minoranza etnica.

Il 6 e 7 novembre 1917, Francis vinse una Barra alla sua medaglia militare per le sue azioni nella seconda battaglia di Passchendaele dove, durante i combattimenti, al battaglione di Peggy fu affidato il compito di lanciare un attacco.

Quando i rinforzi del battaglione si persero, Francis fu determinante nel guidarli e assicurarsi che raggiungessero il punto assegnato nella linea, giocando un ruolo importante come collegamento tra le unità sul fianco e il 1° battaglione.

La guerra finì nel novembre 1918 e nel 1919 Francis ritornò in Canada, aveva servito per quasi tutta la guerra e si era costruito una reputazione come abile tiratore.

Usando il tanto diffamato fucile Ross, un fucile ad otturatore scorrevole calibro .303 prodotto in Canada tra il 1903 e il 1918 di enorme successo prima della Grande guerra, ma che a causa dell’estrema precisione richiesta nella lavorazione, la mancanza di un’estrazione primaria e una lunghezza non trascurabile resero il suo successore inadatto alle condizioni di guerra di trincea in cui si trovarono impantanate le forze canadesi in Europa, gli fu accreditato di aver ucciso 378 tedeschi e di averne catturato altri 300.

Al momento del congedo, aveva raggiunto il grado di sergente maggiore ed era stato insignito della Stella 1914–15, della British War Medal e della Victory Medal, fu il canadese indigeno con più decorazioni militari ed il cecchino di qualsiasi schieramento con più uccisioni della prima guerra mondiale, ironia della sorte, ovviamente, non era né austroungarico e né tedesco, ideatori e produttori dei primi fucili con ottica.

Al suo ritorno in Canada continuò a prestare servizio nella Milizia come membro dei Pionieri del Nord, conosciuti oggi come Reggimento Algonquin, come membro attivo non permanente.

Seguendo le orme di suo padre e suo nonno, fu eletto capo della Parry Island Band dal febbraio 1921 e una volta in carica causò uno scisma nella band dopo aver scritto una lettera che chiedeva che alcuni individui e tutti quelli di razza mista, dovevano essere espulsi dalla riserva.

Fu rieletto nel 1924 e prestò servizio fino a quando fu deposto tramite una lotta di potere interna nell’aprile 1925 ma prima che la mozione potesse passare, Peggy si dimise.

Un decennio dopo, fu nominato consigliere dal 1933 al 1936, nel 1933 il Dipartimento degli affari indiani (DIA) ha cambiato le sue politiche e ha proibito ai capi delle Prime nazioni di corrispondere con la DIA.

I membri delle Prime nazioni che prestarono servizio nell’esercito durante la prima guerra mondiale furono particolarmente attivi come attivisti politici, avevano viaggiato per il mondo, guadagnato il rispetto dei compagni in trincea e si erano rifiutati di essere messi da parte.

Oltre alla lotta di potere tra il Consiglio indiano e la DIA che Francis contestò, fu un agitatore costante sulle isole in Georgian Bay del Huron, i governi delle Prime nazioni regionali rivendicarono le isole come proprie e Peggy e altri capi cercarono invano di ottenere il riconoscimento del loro status.

Durante la seconda guerra mondiale Francis lavorò come guardia in una fabbrica di munizioni vicino a Nobel, Ontario, divenne sergente maggiore della milizia locale, e nel 1943, divenne il capo supremo del governo indipendente dei nativi, una delle prime organizzazioni delle Prime nazioni, morì 9 anni dopo, nel 1952 a 61 anni.

Ma questa, è un’altra storia.

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Giuseppe Valle – L’uomo dirigibile

S:2 – Ep.44

Giuseppe Valle è una persona qualunque.

Giuseppe nacque a Sassari il 17 dicembre 1886, frequentò l’Accademia militare di Modena e la Scuola di applicazione di artiglieria e genio e il 5 settembre 1907 fu promosso al grado di sottotenente in servizio permanente effettivo.

In gioventù fu tra i fondatori della Polisportiva S.S. Lazio, nonché suo atleta, fu anche un eccellente podista, campione studentesco sulla distanza di 20 km.

Il Tenente Valle nel 1910 divenne uno dei primi ufficiali del Battaglione Specialisti del Servizio Aeronautico e nel novembre del 1911 venne assegnato in servizio navigante sul dirigibile militare P.1, basato a Vigna di Valle.

Il P1, la P stava per “piccolo” ad indicare la categoria del mezzo, nel 1912 fu smontato e trasportato in Cirenaica, dove divenne il primo dirigibile ad essere impiegato sperimentalmente in guerra, in Africa il P1 compì in tutto nove missioni di ricognizione, di cui una notturna.

Il mese successivo Valle si imbarcò come ufficiale di bordo sul dirigibile P.2, impiegato nella guerra di Libia, rimanendovi fino al maggio 1912, nel 1911 durante la guerra ltalo-turca il dirigibile militare N2, ribattezzato appunto per l’occasione P2, effettuò in Libia i primi bombardamenti aerei della storia.

Dall’agosto dello stesso anno Giuseppe diventò uno degli ufficiali che presiedettero agli esperimenti ed al montaggio, che ne costituiscono il primo equipaggio, del dirigibile M.1.

Il 19 giugno 1914 venne nominato comandante in 1ª di dirigibile, poi ci fu l’entrata in guerra dell’Italia nella prima guerra mondiale, il 24 maggio 1915, e mentre l’M1 fu subito impiegato in missioni operative, eseguendo il primo bombardamento su Lubiana nella notte del 27 maggio dove venne colpito da almeno 200 colpi di fucile, riuscendo comunque a rientrare sull’aeroscalo di Campalto, a Venezia, Valle assunse il comando del dirigibile P.4 della Marina sempre a Campalto fino alla fine del successivo mese di settembre.

La settimana successiva, dalla base, il P4 si alzò destinazione Pola, l’aeronave potette contare su 12 ore di autonomia ed era armata con quattro torpedini da 162, quattro da 130 e sei incendiarie, dopo un’ora la quota si stabilizzò a 1000 metri.

Alle ore 22.30 il P4 raggiunse la città di Pola, l’altimetro segna 1450 metri quando il dirigibile rilasciò il suo carico sull’arsenale, le torpedini incendiarie vennero sganciate sulla base di idroaviazione di Santa Caterina e sui depositi di nafta scatenando una furiosa reazione austriaca, con 34 fotoelettriche a scandagliare il cielo per indirizzare il fitto fuoco di una decina di batterie contraeree.

Il dirigibile venne colpito in maniera leggera ma la quota recuperata per lo scarico delle bombe gli permise di salire ancora di 250 metri, raggiungendo le nubi e fuggendo al fuoco nemico.

L’aeronave virò e si mise sulla via del ritorno e, dopo due ore e mezza di volo, scendendo a 100 metri, arrivò all’altezza del faro del Piave, col megafono il comandante Valle avvertì dell’arrivo ed il dirigibile atterrò alle 2,40 del 31 maggio 1915, portando a termine senza perdite la vittoriosa operazione.

Alla fine del settembre 1915 il Capitano fu trasferito al Cantiere della Marina di Ferrara per comandare il V.2 da ottobre 1915 a maggio 1916, il dirigibile V.2 terminò l’allestimento nel novembre 1915, andando in volo per la prima volta il 10 dicembre successivo entrando in servizio operativo il 28 febbraio 1916.

Le prestazioni risultarono subito deludenti, infatti raggiungeva una velocità massima di 65 km/h e una tangenza di 2 000 m, inoltre venne rilevata una forte inerzia in fase di manovra, unita a un raggio di virata molto ampio.

La prima missione bellica, al comando del capitano Giuseppe Valle, avvenne il 5 aprile contro il nodo ferroviario di Nabresina, sul fronte dell’Isonzo, il 26 maggio fu tentata una nuova missione contro Nabresina, ma Valle, preoccupato per la tendenza del V.2 a perdere quota e per le difese contraeree nemiche in allarme, preferì attaccare le installazioni di Punta Salvore.

Oltre a queste missioni, Valle, con mirabile intelligenza, perizia ed ardimento, nella sua qualità di comandante dei dirigibili P 4 e V. 2, portò a compimento le azioni di bombardamento contro la Ferriera di Muggia, il Nodo ferroviario Divazza, lo Stabilimento tecnico Triestino, il Cantiere San Marco di Trieste, la Stazione di Grignano, il Viadotto ferroviario Sestiana e gli Hangars di Parenzo che gli valsero una medaglia d’argento al valor militare.

Dal 1º luglio 1916 prese il comando del nuovo dirigibile M.9 dove eseguì la prima ascensione, cui ne seguì uno di collaudo della durata di tre ore, il 7 luglio, con trasferimento a Ciampino previo sorvolo della città di Roma.

Dopo una riparazione, per un problema ad un motore, il giorno successivo l”M.9 partì puntando a nord, verso Vigna di Valle, e dopo un ulteriore volo di collaudo, eseguito il 10 luglio, tre giorni dopo, l’aeronave uscì dall’hangar decollando alle 6:40 verso il fronte, ma a causa di un guasto dovette atterrare a Ciampino.

Dopo alcuni altri voli di collaudo e massa a punto, alle 4:00 del 26 agosto l”M.9 partì da Ciampino puntando a nord, per un lungo volo di trasferimento verso la zona di operazioni, arrivando sull’aeroscalo dell’Aeroporto di Ferrara-San Luca alle ore 9:20 e il 28 agosto si trasferì sull’aeroscalo di Casarsa della Delizia, in zona di guerra.

La prima missione operativa fu eseguita il 9 settembre 1916, con obiettivo il viadotto di Sistiana colpito con 600 kg di bombe lanciate da 1 850 m di quota, e il giorno 24, dopo quindici giorni trascorsi all’interno dell’hangar, l’aeronave decollò alle 22:30 per colpire la stazione ferroviaria di Duttogliano, rientrando a Casarsa dopo un volo di cinque ore.

Il giorno successivo decollò nuovamente alle 21:35 per una missione, ma scoperto da un riflettore su Duino dovette rientrare alla base ma nella notte, sul 26 settembre, il dirigibile bombardò baraccamenti tra Comeno e Castagnevizza.

Tra il 20 e il 21 febbraio 1917 decollò da Spilimbergo per eseguire una missione di bombardamento su un accampamento nemico vicino all’abitato di Comeno, che venne colpito da 750 kg di bombe ma durante il volo di rientro il dirigibile fu fatto bersaglio dalla contraerea nemica, arrivò comunque alla base di partenza alle 3:40 del mattino, senza grossi inconvenienti.

Dopo una veloce revisione ai propulsori, la sera del 22 febbraio partì nuovamente alle 0:10 per effettuare una missione di bombardamento sul campo d’aviazione di Prosecco, colpito con 700 kg di bombe da una quota di 2 500 m, rientrando a Spilimbergo alle ore 4:50.

Nel mese di aprile, dopo una missione operativa, il dirigibile rimase danneggiato durante un atterraggio a Casarsa, riportando danni alla navicella, fu riparato sommariamente e nella notte tra il 21 e il 22 aprile decollò comunque per la sua 57ª ascensione, attraversando l’Isonzo per colpire la linea ferroviaria dietro il Dosso Faiti con 18 bombe.

Subito dopo lo sgancio il dirigibile fu inquadrato da un proiettore nemico, salì rapidamente a 4 600 m fatto segno dai colpi dell’artiglieria contraerea, e sempre inquadrato dal proiettore incontrò un fortissimo vento che lo spinse lungo tutto lo schieramento nemico fino a Duino, sempre sotto il fuoco dall’artiglieria contraerea nemica, riuscì a cavarsela anche questa volta rientrando a Spilimbergo alla 4:00 del mattino, senza più zavorra e con pochissimo carburante a bordo.

Nuova missione il 16 maggio, in cui vi fu una quasi collisione con il gemello M.10 a causa delle pessime condizioni atmosferiche che lo costrinsero a rientrare anzitempo alla base, ripartì nuovamente la sera successiva, mentre infuriava la battaglia intorno a Gorizia, colpendo con 30 bombe un accampamento nemico sulla strada fra Ovcia-Draga e Vogrsko.

Il 24 maggio bombardò una stazione ferroviaria e, il 18 giugno, andò contro le postazioni austro-ungariche sull’Hermada.

Ormai logorato dall’intenso uso bellico, l’aeronave fu riportata a Ciampino nel mese di luglio, venendo impiegata per un certo periodo per l’addestramento e infine trasferita alla Regia Marina con compiti di ricognizione antisommergibili ma non prima di far decorare Valle con una seconda medaglia d’argento.

Quando la prima guerra mondiale terminò, Giuseppe valle transitò in vari posti continuando la sua carriera militare, prima nelle file della Regia Aeronautica assumendo l’incarico di comandante del Gruppo dirigibili, poi venne nominato comandante della neonata Accademia Aeronautica.

Nel novembre 1928 lasciò il comando dell’Accademia per assumere le funzioni di capo dell’Ufficio centrale del demanio, l’anno successivo divenne Sottocapo di stato maggiore dell’Aeronautica, incarico che lasciò il 22 febbraio 1930 per divenire Capo di stato maggiore della Regia Aeronautica, alle dipendenze del Ministro Italo Balbo.

Sotto di lui venne decorato con una medaglia d’oro al valore aeronautico per aver partecipato alla Crociera Aerea Transatlantica Orbetello-Rio de Janeiro in qualità di Pilota il 17 dicembre 1930 e tornando il 15 gennaio 1931.

Il 10 novembre 1933 lasciò l’incarico per poi riassumerlo il 22 marzo 1934, alle dirette dipendenze del Ministro Benito Mussolini, anche se la dipendenza agli ordini del Duce era solo formale in quanto gli venne sempre lasciata ampia autonomia.

In questa nuova veste il generale Valle scrisse un rapporto segreto in cui dimostrò che Balbo aveva falsificato le cifre sull’effettiva consistenza numerica degli aeroplani, salvo essere accusato dal suo successore, Francesco Pricolo, di aver fatto poi la stessa cosa.

Nel 1939 fu nominato consigliere nazionale della Camera dei Fasci e delle Corporazioni e a settembre, durante una riunione dei capi di stato maggiore delle forze armate, si oppose alla preventivata entrata in guerra, dichiarando a Mussolini l’impreparazione della propria forza armata.

Due mesi dopo venne sostituito dal generale di squadra aerea Francesco Pricolo, suo precedente accusatore, e dopo la fine della seconda guerra mondiale gli vennero mosse numerose accuse e venne sottoposto a processo, dal quale però ne uscì assolto, morì, per cause naturali, il 20 luglio 1975.

Ma questa, è un’altra storia.

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Giacomo dalla Chiesa – Benedetto XV

S:2 – Ep.43

Giacomo dalla Chiesa è una persona qualunque.

Giacomo nacque a Genova da famiglia nobile ma non più particolarmente benestante, terzo di quattro figli di Giuseppe della Chiesa e di Giovanna dei marchesi Migliorati.

La famiglia della Chiesa era discendente da casati che avevano dato i natali a Berengario II d’Ivrea, conte di Milano e marchese di Lombardia e d’Ivrea e re d’Italia dal 950 al 961, e ad un pontefice, Callisto II, 162º papa della Chiesa cattolica dal 1119 fino al 1124; i dalla Chiesa facevano parte del patriziato genovese, nel quale aveva raggiunto, nel XVI secolo, una posizione di particolare rilievo, ma non era da meno la famiglia materna, ugualmente aristocratica, i Migliorati di Napoli che avevano già dato, anche loro, i natali a un pontefice, Innocenzo VII, 204º papa della Chiesa cattolica dal 1404 al 1406.

A Genova Giacomo ebbe modo di formarsi in un ambiente fecondo sia sul piano della fede sia su quello della cultura: fondamentali furono la frequentazione del beato Tommaso Reggio, dei futuri cardinali Gaetano Alimonda e Giorgio Rea e del futuro primo vescovo di Chiavari Fortunato Vinelli.

Su pressione del padre, il quale si era opposto al desiderio di Giacomo di entrare quanto prima nel seminario diocesano, si iscrisse nel 1872 alla facoltà di giurisprudenza della Regia Università degli Studi di Genova, dove si laureò dottore in legge nel 1875.

Solo allora il padre acconsentì a fargli intraprendere la carriera ecclesiastica; impose tuttavia al figlio di proseguire gli studi, iniziati presso il seminario di Genova, e a Roma, presso il Collegio Capranica e la Pontificia Università Gregoriana, dove Giacomo della Chiesa ottenne la laurea in teologia.

Dopo essere stato ordinato presbitero il 21 dicembre 1878 dal cardinale Raffaele Monaco La Valletta, entrò nell’Accademia dei nobili ecclesiastici per la preparazione alla carriera diplomatica, e successivamente, nel servizio diplomatico della Santa Sede.

Quando il cardinale Rampolla, dopo l’elezione di Pio X, fu sostituito dall’altrettanto valente Merry del Val, Giacomo della Chiesa mantenne inizialmente il proprio posto, stimato dal nuovo Papa per le sue capacità.

Pio X, pur apprezzandolo, decise però di allontanarlo dalla Curia romana e il 16 dicembre 1907 lo nominò arcivescovo di Bologna, secondo la nota massima latina promoveatur ut amoveatur, così giunse a sorpresa a Bologna la sera del 17 febbraio 1908.

Monsignor della Chiesa sosterrà l’intervento italiano in Libia, in conformità con la dottrina della guerra giusta, un campo di riflessione della teologia morale cristiana che stabilisce a quali condizioni dichiarare una guerra, e combattere per vincerla, sia lecito per un cristiano.

Nel capoluogo emiliano, nonostante la sede di Bologna fosse tradizionalmente titolata per una berretta cardinalizia, della Chiesa fu creato cardinale di Santa Romana Chiesa da Pio X solo sei anni dopo, il 25 maggio 1914, due mesi prima dell’inizio della Grande Guerra.

E proprio nel primo mese della prima guerra mondiale, Pio X morì per una cardiopatia, il 20 agosto 1914, si dice che qualche tempo prima della morte, profeticamente, abbia detto più volte sconsolato: “Verrà il guerrone”, ossia la Grande Guerra.

Giacomo dalla Chiesa, benché inizialmente Bologna fu vista come un passo indietro nella sua carriera ecclesiastica, proprio quell’esperienza pastorale lo rese possibile alla sua elezione al soglio pontificio, tant’è che solo dopo quattro mesi da quando era diventato cardinale, il 3 settembre 1914, fu inaspettatamente eletto papa, nonostante l’opposizione dei cardinali curiali e di quelli più intransigenti, tra cui De Lai e Merry Del Val.

Assunse il nome pontificale di Benedetto XV in onore del pontefice Benedetto XIV, che a sua volta era stato arcivescovo metropolita di Bologna prima di salire al soglio pontificio come lui.

L’elezione a papa di un cardinale nominato da soli tre mesi fu un evento eccezionale, probabilmente fu la situazione bellica a favorire la sua elezione, avendo egli lavorato nella diplomazia con valenti segretari di Stato ed essendo considerato più super partes rispetto ad altri papabili.

Infatti, durante la prima guerra mondiale elaborò diverse proposte di pace, nella sua prima enciclica, pubblicata già il 1º novembre 1914, si appellò ai governanti delle nazioni per far tacere le armi e mettere fine allo spargimento di tanto sangue umano.

Fu lui, il mese successivo, che chiese una tregua natalizia dicendo: che i cannoni tacciano almeno la notte che cantano gli angeli, ma non fu ascoltata dagli ufficiali, mai dai soldati sì, i militi dei vari schieramenti smisero di spararsi e si incontrarono nella terra di nessuno scambiandosi piccoli doni in quello che fu poi ricordata come la tregua di Natale.

Con l’entrata in guerra anche del Regno d’Italia il 24 maggio 1915, la Santa Sede, chiusa e «prigioniera» in Vaticano, rimase ulteriormente isolata con la dipartita degli ambasciatori degli Stati esteri.

Durante tutto il conflitto non smise di inviare proclami per la pace e per una risoluzione diplomatica della guerra, oltre a fornire aiuti concreti alle popolazioni civili colpite, tra cui servizi di soccorso per i feriti, i rifugiati e gli orfani di guerra.

Tra tali aiuti, il cui costo portò il Vaticano sull’orlo della bancarotta, va ricordata anche l’apertura di un ufficio in Vaticano, l’Opera dei prigionieri, finalizzato alle comunicazioni e al ricongiungimento dei prigionieri di guerra con i loro familiari.

In campo diplomatico, nell’aprile e nel maggio 1915, cercò di operare come intermediario tra l’Austria-Ungheria e l’Italia per evitare che la seconda dichiarasse guerra alla prima; non riuscendoci, e tra la fine del 1916 e l’inizio 1917 si adoperò come tramite fra alcune potenze dell’Intesa e il nuovo imperatore, Carlo I d’Austria, fino a che, nella primavera del 1917, si appellò al presidente degli Stati Uniti Woodrow Wilson nel tentativo di prevenire l’entrata in guerra dell’America, fallendo anche in questa occasione, ma per pura ragione politica.

La risposta delle nazioni belligeranti fu negativa, specialmente quella di Woodrow Wilson che accolse il messaggio in modo critico e distaccato, e ciò si rivelò determinante nell’assicurare il fallimento delle proposte di pace di Benedetto XV perché ormai gli Stati Uniti erano entrati in guerra e le altre potenze dell’Intesa dipendevano sempre più dal contributo statunitense allo sforzo bellico.

Il suo tentativo più audace per fermare il conflitto e indurre i capi delle potenze belligeranti a riunirsi intorno a un tavolo di pace fu tuttavia la Nota del 1º agosto 1917, una lettera comunemente ricordata per aver definito la guerra come «inutile strage».

In aggiunta, la sua imparzialità venne interpretata dalle varie fazioni come sostegno verso la parte avversa, mentre in Francia venne denunciato come “il papa crucco” (le pape boche), in Germania venne definito “il papa francese” (der französische Papst) e in Italia, addirittura, “Maledetto XV”».

In ogni caso, l’ostacolo più grande per il pontefice fu, a fronte della sua posizione di ferma condanna della guerra, l’adesione pressoché totale e incondizionata ad essa da parte dei cattolici e del clero dei vari paesi belligeranti.

In Francia si era realizzata un’union sacrée contro i tedeschi con la piena partecipazione dei cattolici e del clero allo sforzo bellico, dall’altra parte, in Germania, i cattolici indugiavano, dal loro consenso entusiastico alla guerra dipendeva la definitiva consacrazione del proprio ruolo nazionale.

Anche in Italia la grande maggioranza dei cattolici organizzati e la grande maggioranza dei vescovi, pur con diverse distinzioni e sfumature, aveva finito per aderire senza riserve alla guerra e tale adesione causò inevitabilmente una netta contrapposizione tra le varie chiese nazionali, che il papa ammise di non poter governare.

Così com’era da ricondurre a Dio l’origine del conflitto mondiale, anche la sua fine è riconosciuta da Benedetto XV come opera di Dio, tesi che viene esplicitata nell’enciclica Quod iam diu.

Al termine del conflitto il papa si adoperò per riorganizzare la Chiesa nel nuovo contesto mondiale, riallacciò le relazioni diplomatiche con la Francia con cui i rapporti si erano drasticamente deteriorati a causa della Legge di separazione tra Stato e Chiesa del 1905, anche grazie all’apprezzato gesto simbolico della canonizzazione di Giovanna d’Arco, e con altre nazioni; se all’inizio del papato Benedetto XV poteva contare su relazioni diplomatiche con 17 stati, sette anni dopo questi erano saliti a 27.

Una mattina del gennaio 1922, Benedetto XV celebrò la messa per le monache alla Domus Sanctae Marthae, e, una volta uscito dall’edificio, si espose al freddo e alla pioggia in attesa dell’arrivo del suo autista.

Il 5 gennaio il pontefice iniziò a manifestare i primi sintomi influenzali, e una settimana dopo, il 12 dello stesso mese, comparve una forte tosse e si presentava febbricitante, questi sintomi furono il preludio di una terribile broncopolmonite.

Le sue condizioni migliorarono leggermente verso la mezzanotte del 20 gennaio e lo stesso pontefice insistette sul fatto che i suoi assistenti medici si ritirassero per la notte, quando ormai sembrava che potesse riprendersi, alle 2:00 del 21 gennaio, gli fu data l’estrema unzione.

Nonostante ciò, a mezzogiorno iniziò a delirare e insistette per alzarsi per riprendere il suo lavoro, ma un’ora dopo cadde in coma.

Il dottor Cherubini annunciò la morte del pontefice alle 6:00, dopo la sua morte furono fatte sventolare bandiere a mezz’asta sugli edifici governativi: il gesto fu considerato un omaggio al papa che aveva contribuito al miglioramento delle relazioni tra la Santa Sede e lo Stato italiano.

Il suo corpo fu vestito degli abiti pontificali ed esposto ai fedeli prima di essere, dopo i solenni funerali, sepolto nelle Grotte Vaticane, di fronte alla tomba del suo predecessore Pio X.

Il 6 febbraio dello stesso anno papa Pio XI ne divenne il successore e fu il 259º vescovo di Roma e papa della Chiesa cattolica dal 1922 alla sua morte nel 1939, dal 7 giugno 1929 fu il primo sovrano del nuovo Stato della Città del Vaticano.

Ma questa, è un’altra storia.

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Carlo Mazzoli – Il Garibaldi d’altura

S:2 – Ep.42

Carlo Mazzoli è una persona qualunque.

Carlo era nato a Cesena, in Provincia di Forlì, il 31 agosto 1879 ed era il fiero ed irrequieto nipote di Felice Orsini, uno scrittore e rivoluzionario italiano, noto per aver causato una strage il 14 gennaio 1858, nel tentativo di assassinare l’imperatore francese Napoleone III.

Felice Orsini era un anticlericale e mazziniano convinto, fu un acceso sostenitore dell’indipendenza della sua terra d’origine, la Romagna, dal dominio dello Stato Pontificio, aveva gettato rudimentali ordigni esplosivi contro la carrozza di Napoleone III, i francesi lo arrestarono e ghigliottinarono il 13 marzo del 1858 e sua sorella era la madre del nostro Carlo Mazzoli che nel 1899 iniziava la vita militare come allievo sergente, diventerà caporale, poi caporal maggiore, quindi Sergente nel 1901 per il Regio Esercito Italiano.

Farà anche il furiere prima di diventare allievo alla Scuola Militare, le sue parole fin da subito furono chiare su ciò che voleva diventare: “A ventidue anni mi sono dato all’Italia. Vivo di essa e per essa, indifferente a tutte le gioie ed a tutti i dolori della vita”.

Al termine del corso con il grado di Sottotenente venne assegnato, nel settembre 1905, in servizio di prima nomina nei Granatieri e, pochi mesi dopo, transitò negli Alpini assegnato al Battaglione “Edolo” del 5° Reggimento Alpini.

Con questo reparto partecipò dall’ottobre 1911, come Tenente fresco di nomina, alla campagna di Libia dove si distinse nei combattimenti di Derna Ridotta Lombardia dell’11 e 12 febbraio 1912 guadagnando subito una prima medaglia d’argento, ed in quelli successivi del 17 settembre in località “Rudero” e dell’8-10 ottobre a Bu Msafer, guadagnando due medaglie di bronzo trasformate poi in Argento.

Forti nuclei turco-arabi attaccarono un battaglione del 35º Reggimento fanteria italiano inviato con compiti di sorveglianza nei dintorni della ridotta “Lombardia” dislocato nei pressi della testata del Bu Msafer; dopo un breve combattimento il battaglione riuscì a scacciare gli assalitori con ripetuti assalti alla baionetta.

Ma l’azione nemica non fu solitaria, nella stessa mattinata, verso le 11:00, le truppe turco-arabe con forze considerevoli, stimate in circa 10.000 uomini, ripresero l’offensiva tentando di accerchiare il battaglione: il tentativo fu vanificato dal pronto accorrere dei soccorsi provenienti da Derna, costituiti da un altro battaglione del 35º e da uno del 26º e dal battaglione alpini “Edolo” con il nostro Carlo Mazzoli rinforzato con elementi dei battaglioni alpini “Ivrea” e “Verona” e da una batteria da montagna.

Le forze sopraggiunte, attaccando sulla sinistra, riuscirono prima a respingere e poi a far retrocedere le forze rivali che si attestarono combattendo in un vallone situato nella zona dell’Uadi Msafer dove si organizzarono a difesa, le perdite da parte italiana furono di 8 ufficiali morti e 57 uomini di truppa, feriti 13 ufficiali e 164 soldati, ma la stima delle perdite da parte turca si aggirò su circa 800 uomini.

Con la conclusione della guerra italo-turca, dal gennaio 1913 venne inviato in Albania quale componente della commissione internazionale per la riorganizzazione di quello Stato, ma visto l’imminente ingresso nella prima guerra mondiale dell’Italia, fu richiamato in patria nel gennaio 1915, venne promosso Capitano e transitò nell’8° Rgt. Alpini.

La grande guerra iniziò e gli venne affidato il comando della 97ª compagnia del Btg. “Gemona”, la “compagnia dei Briganti” e venne inviato a presidiare la Val Dogna in Carnia, il motto della 97ª era “Mai daùr”, “Mai indietro” e motto più azzeccato per Carlo Mazzoli non esisteva.

Prestante nel fisico, al pari degli alpini friulani che componevano quasi esclusivamente la compagnia, aveva un forte ascendente sui suoi uomini che guidava nelle varie azioni ponendosi sempre alla testa, ai soldati piaceva anche la sua spregiudicatezza e l’anticonformismo, per esempio, attribuiva il soldo e le licenze in base al merito effettivo e non al diritto formale.

Spesso li comandava in pattuglia di notte nelle retrovie per razziare legname o altro materiale al comando del proprio Genio italiano, “sordo” alle richieste del loro fabbisogno, non mancarono giovani ufficiali subalterni che abbreviarono la licenza a casa per tornare al fronte al suo fianco.

Per il suo aspetto decisamente anticonformista, portava i capelli lunghi fino alle spalle e una folta barba, fu presto soprannominato il Garibaldi della Val Dogne, lui raccontava di essere stato autorizzato dal Re in persona a portarli e nessuno sentì mai la necessità di smentirlo o di controllare se quello che dicesse fosse realmente vero.

Usava i suoi lunghi capelli per cercare di nascondere le cicatrici che portava come ricordo delle battaglie fatte in Libia, altra sua caratteristica era quella di attorniarsi di grossi cani che personalmente addestrava a varie mansioni e che conduceva all’attacco.

Determinante il suo apporto per la scaltrezza ed impiego tattico della compagnia nella battaglia del 18 e 19 ottobre che portò alla conquista del Mittagskofel, in quell’occasione una bomba lo abbatté procurandogli ben tredici ferite, subito lo dettero per morto, ma aveva la pelle dura e si salvò.

Raccolto con delle coperte dai suoi e portato al vicino ospedale da campo, dopo tre mesi, contro ogni più rosea previsione, fu di nuovo in piedi e venne promosso al grado di Maggiore per meriti di guerra.

La promozione però, con suo grande rammarico, lo allontanò dagli alpini in quanto destinato al comando di un battaglione di fanteria della Brigata Cuneo, comandata a sua volta dal colonnello BADOGLIO, teatro di battaglia furono le quote di Selz a Gorizia.

L’offensiva porterà all’occupazione di parte di una trincea nemica dislocata in prossimità del valloncello di Selz, vicino all’attuale Ronchi dei Legionari sul fronte carsico, un’azione durante la quale il reggimento perderà 250 uomini, 19 di questi erano ufficiali.

Anche qui si distinse per l’audacia ed i vittoriosi risultati e fu decorato con un’altra medaglia d’argento, i comandi austriaci che cercarono caparbiamente con ripetuti attacchi di riconquistare le posizioni perdute, sempre tenacemente respinti, lo soprannominarono “il diavolo” e posero una taglia per la sua cattura.

Verrà poi chiamato il 1 Febbraio 1917 dal Generale Barco, suo Comandante in Libia, a comandare il battaglione “Val d’Orco” del 4° Rgt. Alpini, doveva ricostituire lo spirito del Battaglione fortemente provato dai combattimenti della zona del Monte Nero, cima duramente conquistata il 16 giugno 1915 ma ripetutamente sotto attacco nemico per la riconquista.

Assegnato alla difesa di Val Zebrù a Capanna Milano (m. 2877) si rese ben presto protagonista di quella “guerra bianca” d’alta quota che lo vide quale principale stratega nei successivi venti mesi di guerra.

Resosi subito conto di essere si alpino ma non alpinista, nel senso tecnico della definizione che comprende anche la necessità legata al teatro di battaglia, affrontò subito un duro addestramento con gli scalatori arditi di Val Zebrù.

Per risparmiare estenuanti fatiche ai suoi alpini organizzò per primo una “corvè” di asini per il traino di slitte con viveri e munizioni, ben presto però furono sostituiti con migliori risultati dai suoi grossi cani che personalmente addestrava.

Questa sua idea, raccolta dallo Stato Maggiore dell’Esercito, portò ad istituire un “reclutamento” di cani da slitta inviati prima presso i canili militari per l’addestramento, il più importante era a Bologna, quindi assegnati ai reparti alpini “cagnari”.

Nel maggio 1917 dopo accurato studio e preparazione, si rese protagonista dell’azione di conquista della quota a m. 3800 di cima Königspitze, a pochi metri dagli austriaci, quota che rimane la più alta occupazione dell’esercito italiano raggiunta per “via ordinaria”.

Ai primi di settembre guidò la riconquista della strategica quota 3555 di Punta Trafoier, strappata agli alpini qualche giorno prima, con lo stratagemma usato dal nemico di una galleria di circa 1400 metri scavata nel ghiaccio.

Sorpreso dal metodo insidioso e nuovo usato dall’oppositore, decise subito per il contrattacco, scegliendo però lo scontro diretto frontale, l’azione riuscì e molti furono i decorati, escluso il comandante.

Promosso Tenente Colonnello nel gennaio 1918, si rese ancora protagonista di altre impegnative azioni per la conquista definitiva dell’intero gruppo Ortles, Zebrù, Cevedale, San Matteo.

Con la conclusione della guerra e la resa austriaca del 4 novembre 1918, venne nominato nella Commissione istituita per definire i nuovi confini dell’Italia e nel 1920, conclusi i lavori della Commissione italo-austriaca, venne assegnato in servizio al Comando del 2° Rgt. Alpini.

Insofferente alla vita di caserma, amante com’era degli spazi aperti, pochi mesi dopo chiese ed ottenne di partire per la Cirenaica con l’incarico di consulente militare.

Si sposerà con Rimpatrio nel 1926 per fine missione, al termine della licenza però, chiese di ritornare ancora in colonia dove assunse il comando di un reparto di polizia militare con compiti di scorta armata alle carovane dei coloni italiani.

Ma dalla inquieta Cirenaica il 10 giugno 1928, una lunga lettera del Cappellano militare padre Ezechiele Frambrosi inviata a Cesena a don Giuseppe Mazzoli, allora parroco di San Rocco, chiudeva con questa affermazione: “Si consoli, Rev.mo Signore, il colonnello Mazzoli è in Paradiso“.

Un’affermazione cristianamente importante che leniva un grande dolore per una notizia drammatica, giunta improvvisa da quel lontano lembo d’Africa, Carlo, il fratello maggiore del sacerdote, di appena 49 anni, era deceduto nell’ospedale di Bengasi per un’infezione da tifo contratta per aver bevuto acqua inquinata in un’oasi del Fezzan.

La salma riportata in Italia ed onorata con solenni funerali alla presenza delle massime autorità cittadine e reparti in armi, venne tumulata nel cimitero di Cesena.

Sul fronte delle più alte vette delle nostre Alpi dove eccelsero i suoi valori di uomo e di soldato, la eco del colonnello Carlo Mazzoli tramandata come leggenda, é ancor viva oggi dopo oltre un secolo trascorso, in quelle popolazioni d’altitudine dove il vento delle grandi montagne che sovrastano, lambendo altissime cime innevate, creste vertiginose, pareti inaccessibili, oscure forre e ghiacciai, continua a spolverare memorie su memorie di eroismi e di umanità profonda.

Ma questa, è un’altra storia.

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Pompeo Aloisi – Il colpo di Zurigo

S:2 – Ep.41

Pompeo Aloisi è una persona qualunque.

Nato a Roma il 6 novembre 1875 da Paolo e Irène, nata contessa de Belloy, Pompeo Aloisi appartiene ad una di quelle antiche famiglie che gravitano attorno alla Curia Romana, se i fratelli maggiori raggiunsero l’esercito, Pompeo invece si destina in un primo tempo alla marina come addetto navale all’ambasciata di Parigi dove farà il suo ingresso nel mondo diplomatico e dove svolgerà una carriera delle più brillanti per oltre trent’anni.

Nel 1899 Aloisi sposa Maria Federiga de Larderel, discendente di François Jacques de Larderel, un ingegnere e imprenditore francese che promosse lo sfruttamento industriale dei soffioni boraciferi della Toscana e cognata del principe Piero Ginori Conti, un nobile, imprenditore e politico italiano che fu il primo al mondo a sfruttare l’energia geotermica per la produzione industriale di corrente elettrica.

Pompeo, dopo essere uscito primo al concorso di diplomazia nel 1902, venne mandato di nuovo a Parigi, dove vede nascere nel 1907 l’unico figlio che ebbe, Folco, destinato in futuro a seguire le orme del padre, ed infatti diventerà una tradizione di famiglia avverata tutt’oggi nella persona di Francesco Aloisi de Larderel, un tempo ambasciatore d’Italia in Egitto.

Ma torniamo alla grande guerra, più precisamente al 27 settembre 1915, la prima guerra mondiale è cominciata da quattro mesi, la Regia marina italiana costringe la flotta imperiale austriaca alla fonda nei porti dell’Adriatico.

Nel mare di Brindisi si staglia la figura della corazzata Benedetto Brin, l’ammiraglia della flotta italiana, alle otto un’esplosione tremenda squassa la nave che viene avvolta da una coltre di fumo giallo e rossastro alta cento metri, metà dell’equipaggio rimane ucciso nella tragedia, 21 ufficiali e 433 tra sottufficiali e marinai.

Il 2 agosto 1916 la nave da battaglia Leonardo da Vinci, altro fiore all’occhiello italiano, è scossa anch’essa da un’esplosione, seguita da altre che la faranno a pezzi, anche qui una tragedia, muoiono 249 marinai e 21 ufficiali.

Questi sono i colpi più eclatanti dei servizi segreti austriaci e tedeschi in territorio italiano che uccideranno più di 1.000 militari, i cui sabotatori riescono anche a distruggere una intera calata del porto a Genova, un hangar di dirigibili ad Ancona, il piroscafo Etruria a Livorno e un’intera fabbrica, il dinamitificio di Cengio sopra a Savona e subisce gravi danni anche la centrale idroelettrica di Terni, ma l’evento più devastante è l’esplosione di un carro ferroviario carico di proiettili navali vicino alla Spezia, dove muoiono altre 265 persone.

Aloisi, promosso capo dei servizi segreti della marina durante la Prima Guerra mondiale, si distinguerà nell’occasione del famoso colpo di Zurigo; nonostante inizialmente lo stato italiano tentò di far passare questi eventi come sfortunate casualità, anche se si trattava chiaramente di sabotaggi e di spionaggio nemico, la Regia Marina si mise all’opera con il proprio controspionaggio che scoprì una fitta rete di spie che facevano capo al capitano di corvetta austriaco Rudolph Mayer.

Poco più di un secolo fa si compiva una epica missione di agenti segreti della Marina italiana, chiamata, per l’appunto, il “Colpo di Zurigo”, tutto iniziò quando un uomo, italiano, venne arrestato dai carabinieri mentre stava piazzando una potente carica di dinamite sotto la diga del bacino idroelettrico delle Marmore Alte, presso Terni, si intuì che gli austriaci avevano iniziato a fare leva su nostri concittadini disposti a tradire per denaro la propria patria.

Dagli interrogatori dei sabotatori arrestati, e dalle confidenze e dalle notizie fornite dagli informatori, il servizio informazioni italiani capì che il centro organizzativo dell’azione terroristica si trovava in Svizzera, a Zurigo, nella sede del consolato austriaco.

Rudolph Mayer, console austriaco, Capitano di Corvetta della Imperial Regia Marina di Vienna, comprava uomini, soprattutto italiani, con listini da star ed una disponibilità economica quasi illimitata.

Fu inviato un ufficiale italiano, Pompeo Aloisi a Zurigo, studiò la situazione, fece sorvegliare la palazzina del consolato austriaco ed intanto organizzava un piano, ma non poteva fare tutto da solo, aveva bisogno di un gruppo di uomini.

Il piano che preparava, oggigiorno sarebbe da film, entrare nell’ufficio di Mayer, aprire la cassaforte, portar via i progetti dei sabotaggi e le cartelle dei sabotatori e far saltare l’intera organizzazione, ma doveva essere fatto senza nessuna copertura ufficiale del governo e della Marina.

Si preparò il gruppo di uomini: il primo fu il tenente Ugo Cappelletti, inviato sotto copertura diplomatica, subito a Zurigo; giunto nella città elvetica Ugo Cappelletti cominciò a frequentare il locale di un marchigiano anarchico, che aveva conosciuto a Vienna quando studiava all’università e con il quale era rimasto in contatto.

Il padrone presentò a Cappelletti un cliente che non veniva spesso ma sembrava bene informato: l’avvocato Livio Bini, che divenne il secondo uomo del gruppo.

Fu in questo modo che Bini, astuto e opportunista, a seguito di una denuncia ai suoi fiduciari che vennero arrestati dal Reparto Informazioni della Regia Marina, gli tornò utile collaborare per uscirne ricco e pulito, Bini conosceva Mayer e faceva il doppio gioco.

Mayer reperiva informazioni da Bini e a sua volta, l’ufficiale austro-ungarico, continuò a fornirne, non sapendo che collaborava col Servizio italiano ma continuando a tenere sul proprio libro paga l’avvocato fiorentino che aveva in cambio il vantaggio di essere pagato da due parti.

Il terzo componente della squadra fu un ingegnere triestino, ottimo agente segreto: Salvatore Bonnes , irredento, volontario di guerra ed ingegnere del genio navale, conoscitore della lingua tedesca che venne nominato addetto commerciale alla legazione italiana di Berna.

Infine, gli “uomini di mano”: l’esperto tecnico Stenos Tanzini di Lodi, sottufficiale di marina, specialista torpediniere transitato nel servizio informazioni che fornì a Bronzin importanti indicazioni circa le abitudini e gli orari di sorveglianza del guardiano della palazzina obiettivo; e Remigio Bronzin, irredento triestino, alias “Remigio Franzioni (o Brausin)”, era un operaio della ditta Stigler di Milano che fabbricava ascensori, esperto di serrature, disposto a combattere l’Austria con ogni mezzo e che accettò senza chiedere nulla in cambio.

Ma il reclutamento più bizzarro fu quello dell’ultimo uomo, Natale Papini, era di Livorno e andarono a pescarlo in carcere dove si trova per avere svaligiato una banca di Viareggio, era uno specialista nell’aprire casseforti, la sua paga?

Libero in caso di esito positivo dell’azione.

L’avvocato Bini suggerì il luogo in cui si trovava la cassaforte, ma avvertì anche che bisogna passare attraverso sedici porte, di ognuna delle quali occorreva possederne la chiave, ma il doppiogiochista fiorentino ne fornì anche le impronte.

Fatte le copie delle chiavi, il gruppo decise che si sarebbe tentato la notte del 22 febbraio 1917, perché era Carnevale e in quell’occasione la sorveglianza della polizia sarebbe stata allentata e così gli uomini del commando arrivarono nella palazzina, superarono le sedici porte, ma…ne trovarono, inaspettatamente, una diciassettesima chiusa, la missione fallì al primo tentativo.

Compiendo autentici miracoli, l’agente doppiogiochista Bini riuscì a fornire anche lo stampo della diciassettesima porta a tempo di record, se ne fabbricò la chiave e si decise di ritentare nella notte del 24, sabato grasso.

Al secondo tentativo, dopo diciassette porte, arrivarono finalmente nell’ufficio del console, dove si trovava la cassaforte, si era calcolato un’ora di lavoro con la fiamma ossidrica ma ce ne vollero più di quattro.

Finalmente riuscirono a mettere le mani sul bottino: documenti, codici di cifratura, l’elenco completo delle spie austriache in Italia, il numero dei conti correnti dove venivano depositate le somme pagate per i sabotaggi, i piani per i futuri attentati, una grossa somma di denaro, gioielli e una preziosa collezione di francobolli, subito tutti depositati presso il ministero della Marina a Roma.

Il gruppo di assaltatori fuggì con il materiale e riuscì a ritornare rapidamente in Italia, il “colpo di Zurigo”, difficilissimo nell’esecuzione, era stato di eccezionale portata.

Seguirono varie operazioni congiunte, arrivarono retate, processi senza grandi risultati, alcuni documenti interessanti vennero persi o distrutti, personaggi conniventi rimasero nell’ombra e la verità non giunse mai a galla del tutto e ogni cosa finì, purtroppo, in un insabbiamento generale.

Un anno dopo la guerra finì ma Pompeo Aloisi, dopo essersi guadagnato il titolo di barone il 15 agosto 1919 per i servizi resi alla patria, tornò ad una carriera diplomatica di alto livello che culminò nel 1932, quando venne chiamato da Benito Mussolini, che aveva assunto a titolo momentaneo il ministero degli Esteri, come suo capo di gabinetto.

Inviato successivamente quale ministro plenipotenziario a Copenaghen, Bucarest e Tokyo, occupò l’ultimo mandato ad Ankara, prima di sostituire Dino Grandi a palazzo Chigi.

Dal 1932 al 1936, il barone Aloisi partecipò allo sviluppo dell’amicizia italo-tedesca ed all’estensione dell’impero italiano attraverso le varie conferenze internazionali sull’Etiopia e la Saar, che porteranno ineluttabilmente l’Italia alla rottura con Francia e Inghilterra, nonostante la spontanea simpatia nutrita che il barone, per metà francese e sposato con una discendente di Francesi, aveva nei confronti di entrambi questi paesi, così come del resto lo erano tutti i diplomatici della vecchia scuola.

Venne sostituito il 9 giugno 1936 da Galeazzo Ciano al ministero degli Esteri ma venne nominato senatore nel ‘39 e non rivestì più alcun incarico pubblico se non quello di comandante di un settore della difesa costiera durante la Seconda Guerra mondiale.

Assolto da ogni accusa di collaborazionismo durante i giudizi di epurazione dal fascismo, morì a Roma il 15 gennaio 1949.

Pur non negandone l’implicazione profonda nel regime fascista, occorre sottolineare l’importanza e la qualità dell’attività diplomatica di Pompeo Aloisi: uomo asciutto e privo di retorica, riuscì con il suo tatto ed il suo fascino personale ad avviare l’Italia verso una posizione internazionale, facendone, anche se col sacrificio dell’amicizia con l’Inghilterra e la Francia, una vera potenza almeno fino al 1940.

Ma questa, è un’altra storia.

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Natale Palli – Il volo su Vienna

S:2 – Ep.40

Natale Palli è una persona qualunque.

Discendente della famiglia ticinese dei Palli del paese di Pura, al confine con l’Italia sul lago di Lugano, nacque a Casale Monferrato il 24 luglio 1895 e compì gli studi primari e secondari presso le scuole della città natale, iniziando poi a frequentare il corso di Ingegneria presso il Politecnico di Milano.

Arruolatosi giovanissimo nel Regio Esercito, volontario in un reggimento di fanteria di stanza nella città lombarda nel corso del 1914, con ferma annuale, l’entrata in guerra del Regno d’Italia, avvenuta il 24 maggio 1915, lo trovò con il grado di sergente.

Nel mese di luglio fu promosso al grado di sottotenente di complemento, ma, rimasto affascinato dal mondo dell’aviazione, chiese, ed ottenne, di essere assegnato al Corpo Aeronautico Militare, conseguendo il brevetto di pilota militare il 15 ottobre 1915 sul campo d’aviazione di Cameri a Novara.

Il 27 ottobre venne inviato in zona d’operazioni, assegnato alla 2ª Squadriglia di aviazione per l’artiglieria di base a Pordenone, e nel marzo 1916 fu trasferito alla 5ª Squadriglia per l’artiglieria operante nel settore che andava da Plava a Tolmino, eseguendo missioni di ricognizione anche su Trieste.

Nel settembre successivo fu trasferito alla 48ª Squadriglia di base a Belluno e nel mese di novembre fu decorato con la medaglia di bronzo al valor militare dal generale Mario Nicolis di Robilant, comandante della 4ª Armata.

Il 24 aprile 1917 fu decorato con una prima medaglia d’argento al valor militare per una rischiosa missione di ricognizione sul Tirolo e nell’agosto dello stesso anno venne mandato sul campo d’aviazione della Malpensa, dove conseguì l’abilitazione al pilotaggio del nuovo velivolo Ansaldo S.V.A., per essere quindi assegnato alla fine di ottobre alla 1ª Sezione SVA, aggregata alla 75ª Squadriglia Caccia destinata alla difesa di Verona.

Nel novembre successivo entrò in servizio presso la 75ª Squadriglia da caccia di stanza a Castenedolo; in dicembre fu trasferito alla 72ª Squadriglia Caccia e nel gennaio 1918 alla 71ª Squadriglia Caccia di Sovizzo.

Promosso capitano il 3 febbraio 1918, tre giorni dopo venne decorato con la Croix de guerre dal re del Belgio Alberto I, ma non finisce qui, per una ricognizione su Innsbruck, effettuata il 20 febbraio fu decorato con una seconda medaglia d’argento e, verso la fine del mese successivo, venne mandato presso la 103ª Squadriglia di stanza sul campo d’aviazione di San Vito dei Normanni, in provincia di Brindisi, per effettuare alcune missioni sul basso Adriatico che gli valsero la concessione della terza medaglia d’argento al valor militare.

Passato in forza alla 87ª Squadriglia “Serenissima” di stanza all’aeroporto di San Pelagio, prese parte al volo su Vienna insieme al maggiore Gabriele D’Annunzio e per questo fatto venne insignito della Croce di Cavaliere dell’Ordine militare di Savoia.

Il volo era in progettazione da tempo da parte del Comando supremo militare italiano, su indicazione di Ugo Ojetti, giornalista e scrittore nonché comandante della sezione propaganda del Comando supremo.

D’Annunzio aveva proposto in passato un’operazione simile, ma le sue idee non erano state approvate; saputo però dell’iniziativa, cercò di prendervi parte anche se come semplice passeggero, in quanto era sprovvisto del brevetto di volo.

Inizialmente approvata, la sua partecipazione divenne in forse a causa della perdita del SVA9 da addestramento biposto, ma un secondo velivolo fu approntato in tempo da Giuseppe Brezzi, modificando il serbatoio del carburante a forma di sedile, ribattezzato macabramente “la seggiola incendiaria”.

Lo SVA modificato, pilotato dal capitano Natale Palli, poteva così prendere parte al “folle volo”, giunse così l’autorizzazione necessaria all’impresa.

Un primo tentativo venne compiuto il 2 agosto, ma a causa della nebbia incontrata sulle Alpi e in Pianura Padana i tredici apparecchi che vi parteciparono dovettero rinunciare; sette velivoli riuscirono a ritornare alla base, mentre altri furono costretti ad atterrare in campi diversi e tre aerei risultarono perfino inutilizzabili.

Un secondo tentativo si ebbe l’8 agosto, ma il vento contrario mandò a monte l’impresa anche questa volta e dopo questi due fallimenti, il progetto dannunziano rischiò seriamente di esser rimandato in un futuro indeterminato e in ogni caso molto lontano; D’Annunzio, tuttavia riuscì a ottenere che il volo si effettuasse il giorno successivo, anche per sfruttare al massimo l’«effetto sorpresa», già parzialmente compromesso avendo il tenente Censi gettato un ingente carico di volantini in territorio austriaco per alleggerire il velivolo.

Finalmente, alle 5:30 del 9 agosto dal Campo di Aviazione di San Pelagio nel comune di Due Carrare (PD), partirono gli undici apparecchi, dieci SVA monoposto e uno SVA modificato a due posti, guidato dal capitano Palli, nel quale si trovava D’Annunzio.

Pochi minuti dopo la partenza, il capitano Alberto Masprone fu costretto da un’avaria a un atterraggio di fortuna, nel quale il velivolo fu danneggiato e Masprone si ruppe la mandibola.

Il tenente Vincenzo Contratti e il sottotenente Francesco Ferrarin dovettero a loro volta riportare indietro gli aerei a causa di un irregolare funzionamento del motore e il tenente Giuseppe Sarti, infine, fu costretto ad atterrare per un arresto del motore, posandosi sul campo di Wiener Neustadt e incendiando il velivolo prima di essere preso prigioniero da ufficiali austriaci.

Gli otto aerei superstiti proseguirono il proprio volo verso la capitale austriaca, organizzati a cuneo e guidati dai seguenti piloti: il capitano Natale Palli e Gabriele D’Annunzio; il tenente Ludovico Censi; il tenente Aldo Finzi; il tenente Giordano Bruno Granzarolo; il tenente Antonio Locatelli; il tenente Pietro Massoni; il sottotenente Girolamo Allegri detto «Fra’ Ginepro» per la folta barba.

Dopo aver sorvolato la valle della Drava, i monti della Carinzia e infine le città di Reichenfels, Kapfenberg e Neuberg senza incontrare nessun ostacolo da parte dell’aviazione austriaca, solo due caccia austriaci che avevano avvistato la formazione e che si affrettarono ad atterrare per avvertire il comando, ma non furono creduti, e dopo aver superato formazioni temporalesche, la squadra italiana giunse su Vienna in gruppo compatto alle 9:20, mentre nelle strade e piazze sottostanti si stava verificando un grande concorso di folla, impaurita della presenza degli aeromobili e dall’eventualità di un bombardamento aereo.

Grazie alla limpidezza del cielo, lo stormo poté abbassarsi a una quota inferiore agli 800 metri e lanciare i manifesti, anche se quelli di D’Annunzio furono preparati solo in 50 000 copie e solo in italiano a causa del tono pomposo giudicato inefficace.

Il testo di D’Annunzio venne giudicato mancante di efficacia, nonché impossibile da rendere correttamente in tedesco, da Ferdinando Martini, per questo, contrariamente a quanto a volte si crede, il principale manifesto lanciato in 350 000 copie non fu quindi quello di D’Annunzio bensì quello redatto da Ugo Ojetti, che fu tradotto in tedesco per essere compreso dalla popolazione di Vienna:

VIENNESI! Imparate a conoscere gli italiani. Noi voliamo su Vienna, potremmo lanciare bombe a tonnellate. Non vi lanciamo che un saluto a tre colori: i tre colori della libertà. Noi italiani non facciamo la guerra ai bambini, ai vecchi, alle donne. Noi facciamo la guerra al vostro governo nemico delle libertà nazionali, al vostro cieco testardo crudele governo che non sa darvi né pace né pane, e vi nutre d’odio e d’illusioni.
VIENNESI! Voi avete fama di essere intelligenti. Ma perché vi siete messi l’uniforme prussiana? Ormai, lo vedete, tutto il mondo s’è volto contro di voi. Volete continuare la guerra? Continuatela, è il vostro suicidio. Che sperate? La vittoria decisiva promessavi dai generali prussiani? La loro vittoria decisiva è come il pane dell’Ucraina: si muore aspettandola.
POPOLO DI VIENNA, pensa ai tuoi casi. Svegliati! VIVA LA LIBERTÀ! VIVA L’ITALIA! VIVA L’INTESA!

Dopo aver sganciato i manifestini lo stormo prese la via del ritorno, scegliendo un percorso diverso da quello intrapreso all’andata per scongiurare il verificarsi di attacchi della contraerea e dopo aver valicato le Alpi, la formazione aerea sorvolò Lubiana, Trieste e Venezia, dove D’Annunzio scelse di far cadere un messaggio augurale per comunicare all’ammiraglio e al sindaco il felice esito dell’impresa; alle 12:40, infine, gli aerei rientrarono al campo di San Pelagio dopo aver percorso in sette ore e dieci minuti mille chilometri, di cui ottocento su territorio austriaco, a sfida di ogni avversità balistica e aerea.

Il volo su Vienna, pur essendo stato militarmente inoffensivo, ebbe una vastissima eco morale, psicologica e propagandistica sia in Italia sia all’estero, e compromise sensibilmente l’opinione pubblica dell’Impero asburgico.

La stessa stampa austriaca accolse favorevolmente l’«incursione inerme», così fu definita, degli aerei italiani a Vienna: analogamente, il Frankfurter Zeitung condusse una critica aspra e virulenta «non contro gl’Italiani, ma contro le autorità, a cui i Viennesi devono gratitudine per la visita degli aviatori.

Non occorre dire quale catastrofe poteva accadere se, invece di proclami, avessero gettato bombe e ancora oggi non si comprende come abbiano varcato centinaia di chilometri senza essere avvistati dalle stazioni di osservazione austriache».

Natale Palli fu poi trasferito per qualche tempo sul fronte francese sempre insieme con D’Annunzio, compì insieme al Vate un’ardita ricognizione su Lienz.

A cannoni fermi, il 20 marzo del 1919 dopo il termine della prima guerra mondiale, durante il raid Padova-Parigi-Roma, tentato insieme all’amico Francesco Ferrarin, altro componente che tentò il “folle volo” dannunziano, per un guasto al velivolo fu costretto ad atterrare sul Mont Pourri, nei pressi di Sainte-Foy, dove morì assiderato.

La sua salma fu trasportata a Casale Monferrato dove, il 27 marzo 1919, gli furono tributate solenni onoranze funebri alla presenza di un’immensa folla, di Gabriele D’Annunzio e dei piloti della “Serenissima”, con la sola eccezione di Antonio Locatelli che si trovava in Argentina.

Ma questa, è un’altra storia.

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Giovanni Agnelli – FIAT

S:2 – Ep.39

Giovanni Agnelli è una persona qualunque.

Figlio di Edoardo Agnelli e di Aniceta Frisetti, fu il capostipite della notissima famiglia di imprenditori torinesi, era il nonno del più contemporaneo Gianni Agnelli.

Giovanni Francesco Luigi Edoardo Aniceto Lorenzo nacque il 13 agosto 1866 in una famiglia di proprietari terrieri, tra le mura della casa appartenente al nonno, nel comune piemontese di Villar Perosa; venne iscritto da bambino al collegio San Giuseppe e frequentò poi il ginnasio di Pinerolo, completando gli studi classici a Torino.

In seguito venne avviato alla carriera militare presso l’Accademia militare di Modena, dove conseguì il grado di ufficiale di cavalleria di prim’ordine nel Nizza Cavalleria, ma ben presto avvertì un crescente disinteresse per la vita militare, era infatti attirato dai progressi tecnologici, che a poco a poco, grazie anche alla diffusione delle idee positiviste nell’Europa della Belle Époque, alimentate dai progressi della rivoluzione industriale di matrice anglosassone, stimolavano in lui il desiderio d’intraprendere una carriera dedita interamente alla produzione di nuovi mezzi tecnologici.

Nel 1889 sposò Clara Boselli e dal matrimonio nacquero due figli: Aniceta Caterina che sposerà poi il barone Carlo Nasi ed Edoardo che sposerà Donna Virginia Bourbon del Monte, dei principi di San Faustino.

Abbandonata la carriera militare nel 1893, sviluppò un vivo interesse per la meccanica, che lo portò, senza grossi risultati, ad alcuni tentativi imprenditoriali nel campo e lasciato l’esercito, tornò a Villar Perosa con l’intenzione di dedicarsi all’attività di famiglia, l’agricoltura.

Per breve tempo divenne commerciante di legnami e sementi, a Torino, dove poi si trasferì, frequentava assiduamente il caffè di madame Burello, dove conobbe alcuni aristocratici appassionati di meccanica e di automobilismo.

Nel 1896 entrò come socio di capitale nelle Officine Storero, che a Torino costruivano biciclette, per le quali concluse un contratto d’importazione in esclusiva dei tricicli Prunelle, dotati di motore a scoppio De Dion-Bouton.

L’11 luglio 1899 fondò, insieme ad alcuni investitori molto noti nel campo automobilistico, la Fabbrica Italiana Automobili Torino, conosciuta poi semplicemente come FIAT.

L’azienda ebbe fin dall’inizio un rapido sviluppo, grazie soprattutto all’amicizia che l’imprenditore condivideva con Giovanni Giolitti (cinque volte primo ministro italiano); fra il 1902 e il 1906 la produzione annua della Fiat passò da 73 a 1.097 vetture, con una crescita media del 72%.

I risultati economici superano le aspettative e nel 1906 la prima società Fiat viene liquidata e ricostituita con un capitale di nove milioni e un oggetto sociale molto ampio, che incluse, oltre alle automobili, i trasporti ferroviari, i mezzi di navigazione e gli aeroplani.

Agnelli risultava il maggiore azionista della società, nel 1908 avviò la produzione della “Tipo 1 Fiacre”, prima automobile pensata come taxi e successivamente progettò la “Fiat Zero”, anche se il vero successo arrivò con la prima guerra mondiale.

Fu il primo in Italia ad avviare la produzione di mitragliatrici e raggiunse subito un’alta specializzazione anche nel campo degli esplosivi, degli apparati per sottomarini, nell’artiglieria e nei motori navali nonché nel settore aeronautico.

La Fiat-Revelli Mod.1914 è stata una mitragliatrice media, adottata dal Regio Esercito italiano nella prima guerra mondiale, fu in assoluto l’arma automatica più usata nella Grande Guerra.

Il progetto dell’arma risale al 1910 quando Abiel Revelli decise di modificare la mitragliatrice Perino Mod. 1908 oramai obsoleta, il prototipo fu presentato ad un bando indetto dal Regio Esercito, che però fu vinto dalla Maxim.

Dalla modifica della Fiat-Revelli Mod. 1914, alla luce delle nuove dottrine operative, si andavano evidenziando i limiti di questa arma, legati soprattutto al peso eccessivo del raffreddamento ad acqua ed al sistema di alimentazione poco affidabile.

Non di meno, il calibro da 6,5 × 52 mm, pur garantendo la standardizzazione con quello dei fucili Carcano Mod. 91, con ovvie ricadute positive sulla catena degli approvvigionamenti, si dimostrava però troppo poco prestante sui nuovi e dinamici campi di battaglia.

Il Regio Esercito, mentre quindi avviava l’acquisizione della nuova Breda Mod. 37 in calibro 8 × 59 mm RB Breda, pensò di sfruttare le numerosissime Mod. 14 ancora disponibili riconvertendole al nuovo calibro e modificandone gli aspetti che avevano mostrato le maggiori criticità.

Non solo la Revelli fu prodotta dalla Fiat, anche la Villar Perosa, denominazione ufficiale FIAT Mod. 1915, è stato un mitra progettato in Italia nel 1914 ed utilizzato nella prima guerra mondiale, fu continuamente rimaneggiata nel corso del conflitto ma costituì l’arma principale degli Arditi.

Nel giugno 1913 a Nettuno lo Stato Maggiore dell’Esercito testò di nuovo l’arma ritenendola stavolta rispondente ai requisiti; tuttavia il buon risultato non si concretizzò in un ordine a causa dell’inconveniente di dover addestrare i mitraglieri su due modelli diversi.

Ma a causa del ritardo nelle consegne delle 920 Maxim ordinate (delle quali solo 609 consegnate), nel novembre 1914 lo Stato Maggiore dell’esercito rivalutò per la terza volta la mitragliatrice Fiat, che venne finalmente ordinata.

Il principale terreno d’espansione fu comunque quello degli autotrasporti, alla Fiat fu dovuta in misura determinante la creazione ex novo e il successivo potenziamento del parco automobilistico per i servizi generali e per il trasporto delle artiglierie e delle truppe di fanteria e cavalleria.

Così come gli autocarri 15bis e 15ter avevano avuto una funzione cruciale nella campagna di Libia, il 18BL ne ebbe una importantissima negli spostamenti di truppe durante la grande guerra.

Nel 1909 il Regio Esercito richiese un autocarro leggero multiruolo, per trasporto di personale e materiali, la Fiat Veicoli Industriali progettò così il Fiat 15 che entrò in servizio nel 1911 e venne massicciamente impiegato nella Guerra italo-turca.

Nel 1911 entrò in produzione la versione Fiat 15 bis, detto anche Libia perché destinata all’impiego in questa colonia, sostituita nello stesso ruolo, nel 1913 dalla Fiat 15 ter, quest’ultima venne prodotta su licenza in 6.285 esemplari dalla russa AMO/ZIL, che lo denominò F-15.

Durante la prima guerra mondiale, alla sua produzione per le forze armate si affiancò quella del Fiat 18, sviluppato e prodotto a partire dal 1911, ma il vero successo per questo autocarro arrivò proprio durante la Grande Guerra, quando il modello Fiat 18BL divenne la spina dorsale della logistica italiana, specialmente durante le offensive del 1916.

L’esercito italiano aveva aperto le ostilità con 400 vetture e 3.400 autocarri, per lo più di produzione Fiat e al termine del conflitto, nonostante le ingenti perdite subìte, si trovava a disporre di 2.500 vetture e di 28.600 autocarri.

Fiat fabbricò tra il 1914 e il 1918 qualcosa come 71.000 autovetture, di cui circa 63.000 per conto non solo dell’amministrazione militare italiana, ma anche di quelle alleate, negli ultimi mesi di guerra giunse a fornire il 92 per cento della produzione nazionale di autocarri e l’80 per cento dei motori di aviazione.

Ci provò anche con i mezzi blindati, il Fiat 2000 Mod. 17 era un carro armato pesante costruito in Italia e adottato dal Regio Esercito durante la prima guerra mondiale, fu progettato dalla FIAT nel 1917 e venne prodotto in due soli esemplari, uno nel 1917 e uno nel 1918.

Fu il primo carro armato progettato e realizzato in Italia, e causa della sua corazzatura, la più spessa tra i carri coevi, con le sue 40 tonnellate fu il mezzo più pesante prodotto durante il primo conflitto mondiale, eccezione fatta per il mai ultimato tedesco K-Wagen da 120 tonnellate.

Oltre che per il peso, si distingueva per alcune innovative soluzioni, come la torretta completamente girevole presente anche sul carro francese Renault FT, armata di cannone ed il vano motore separato dal vano equipaggio.

La guerra poi finì e poco dopo, il 1º dicembre 1920, Giovanni Agnelli acquistò dal senatore Alfredo Frassati una quota azionaria del 20% del quotidiano torinese La Stampa, con un diritto di prelazione sulla rimanente parte del capitale, il che gli consentì dall’ottobre 1926 di controllare finanziariamente la testata.

In quegli anni viene fondato il famoso stabilimento del “Lingotto” dove venne impiantata la prima catena di montaggio italiana, ispirata alla Ford che l’imprenditore aveva visitato in quegli anni negli Stati Uniti.

Nel 1923 la FIAT era un produttore internazionale di automobili e Giovanni Agnelli divenne senatore del Regno, egli vide inoltre un grande futuro nello sci, sport allora nato da poco.

Fra il 1928 e il 1931 acquistò alcuni terreni al colle del Sestriere, in alta Val Chisone, dove costruì la seconda stazione sciistica italiana dopo Bardonecchia che era stata aperta nel 1908.

Il successo negli affari di Agnelli venne funestato dalla morte dei figli, Aniceta ed Edoardo, rimasto vittima di un incidente aereo all’idroscalo di Genova.

Gli anni successivi, fino allo scoppio della seconda guerra mondiale, registrarono un nuovo notevole sviluppo dell’impero FIAT: venne prodotta la prima Cinquecento, nota tra i consumatori e appassionati di automobilismo come Topolino: l’auto riscosse un ottimo successo internazionale.

Negli anni quaranta Giovanni Agnelli, ormai settantenne, scelse il nipote Gianni, figlio di Edoardo, come suo successore alla guida delle aziende.

Il 23 marzo 1945 Agnelli venne accusato dalla Commissione del CLN per le epurazioni di compromissione con il regime fascista e privato temporaneamente della proprietà delle sue imprese; informato in via ufficiosa della sentenza di assoluzione, morì a Torino il 16 dicembre 1945.

Ma questa, è un’altra storia.

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Marr e Duncan – Jakie e Rin Tin Tin

S:2 – Ep.38

Marr e Duncan sono due persone qualunque.

Albert Marr è sudafricano, Lee Duncan è statunitense e sono due soldati che saranno impiegati nella prima guerra mondiale, rispettivamente nei propri eserciti di appartenenza.

Nel primo caso siamo a Potchefstroom, nella provincia nord-occidentale del Sudafrica, è un tiepido giorno di fine agosto del 1915 ed è da poco scoppiata la Grande Guerra e siamo in piena campagna di reclutamento.

In fila tra gli altri uomini che vanno ad arruolarsi c’è un ragazzo di 25 anni, si chiama Albert Marr ed è qui per entrare nella brigata di fanteria, sembra uno come tanti, una persona qualunque ed in effetti lo è, ma quando si presenta ai suoi superiori non è da solo, il giovane Albert Marr ha una scimmia in braccio.

La scena è bizzarra, ma non così tanto come può sembrare a noi, da quelle parti succede spesso che i babbuini vengano presi in casa dalle famiglie come veri e propri animali domestici.

Quello di Albert di chiama Jackie e da qualche anno vive con lui a Pretoria, in una casa con un terreno che è quasi una fattoria, si tratta di un babbuino chacma, un animale molto diffuso in gran parte del continente africano.

Fin qui niente di molto strano, quindi: Albert ha portato al reclutamento il suo animale domestico e, nell’ingenuità del giovane alla sua prima esperienza militare, chiede ai superiori se può portare Jackie con sé al fronte.

Lo strano comincia adesso, un po’ alla volta, perché Albert ottiene il permesso, ma non solo, l’esercito non si limita a consentire che la scimmia lo segua, forse pensando che l’animale possa tenere alto il morale dei soldati, l’esercito sudafricano concede a Jackie, la scimmia, anche una divisa.

È una divisa speciale, chiaramente, fatta su misura, ma completa di berretto e distintivi del reggimento, per cui è una divisa vera, anzi, per fare in modo che Jackie possa restare al fronte senza difficoltà burocratiche e organizzative, gli ufficiali decidono che la scimmia sarà anche a libro paga e avrà le sue razioni standard.

Jackie ottiene quindi un normale numero di matricola e così la scimmia diventa a tutti gli effetti un membro dell’esercito sudafricano.

In un primo momento gli altri soldati del reggimento osservano la cosa con scarso interesse, c’è da capirli, sono appena partiti per la Grande Guerra, hanno ben altro a cui pensare, ma poi, man mano che passano i giorni, Jackie conquista la simpatia di tutti fino a che diventa la mascotte ufficiale del 3° Reggimento Transvaal.

Anche perché, va detto, Jackie è un ottimo soldato, a tavola mangia con coltello e forchetta, non sporca, non infastidisce nessuno, obbedisce agli ordini, non si lamenta e non scappa.

Quando vede un ufficiale si mette sull’attenti ed esegue un saluto perfetto, in trincea allunga sigarette a chi le vuole e, se serve, gliele accende pure, fiuta il nemico a distanza e lo sente arrivare con il suo udito sviluppato e dopo un po’, non si può più fare a meno di lui, e non può farne a meno soprattutto Albert Marr.

Durante la campagna dei Senussi, in Egitto, il 26 febbraio 1916 Albert viene ferito a una spalla da un proiettile nemico e Jackie rimane accanto a lui a leccargli la ferita e confortarlo fino all’arrivo dei barellieri, senza la scimmia, dirà dopo, probabilmente non sarebbe riuscito a cavarsela e invece si riprende del tutto e torna al fronte nel giro di pochi mesi.

Jackie è sempre al suo fianco, con lui passa tre anni in prima linea tra le trincee della Francia, delle Fiandre e in Africa ma poi, nell’aprile del 1918, per Albert e Jackie le cose si mettono male.

Si trovano a Passchendale, in Belgio, quando il loro reggimento finisce all’improvviso in mezzo ai bombardamenti, sotto il fuoco pesante del nemico, la situazione degenera in pochi minuti e il reggimento si trova in serio pericolo, tra esplosioni, polvere e paura.

I soldati, intrappolati nella foschia, saltano in aria a gruppi, Albert si butta a terra e urla a Jackie di mettersi al coperto, ma la scimmia non lo ascolta, corre, come impazzita, avanti e indietro.

Sulle prime, Albert non capisce cosa Jackie stia facendo, pensa che il babbuino sia nel panico, terrorizzato, ma dopo pochi secondi gli risulta chiarissimo: Jackie sta raccogliendo sassi, più in fretta che può.

Mentre intorno si succedono boati spaventosi, la scimmia ammassa pietre intorno ad Albert steso a terra, nel tentativo disperato di costruire una piccola barriera che lo protegga dal fuoco nemico, ha appena cominciato a farlo, quando una bomba esplode lì vicino.

Jackie viene travolto da una pioggia di schegge, Albert lo vede volare via, schizzare letteralmente per aria e rotolare sul campo di battaglia fino a sparire inghiottito dalla polvere, l’esplosione travolge anche Albert, lo assorda e lo tramortisce.

Quando arrivano i soccorsi, trovano Albert a terra ancora privo di sensi, mentre Jackie non si era fermato, continuava ostinato ad ammassare pietre trascinando la zampa destra, quasi del tutto maciullata.

Entrambi vengono immediatamente trasportati in un ospedale da campo, dove la zampa di Jackie viene amputata dal chirurgo militare Woodsend e mentre è ancora semi-cosciente con le bende a fasciargli il moncherino, la scimmia viene promossa caporale.

Gli ufficiali, stringendogli la zampa, gli conferiscono anche la medaglia al valor militare, pochi giorno dopo, Jackie e Albert rientrano in Sudafrica, congedati con onore e lasciano ufficialmente l’esercito sulla fine di aprile del 1918.

Nello stesso periodo un cane venne trovato da un soldato statunitense, Lee Duncan, in un canile bombardato in Lorena, per l’appunto poco prima della fine della prima guerra mondiale.

Secondo le stime, oltre 1.200.000 cavalli e 50.000 cani furono uccisi sul fronte occidentale durante la prima guerra mondiale, ma non Rinty.

Era l’unico esemplare sopravvissuto insieme alla sorella (chiamata poi Nanette) di una cucciolata, tornato Duncan a Los Angeles con i due cani, Nanette venne adottata da dei suoi conoscenti, mentre Rinty (ribattezzato poi “Rin Tin Tin”) venne addestrato dallo stesso Lee a saltare ed esibirsi in diversi giochi e fu casualmente notato dal produttore cinematografico Darryl F. Zanuck, che lo fece divenire un attore in diversi film, a partire dal 1923 con Where The North Begins, con Claire Adams, stella del cinema muto.

Grazie a lui diventò un celebre cane da pastore tedesco maschio protagonista di numerosi film realizzati negli Stati Uniti fra gli anni venti e trenta e dopo la sua morte, avvenuta nel 1932, il nome fu dato a diversi cani della stessa razza, impiegati in analoghe produzioni cinematografiche, radiofoniche e televisive.

L’immensa redditività dei suoi film ha contribuito al successo della casa di produzione Warner Bros.

I discendenti di Rin Tin Tin furono anch’essi addestrati da Duncan o dai suoi successori ed ebbero ruoli in produzioni televisive e cinematografiche, il primo di essi, Rin Tin Tin Jr., figlio del primo Rin Tin Tin, è apparso in alcuni serial cinematografici di scarso successo; Rin Tin Tin III, detto nipote di Rin Tin Tin, ma probabilmente solo imparentato, contribuì a promuovere l’uso militare dei cani durante la seconda guerra mondiale ed è anche apparso in un film con Robert Blake nel 1947.

Prima di lui c’è da dire che l’elevato numero di soldati accecati durante la grande guerra portò a rapidi progressi nell’addestramento e nell’uso dei cani guida, la Germania ha aperto la prima scuola di addestramento per cani guida nel 1917.

La prima guerra mondiale vide un uso intensivo di animali, su tutti i fronti e per gli scopi più diversi, dei “gatti di bordo” abbiamo già trattato in un altro episodio del nostro podcast, ma oltre i felini anche i cani venivano largamente utilizzati, per esempio, come cani da trasporto e cani soccorritori in forza alla Croce Rossa.

Uno dei centri di addestramento predisposti per questi cani, in Italia, si trovava a Bologna presso il complesso militare dei Prati di Caprara, qui i cani venivano addestrati a trainare prima carretti, poi slitte.

Al termine del corso venivano inviati in alta montagna per completare il tirocinio, quindi assegnati ai corpi alpini, la prima idea per un simile utilizzo sembra sia da attribuire al Maggiore cesenate Carlo Mazzoli, pluridecorato, amatissimo dai suoi uomini, noto come “il Garibaldi della Val Dogna”, curioso personaggio che portava i capelli lunghi e si permetteva comportamenti decisamente al di fuori delle rigide regole militari di quel tempo.

Mazzoli si muoveva sempre circondato da un branco di cani, anche nei momenti del combattimento, fu assegnato alla zona dell’Adamello, per i trasporti addestrò prima una speciale “squadra” di asini per il traino di slitte adibite al trasporto di viveri e munizioni quindi, alla luce degli scarsi risultati, i suoi cani.

Da questa idea rivelatasi vincente venne creato il centro di addestramento di Bologna.

Ma dall’altra parte del mondo, a Città del Capo nel 1918, quando scende dalla camionetta la scimmia Jackie, indossa sulla zampa anteriore una striscia d’oro e tre galloni blu, che indicano gli anni di servizio in prima linea, e viene applaudita da una folla di soldati.

Nei mesi seguenti, Jekie e Marr partirono per l’Inghilterra, dove Jackie diventò una celebrità e partecipò a diversi eventi della Croce Rossa per raccogliere fondi destinati ai soldati feriti.

Sarà solo dopo questo tour, che Albert e la sua scimmia torneranno finalmente alla loro fattoria di Pretoria, dove il caporale Jackie, babbuino nero e medaglia d’oro al valor militare, morirà da reduce il 22 maggio 1921.

Nella “grande guerra” furono mobilitati almeno 16 milioni di animali, tra cui 11 milioni di cavalli, 200 mila piccioni e colombi viaggiatori e poi muli, asini, buoi, maiali e oltre 100 mila cani.

La Francia ne ebbe in servizio 15.000 (erano solo 26 all’inizio della guerra), la Germania ben 30 mila (erano 6 mila nel 1915) – di cui solo il 10% fece ritorno a casa –, mentre l’Italia impiegò al fronte circa 3.500 cani.

Numeri drammatici, ma forse addirittura lontani dalla realtà, se, come qualcuno ricorda, la sola Russia utilizzò 50 mila cani: è così che il numero stimato dei cani morti sui tanti campi di battaglia potrebbe essere di poco inferiore al milione di esemplari.

Ma questa, è un’altra storia.

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Sigmund Freud – Il padre della psicoanalisi

S:2 – Ep.37

Sigmund Freud è una persona qualunque.

Sigismund Schlomo Freud nacque a Freiberg, nella regione austriaca della Moravia nel 1856, secondo figlio di Jacob Freud e della sua terza moglie Amalia Nathanson proveniente da Leopoli.

Nel 1877, a 21 anni, Sigismund abbreviò il suo nome in Sigmund, con il quale sarà conosciuto poi da tutti. Il giovane Sigmund non ricevette dal padre un’educazione tradizionalista, eppure già in giovanissima età si appassionò alla cultura e alle scritture ebraiche, in particolare allo studio della Bibbia.

Questi interessi lasciarono notevoli tracce nella sua opera, anche se Freud divenne presto ateo e avversò tutte le religioni, come lui stesso ben esplica nel suo L’avvenire di un’illusione.

Nella Vienna di quel periodo erano presenti forti componenti antisemite e ciò costituì per lui un ostacolo, che non riuscì però a limitare la sua libertà di pensiero, dalla madre e dal padre ricevette i primi rudimenti, poi fu iscritto ad una scuola privata e dall’età di nove anni frequentò con grande profitto per otto anni l’Istituto Superiore “Sperl Gimnasyum”.

Sino alla maturità, conseguita a diciassette anni, dimostrò grandi capacità intellettuali tanto da ricevere una menzione d’onore e nel 1873 si iscrisse alla facoltà di medicina dell’Università di Vienna, rettore Karl von Rokitansky.

Durante il corso di laurea maturò una crescente avversione per gli insegnanti che considerava non all’altezza; offeso per essere discriminato in quanto ebreo, sviluppò un senso critico che, di fatto, ritardò l’ottenimento della sua laurea in Medicina e Chirurgia.

Successivamente lavorò nel laboratorio di zoologia diretto da Ernst Wilhelm von Brücke e prese contatto con il darwinismo ma il lavoro di ricerca non lo soddisfaceva e dopo due anni cambiò lavoro e conobbe Brücke, nell’Istituto di fisiologia, dove condusse importanti ricerche nel campo della neuro-istologia degli animali e dove dimostrò che gli elementi cellulari del sistema nervoso degli invertebrati sono morfologicamente identici a quelli dei vertebrati.

Freud lasciò l’istituto dopo sei anni di permanenza anche se le ricerche effettuate gli assicuravano una carriera nel settore, era animato da grande ambizione e valutava troppo lenti i successi conseguibili in quel campo.

L’aspirazione all’indipendenza economica lo spinse a dedicarsi alla pratica clinica, lavorando per tre anni presso l’Ospedale Generale di Vienna con pazienti affetti da turbe neurologiche.

Questa disciplina, molto più remunerativa, gli avrebbe permesso di sposare Martha Bernays, parente del celebre spin doctor Edward Bernays con il quale Sigmund Freud ebbe una cospicua corrispondenza epistolare, fu mentre lavorava in questo ospedale, nel 1884, che Freud cominciò gli studi sulla cocaina, sostanza allora sconosciuta ai più.

Scoperto che la cocaina era utilizzata dai nativi americani come analgesico, la sperimentò su se stesso osservandone gli effetti stimolanti e privi, a suo dire, di effetti collaterali rilevanti.

La utilizzò in alternativa alla morfina per curare un suo caro amico divenuto morfinomane in seguito ad una lunga terapia del dolore, ma la conseguente instaurazione della dipendenza da essa, più pericolosa della morfina, fece scoppiare un caso che costituì una macchia nella sua carriera.

Il caso, che ebbe numerosi episodi paranoidei, nonché allucinazioni e deliri, spinsero il medico a pubblicare il saggio: “Osservazioni sulla dipendenza e paura da cocaina” e dopo la pubblicazione smise di farne uso e di prescriverla.

Nel 1885 ottenne la libera docenza e ciò gli assicurò facilitazioni nell’esercizio della professione medica, la notorietà e la stima dei colleghi gli permisero una facile carriera accademica, sino ad ottenere la cattedra di professore ordinario.

Nel biennio 1885-1886 iniziò gli studi sull’isteria e con una borsa di studio si recò a Parigi, dove era attivo Jean-Martin Charcot, questi, sia per i suoi metodi che per la sua forte personalità, suscitò notevole impressione sul giovane Freud.

Le modalità di cura dell’isteria attraverso l’ipnosi, insegnatagli da Charcot, furono applicate da Freud dopo il rientro a Vienna, ma i risultati furono deludenti, tanto da attirarsi le critiche di numerosi colleghi, nel frattempo il matrimonio con Martha Bernays era stato più volte rimandato a causa di difficoltà che apparivano a Freud insuperabili e quando, il 13 maggio 1886, riuscì a sposarsi, visse l’avvenimento come una grossa conquista.

L’8 dicembre 1887 fu iniziato nel B’nai B’rith di Vienna (un anno dopo la sua fondazione) con una conferenza sui sogni che anticipava di due anni l’uscita dell’Interpretazione dei sogni, fu accolta con entusiasmo e rimase legata alla loggia per tutto il resto della sua vita.

Lo stesso anno nacque la prima figlia, Mathilde, seguita da altri cinque figli, di cui l’ultima, Anna, diventò un’importante psicoanalista.

Nel 1886 iniziò l’attività privata aprendo uno studio a Vienna; utilizzò le tecniche allora in uso, quali le cure termali, l’elettroterapia, l’idroterapia e, tecnica in uso dal 1700 ritenuta in grado di agire sul sistema nervoso, ma priva di risultati apprezzabili, la magnetoterapia.

Utilizzò allora la tecnica dell’ipnosi e, per migliorare la stessa, compì un altro viaggio in Francia, a Nancy, ma non ottenne i risultati che si aspettava.

Freud era professore di neuropatologia, e le teorie sulla psicoanalisi avevano poca eco e considerazione nella scuola di medicina dell’epoca, una chiave di volta nel processo evolutivo delle teorie di Freud fu l’incontro con Josef Breuer – importante fisiologo che poi, in diverse circostanze, sostenne Freud anche finanziariamente – intorno al caso di Anna O..

Breuer curava l’isteria della paziente attraverso l’ipnosi nel tentativo di guarirla da sintomi invalidanti tra i quali un’idrofobia psicogena, nacquero così le prime intuizioni sui ricordi traumatici.

Generalmente si usa datare la nascita della psicoanalisi con la prima interpretazione di un sogno scritta da Freud, un suo sogno della notte tra il 23 e il 24 luglio 1895, riportato anche ne L’interpretazione dei sogni come “il sogno dell’iniezione di Irma”.

La sua interpretazione rappresentò l’inizio dello sviluppo della teoria freudiana sul sogno, l’analisi dei sogni segna l’abbandono del metodo ipnotico utilizzato in quella fase del suo sviluppo, che a ragione si può definire l’inizio della psicoanalisi.

Sebbene oggi la paternità del metodo psicoanalitico sia attribuita a Freud, egli, nella prima conferenza a Boston, riconobbe che l’eventuale merito non sarebbe spettato a lui, bensì al dottor Joseph Breuer, il cui lavoro è antecedente agli studi di Freud e ne costituisce il punto di partenza.

La voce più autorevole che si assume il compito di riflettere sul rapporto tra la civiltà occidentale e la guerra è proprio quella di Sigmund Freud, anche il padre della psicoanalisi non era rimasto immune dal turbine di patriottismo che aveva attraversato l’Europa in quel periodo.

Ma un solo anno di guerra gli era stato sufficiente per rielaborare una lettura più distaccata degli avvenimenti in un brevissimo scritto, intitolato Caducità (del 1915), nel quale egli coglie tutta la complessità e la drammaticità del problema.

Per Freud la guerra fa cadere definitivamente l’illusione che il processo di civilizzazione si sia sedimentato nell’animo e nel comportamento degli uomini: al contrario, è sufficiente che lo stato consenta e obblighi i cittadini all’uso legittimo della violenza affinché riemergano le più violente pulsioni aggressive.

Freud affida le proprie riflessioni sulla guerra a un saggio del 1915, Considerazioni sulla guerra e sulla morte, nel quale approfondisce il rapporto tra l’attività pulsionale e l’aggressività.

Quando nel 1933 Hitler prese il potere in Germania, le origini ebraiche di Freud costituirono un problema, nello stesso anno, il suo nome entrò nella lista di autori le cui opere dovevano essere distrutte.

La situazione diventò seria a partire dal 1938, anno in cui l’Austria venne annessa al Terzo Reich, la figlia Anna fu arrestata brevemente dalla Gestapo; i nazisti cominciarono a vessare Freud, che spesso dette loro somme di denaro per cacciarli da casa propria dove di frequente facevano irruzione, all’inizio si accontentavano di questo, ma presto la situazione divenne insostenibile.

Freud, privato intanto della cittadinanza austriaca e divenuto apolide, in pessime condizioni di salute, si preparò a lasciare Vienna pochi giorni dopo, accompagnato da Martha e da Anna che nel frattempo era stata rilasciata, partì per Londra dove avrà lo status di rifugiato politico.

Freud si era ammalato di carcinoma della bocca già negli ultimi anni viennesi, con il quale convisse per 16 anni e nonostante varie cure e ben 32 operazioni, alla fine dovette subire l’invasiva asportazione della mandibola, che lo costringerà a lavorare quasi esclusivamente in silenzio, effettuando sedute ascoltando solamente i pazienti e all’inserimento di una protesi.

Il 21 settembre 1939, Freud, consumato fra atroci sofferenze, sul letto di morte mormorò al dottor Max Schur, proprio medico di fiducia: «Ora non è più che tortura e non ha senso, ne parli con Anna, e se lei pensa che sia giusto, facciamola finita».

Freud si affidò al sentimento della figlia e il medico aumentò gradualmente la dose di oppiacei, morì due giorni dopo, senza risvegliarsi dal sonno tranquillo che la morfina gli aveva provocato, la stessa morfina che aveva combattuto ma che abbracciò sul letto di morte, all’età di 83 anni.

Ma questa, è un’altra storia.

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