Antonio Cantore – Il numero primo

S:1 – Ep.4

Antonio Cantore è una persona qualunque.

La storia di quest’uomo è piena di un numero primo, fu il primo ufficiale italiano morto durante la prima guerra mondiale, fu il primo, a cui ancora oggi, non si riesce a sapere con certezza chi lo abbia veramente ucciso creando il vero primo giallo ancora irrisolto del Regio esercito italiano.

Antonio Tomaso Cantore nacque il 04 agosto a San Pier d’Arena nel 1860, figlio di Felice e Marianna Ferri.

Dopo gli studi compiuti presso un istituto tecnico, nel 1878 entrò nell’Accademia militare di Modena e una rapida carriera lo portò nel 1908 alla sua promozione a colonnello.

Pochi mesi dopo, però, dalla fanteria rientrò negli alpini, per assumere l’anno successivo il comando dell’8º alpini, di nuova formazione.

Il 28 settembre 1912 Antonio Cantore fu imbarcato per la Libia.

Al suo ritorno in Italia nel 1914 divenne maggiore e posto al comando della brigata Pinerolo, tuttavia, preferì cambiare il proprio incarico con quello di comandante della 3ª brigata Alpini, divenne infine generale della 2ª divisione di fanteria nel giugno 1915.

Cantore era un comandante spericolato e temerario, duro ed arrogante che non si limitava a dirigere le operazioni da lontano, ma faceva in modo di trovarsi sempre in prima linea.

Per questo, era molto apprezzato dai vertici e da alcuni subalterni, ma non certo amato dalla truppa che sottoponeva a continui pericoli ordinando assalti anche in condizioni impossibili.

Non a caso, le sue unità subivano sempre parecchie perdite, anche se questo passava in secondo piano nei bollettini ufficiali rispetto alla conquista delle posizioni che raggiungeva.

Cantore, allo scoppio della Grande Guerra, fu assegnato al fronte dolomitico, uno dei più insidiosi.

Qui, nella zona di Cortina d’Ampezzo, cominciarono subito dei furiosi scontri per ottenere il controllo delle Tofane, un gruppo montuoso che permetteva di dominare l’intera valle sottostante e in particolare del Castelletto, ancora in mano austriaca.

Proprio nel Castelletto, gli austriaci si erano ben fortificati all’interno della roccia e la conquista appariva difficilissima.

Nel luglio del 1915, Cantore elaborò un piano per dare l’attacco a quella posizione apparentemente inespugnabile: un piano che prevedeva la risalita dei soldati italiani dalla quota 1300 in cui si trovavano alla quota 1800 in cui erano gli austriaci, costruendo trincee nella roccia, sotto il fuoco incessante delle mitragliatrici nemiche.

Anche nella migliore delle ipotesi, tale condotta avrebbe avuto un costo altissimo in termini di perdite ma Cantore, cui gli altri ufficiali lo fecero subito notare, se ne infischiava.

Quel piano, però, non fu mai attuato.

La sera del 20 luglio, dopo aver passato la giornata a ispezionare i reparti, Cantore si recò a compiere una ricognizione in prima linea e qui, mentre si sporgeva da un punto di osservazione tra le rocce si espose al fuoco.

Tiratori principianti” disse, riferito ai cecchini austriaci che lo mancarono al primo colpo esploso, ma furono le ultime sprezzanti parole attribuite al generale rivolte ad un soldato che lo invitava a ritirarsi in trincea prima di essere visto e abbattuto mentre guardava da un binocolo.

Ma chi uccise Cantore?

Esistono diverse teorie alternative al riguardo, poco verificabili perché tutte sotto forma di testimonianze riportate.

L’unica prova realmente esaminabile è il berretto che il generale portava nel momento in cui fu colpito, che ha un foro di proiettile sulla visiera.

Le dimensioni di questo foro hanno provocato una interminabile serie di discussioni tra gli esperti, perché secondo alcuni è troppo piccolo per corrispondere al calibro 8 e 7,92 mm dei proiettili in dotazione agli austriaci e tedeschi e secondo altri è troppo grande per corrispondere al calibro 6,5 mm dei proiettili in dotazione agli italiani.

Già, italiani, perché come abbiamo detto il generale Cantore non era sempre ben visto nemmeno dai suoi uomini.

Di certo c’è che il generale indossava una giubba da truppa, proprio per non essere riconosciuto come tale, gli ordini dietro le linee austroungariche erano quelle di abbattere tutti gli ufficiali italiani a tiro di fucile e il generale lo sapeva ma, fatalmente, dimenticò in testa il berretto da generale, simbolo distintivo del suo grado, quello bucato dal proiettile che lo uccise.

Una prima ipotesi sostiene che Cantore sia stato semplicemente vittima del “fuoco amico”: spintosi troppo in avanti e poco visibile nella luce crepuscolare, sarebbe stato scambiato per un nemico da un alpino che gli avrebbe sparato per errore, colpendolo perfettamente in mezzo alla fronte.

Ma gli alpini sapevano che il loro generale era in zona per dei sopralluoghi, e soprattutto erano posizionati alle sue spalle, se così fosse, fu errore o un modo per evitare una imminente missione suicida?

Voci maligne diffusero perfino notizie dove gli alpini, dopo la scomparsa del loro generale, festeggiarono per 7 giorni di fila, ma se così fosse stato, perché poi Gunther Langes, che nel suo “La guerra tra rocce e ghiacci” scrive:

L’eroico Cantore cade di palla in fronte il 20 luglio mentre esamina a breve distanza le posizioni nemiche della forcella: alpini e fanti in bella fraternità di spiriti ed armi lo vendicano pochi giorni dopo, conquistando la sera del 2 agosto, dopo due giorni di lotta accanita, la difficile posizione, saldamente tenuta dai cacciatori prussiani.

Sembra davvero poco plausibile che i soldati che lo vendicarono con tanto ardimento fossero reduci dai “festeggiamenti” per la sua morte, durati addirittura una settimana.

Nessun alpino di ieri e di oggi festeggerebbe la morte di un “fratello”, nemmeno se esso fosse di alto grado e in disaccordo con tutti, alpini una volta alpini sempre, parola d’alpino.

Secondo un’altra ipotesi, a uccidere Cantore sarebbe stato un civile, un cacciatore di Cortina d’Ampezzo o peggio ancora, il capo dei vigili urbani della zona, questo perché il generale voleva evacuare la città di Cortina per installarvi il suo quartier generale.

Ciò avrebbe comportato l’inserimento della località negli obiettivi da bombardare e conquistare da parte degli austriaci e la distruzione di tutte le sue strutture turistiche, allora già ben note, che tenevano in piedi l’economia dell’area.

Per evitarlo, i civili, o quelli che all’ora si chiamavano ancora vigili urbani, avrebbe deciso di uccidere il generale.

Non possiamo nemmeno ignorare il sentimento d’appartenenza austriaca della Cortina di quei tempi da sempre albergato oltre Dogana Vecchia.

Ma un cacciatore o il capo dei vigili urbani si sarebbero arrampicati in quella zona sotto il tiro dei cecchini austroungarici per fare ciò che lo stesso cecchino avrebbe potuto fare dalla sua posizione?

Fatto rimane che il foro del proiettile, oggi, è troppo piccolo per essere austroungarico e troppo grande per essere italiano, anche civile o dei vigili urbani.

Ma la fisica balistica ci insegna che un foro fatto nel cuoio tende a slabbrarsi e restringersi con il tempo, quindi, fisicamente dobbiamo escludere gli alpini che usavano un M91 da 6.5 mm dell’esercito o un vigile urbano armato a quei tempi di un Mauser Swedish mod. 1896 con cartuccia sempre da 6,5mm e senza cannocchiale oltretutto.

Una terza ipotesi è quella per cui Cantore, nel pomeriggio del 20 luglio, avrebbe ordinato ad alcuni ufficiali di prepararsi a partire all’alba del giorno seguente per una vera e propria missione kamikaze ai piedi del Castelletto, cosa che il generale non era nuovo ad organizzare e che, davanti alle loro resistenze, li abbia minacciati di deferimento alla Corte Marziale.

Le sue escandescenze avrebbero fatto perdere la pazienza a uno degli ufficiali, che avrebbe estratto la pistola e gli avrebbe sparato.

Si, ma con cosa?

Le pistole in dotazione agli ufficiali in quel determinato periodo storico erano la rivoltella Bodeo mod. 1874, calibro 10,35 e la più moderna pistola automatica Glisenti mod. 1910, calibro 9; se a sparare fosse stata una di queste armi il diametro del foro sarebbe stato ancor maggiore di quello del fucile austriaco, calibro 8 o 7.92 del mauser tedesco che, come detto, foro troppo piccolo addirittura per loro.

Tenendo conto altresì che l’ufficiale lo avrebbe fatto davanti alla truppa e agli altri ufficiali presenti, il rischio di una carenza di omertà lo avrebbe conferito immediatamente alla corte marziale.

Ma i dubbi sono nati anche dal fatto che, se fosse stato veramente un cecchino austriaco ad uccidere il generale, per colpire con una precisione sconcertante un bersaglio mobile alla distanza di poco meno di 200 metri, dall’alto verso il basso, dunque prevedendo il calo del proiettile, il cecchino dev’essere stato un tiratore formidabile, non certo quello che lo mancò al primo colpo, tanto più che stiamo parlando di un proiettile di vecchia concezione, cilindrico, pesante e tozzo, con traiettoria poco tesa, derivato dal vecchio calibro 8 a polvere nera”.

Dalla parte austroungarica ci furono 5 rivendicazioni per quel colpo, una delle quali porta il nome di Enrico Berlanda, ai tempi austroungarico insignito dell’aquila d’argento alle gare di tiro militare a Vienna, ma si sa, a quei tempi, potersi vantare di aver ucciso un ufficiale nemico, a volte, era semplice propaganda.

La verità è praticamente impossibile da accertare, anche riesumando il cadavere, si potrebbe definire il calibro ma non la mano che esplose il colpo uccidendolo.

Pur senza volere contribuire al “mito” di Cantore, figura che, come uomo e comandante presenta indubbiamente luci ed ombre, possiamo quindi rendere pienamente agli Alpini l’onore che meritano, ma questa, è un’altra storia.

Un foro troppo piccolo per essere quello di fucile di un cecchino austriaco o di una pistola da ufficiale italiano, un foro troppo grande per essere quello di un alpino, di un civile o di un vigile urbano, ma allora chi uccise Cantore?

Senza sempre non voler contribuire al mito di Cantore, figura che, come uomo e comandante presenta indubbiamente luci ed ombre, possiamo quindi rendere agli alpini l’onore che meritano.

Ma questa è un’altra storia.

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Andrea Giuliani – Un padre ardito

S:1 – Ep.3

Andrea Giuliani è una persona qualunque.

Nasce a Torino il 28 agosto 1887 da una modesta famiglia.

Frequenta le scuole elementari cristiane e il ginnasio presso i salesiani di Valdocco.

Da giovane abbraccia subito la vita religiosa entrando nell’Ordine Domenicano nel 1904 e assumendo il nome di fra Reginaldo.

Laureatosi in teologia nel 1912, dopo averne fatto anche l’insegnante, nel 1915, quando l’Italia entra ufficialmente nella grande guerra, padre Reginaldo viene assegnato al convento domenicano di Trino Vercellese, dove per due anni è un attivo predicatore antisocialista, nazionalista e interventista.

L’anno successivo, nel 1916, Giuliani è nominato tenente cappellano e assegnato al 55º Reggimento fanteria “Marche”, con cui prende parte alle battaglie dell’Isonzo.

Non è proprio il tipo di sacerdote che accorre tra le lettighe in retrovia, anzi, segue le ondate all’assalto, rincuorando e sostenendo i combattenti sotto al fuoco nemico in prima linea facendogli guadagnare, sempre quell’anno, una medaglia di bronzo al valor militare.

Già nei primi giorni al fronte, il cappellano si rifiutò di rimanere in infermeria come lo stretto dovere gli avrebbe imposto, preferendo esporsi tra lo scoppio continuo degli schrapnels e il fruscio delle loro palle, per portare conforto ai combattenti.

Lo schrapnels è un micidiale proiettile d’artiglieria che veniva usato contro i velivoli nemici e, ancor più potente, contro gli assalti al suolo.

Programmato per scoppiare a tempo, esplodeva ad una determinata altezza cospargendo a raggiera le migliaia di palle di piombo al suo interno, difficile o quasi impossibile evitarle.

La situazione era resa drammatica, per padre Reginaldo, che doveva coprire sul Carso pericolose camminate, chilometri di trincee insicure e i nemici a distanza ravvicinata, ovviamente disarmato come il suo religioso ruolo gli imponeva.

Lui stesso scrisse: “visto nei giorni trascorsi sul Carso, ove prendemmo parte all’ultima grande azione. Io sono rimasto per otto giorni in prima linea ed anche oltre, mentre i miei battaglioni si avvicendarono a dare il loro inefficace, ma pure enorme, tributo: vi lasciammo più di due terzi dei nostri uomini. Mi hanno assicurato i più provetti della guerra, che il bombardamento cui soggiacemmo non fu mai sentito così intenso e frequente“.

Nella prima metà dell’anno successivo, nel 1917, la guerra ha una sorta di stallo tra le unità di fanteria italiane e quelle austroungariche, c’è bisogno di una scossa, un riassetto, c’è bisogno di reparti speciali che andranno in quelle missioni che gli altri hanno paura di fare.

Nascono gli “arditi”, un corpo eletto dell’esercito italiano ad adesione volontaria e padre Reginaldo non se lo fa ripetere due volte diventandone il cappellano nella 3° armata.

Operativamente, gli Arditi agivano in piccole unità d’assalto, i cui membri erano dotati di petardi “Thévenot”, granate e pugnali, ed erano distribuiti in “coppie tattiche” di soldati per favorirne la flessibilità di manovra.

Le trincee venivano tenute occupate fino all’arrivo della fanteria.

Il tasso di perdite era estremamente elevato.

Gli arditi erano anche preceduti dalla loro fama, la prima sperimentazione di questi reparti d’assalto avevano una storia fatta di furti, rapimenti e violenze, famosa era l’arte di dare alle fiamme i paesi in cui facevano incursione per evitare di venire inseguiti dai nemici.

Questa fama non piaceva a Padre Reginaldo che, vivendoci assieme, scopre giovani cristiani credenti, fisicamente dotati, pronti a combattere per la propria patria pur sapendo che ogni battaglia iniziata era, probabilmente per la maggior parte di loro, l’ultima vissuta.

Nel maggio del 1917 padre Reginaldo, trovandosi sul Tonale e avendo saputo che il nemico nottetempo aveva apportato un colpo di mano su un italico posto avanzato a quota 2013, primo fra tutto il personale del comando, raggiunse la trincea isolata da solo mentre altri avevano dovuto indietreggiare.

Attraversò in pieno giorno i due chilometri circa di terreno perfettamente scoperto e soggetto al tiro delle mitragliatrici nemiche che intercedevano fra la linea principale e quel posto, raggiungendo quella ridotta ove organizzò il servizio di primo soccorso e lo sgombro dei feriti.

Nel settembre dello stesso anno, avuta notizia della formazione dei nuovi reparti d’assalto, porse insistente e ripetuta domanda di esservi assegnato.

Per breve tempo fu integrato al 29° Reparto in Val Lagarina.

Con questo battaglione prese parte ad una arditissima azione presso Sano di Castione, con una pattuglia di arditi che catturò un intero piccolo posto nemico che gli portò l’encomio comunicatogli dal Capitano Gambara.

Nell’ultima battaglia di Vittorio Veneto, per ben due volte, in due diversi battaglioni, prima coll’11° Corpo d’armata il 25 ottobre, presso l’isola Caserta, attraversò il Piave, ritornò poi in solitaria raggiungendo di isolotto in isolotto la sponda sotto il dominio italiano e la riattraversò col 28° Corpo d’armata il 30 ottobre.

Padre Giuliani traghettò il Piave colla prima barca che si staccava dalle trincee per approdare alla riva nemica, entrambe le volte.

In ciascuno di questi battaglioni fu proposto per la medaglia d’argento.

Quella dell’11° Reparto fu ridotta a medaglia di bronzo conferita perché “Circondato da una trentina di nemici mentre curava un loro ferito, seppe convincerli ad abbandonare le armi e ad arrendersi alle truppe italiane oramai in piena vittoria“.

Al 28° Reparto ebbe la medaglia d’argento con tale motivazione: “Giunto al reparto immediatamente dopo aver partecipato ad un’azione su di un altro tratto del fronte, prendeva parte con inesauribile lena ad un nuovo combattimento, incorando ed incitando le truppe nei più gravi momenti“.

Nelle soste della lotta, il domenicano, anziché concedersi riposo, pietosamente si dava alla ricerca dei feriti e prestava loro amorevolmente assistenza e conforto.

In una critica circostanza, essendo un ragguardevole tratto del fronte rimasto privo di ufficiali a causa delle gravi perdite, volontariamente ne assumeva il comando, disimpegnando le relative mansioni con vigorosa energia e mirabile arditezza.

Due medaglie di bronzo e una d’argento non fermano Padre Reginaldo nemmeno alla fine della prima guerra mondiale.

Sopravvenuto l’armistizio e sciolti i reparti d’assalto, il tenente cappellano Reginaldo Giuliani fu assunto dall’Ufficio propaganda della Terza Armata e continuò variamente la sua attività.

Membro dell’Ufficio di riordinamento delle tombe e salme carsiche e passato nel luglio alle dipendenze dell’Ottava Armata, Giuliani trascorse tra un impegno e l’altro l’estate del 1919, al termine della quale venne congedato dal Regio Esercito.

A quel punto prende parte all’occupazione di Fiume insieme agli squadristi cattolici delle Fiamme Bianche.

Nonostante la stima di Gabriele D’Annunzio, che lo vorrebbe con sé, Giuliani è richiamato dai superiori domenicani.

Pare che alla curia, il comportamento del religioso nell’impresa fiumana stesse sfuggendo di mano, durante la cerimonia della controversia benedizione del pugnale, le donne fiumane offrirono al Comandante un pugnale d’oro e d’argento, in segno di riconoscenza.

Il Vate aveva pronunziato seduta stante un discorso destinato a suscitare scalpore in Italia: la celebrazione in un tempio cattolico del «sacramento del ferro». «Un uomo di preghiera e di battaglia l’ha benedetto. L’ha benedetto un sacerdote armato» suonò infatti sacrilega alle orecchie di alcuni e fornì a quanti non appoggiavano l’impresa fiumana un ottimo argomento polemico.

Richiamato per questo prima a Trino Vercellese, dove tutto era partito, e poi al convento di San Domenico a Torino, dove continua la predicazione partecipando attivamente a numerose cerimonie nazional-patriottiche, Giuliani scrive libri sul conflitto mondiale appena concluso ove riporta l’onore degli arditi, abbraccia il fascismo e ne diventa il cappellano delle “camice nere” nel 1924.

Dal 1928 al 1930 Padre Reginaldo è il predicatore nel nord e sud America e, tornato in Italia, pubblica altri 3 libri, sempre centrati sul cattolicesimo e sulla patria.

A seguito della conciliazione tra Santa Sede e Italia fascista nel 1929, l’appoggio di Giuliani al regime diviene entusiastico.

La vita sedentaria del semplice predicatore a Padre Reginaldo va stretta, gli mancano le imprese sul Carso, sul Piave, a Fiume, gli mancano gli amici arditi così, all’età di 48 anni si arruola volontario nella guerra in Etiopia, partendo nell’aprile 1935 quale centurione cappellano del Primo Gruppo Battaglioni Camicie Nere .

Le sue corrispondenze private e per il quotidiano torinese «La Gazzetta del Popolo» mostrano la cieca fiducia di Giuliani nel Duce e nella guerra coloniale, unita alla volontà di martirio in nome della religione e della patria.

A fine gennaio 1936, infuria l’aspra battaglia del Tembien.

A Mai Beles Padre Reginaldo continua nel pietoso ufficio di confortare e assistere i feriti e i moribondi.

Dopo tre giorni di combattimenti, completamente prive di rifornimenti e, soprattutto, di acqua, le forze italiane riuscirono a respingere le forze etiopiche, soverchianti come numero.

La battaglia di Passo Uarieu fu il tentativo più deciso dell’Etiopia di separare le due armate italiane operanti nel Tembién.

Mentre si avvicina a un giovane soldato italiano, gravemente ferito e morente per amministragli gli ultimi Sacramenti, già ferito a sua volta da armi da fuoco, il 21 gennaio 1936 Padre Reginaldo Giuliani viene trucidato dalla scimitarra di un abissino pur mostrando lui la sua condizione di uomo ferito, di uomo disarmato e issando il crocefisso che lo identificava come uomo di chiesa.

Cadde stringendo lo stesso Crocifisso stretto tra le mani, dopo aver detto: “Io non lascio i miei, muoio qui in mezzo a loro”.

Quest’ultimo gesto eroico gli varrà una medaglia d’oro al valor militare.

Sconfitte le truppe etiopi nella prima battaglia del Tembien, i suoi resti furono inumati al cimitero militare di Passo Uarieu.

Ma questa, è un’altra storia.

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Rossetti e Paolucci – I due Raffaele

S:1 – Ep.2

Raffaele Paolucci e Raffaele Rossetti sono due persone qualunque.

Questi due uomini, che inizialmente condividono solamente il nome di battesimo, finiranno per raccontare la stessa storia, una storia di onore, sacrificio e coraggio che pochi altri potranno vantare.

Raffaele Paolucci nasce a Roma il 1° giugno 1892, ha radici importanti, il papà Nicola è un ufficiale della Regia Marina e il nonno materno diventerà il presidente di sezione della Corte di cassazione e lui è già conte di Valmaggiore.

Raffaele Rossetti nasce a Genova il 12 luglio 1881, ha natali più comuni, è figlio di Vincenzo e Rosa Bocciardo, due persone qualunque.

Paolucci nel 1910 si iscrisse alla Facoltà di medicina dell’Università di Napoli, interrompendo la frequenza per svolgere il servizio militare come volontario nella 10ª Compagnia di sanità militare del Regio Esercito; si congedò poi il 30 novembre 1914 quando l’aria di guerra riempiva già il cielo europeo.

Rossetti ottenne la laurea in Ingegneria industriale alla Regia Scuola di Applicazione per gli Ingegneri ed entrato come allievo all’Accademia Navale di Livorno.

Nel 1906 conseguì un’altra laurea, in Ingegneria Navale e Meccanica e venne destinato presso la Direzione delle Costruzioni Navali dell’Arsenale militare marittimo di Taranto.

Con il grado di capitano si imbarcò sulla nave da battaglia Regina Elena; sull’incrociatore corazzato Pisa e successivamente sulla nave officina Vulcano.

Poi…, nel 1915, l’Italia entrò in guerra. In quel periodo storico, quando l’aviazione non esisteva ancora, la flotta navale era l’arma più efficace, oltre alle armate di terra, per violare i confini.

Ma come potrà un conflitto mondiale unire le storie di un nobile medico con radici abruzzesi e un ingegnere navale ligure?

Fu proprio quel contesto a far incontrare i due Raffaele.

Allo scoppio delle ostilità, Paolucci venne richiamato in servizio e destinato sul Carso, presso un lazzeretto per colerosi.

Tornato a Napoli dopo la morte del padre, fu trattenuto in servizio e destinato all’ospedale Vittorio Emanuele 2° laureandosi in medicina a pieni voti e con lode.

Fu promosso tenente medico di complemento e inviato al fronte nell’8º Reggimento bersaglieri nella Val Marzon e da qui a “Cima Undici” presso la 11ª Compagnia.

Come usava a quei tempi, soprattutto per chi aveva nobili natali, Paolucci fu trasferito sotto sua richiesta nella Regia Marina nel 1916, aveva avuto un padre ammiraglio, inizialmente all’ospedale militare marittimo di Piedigrotta per qualche mese per poi essere trasferito nuovamente come medico al Forte San Felice di Chioggia .

L’esperienza di guerra vissuta sulla prima linea l’aveva segnato e a Chioggia non si sentiva utile, anzi, definendosi in quel momento un “imboscato“, dietro sua insistenza, venne imbarcato nel 1917 sull’Emanuele Filiberto dove prese servizio in qualità di secondo medico di bordo.

Rossetti, all’inizio del conflitto e fino a maggio dello stesso 1917, prestò servizio presso l’Ufficio Tecnico della Regia Marina di Genova per venire poi destinato alla Direzione delle Costruzioni Navali dell’Arsenale della Spezia dove conseguì la promozione a Maggiore del Genio Navale.

Un tenente medico, un maggiore del genio navale, due percorsi di studio diversi, due approcci alla battaglia diversi, Paolucci come medico in prima linea per sua scelta, Rossetti rinchiuso a progettare in un ufficio prototipi ma entrambi con un unico scopo, aiutare la propria patria a vincere facendo terminare quella dannata guerra.

Rossetti si era già da tempo dedicato con intelligenza e costanza alla creazione ed al perfezionamento di una speciale torpedine, una sorta di siluro con scoppio regolato a tempo da applicarsi alla chiglia della nave nemica mediante l’azione di un nuotatore.

Questo ordigno, chiamato anche “mignatta“, è un prototipo ma è già stato fabbricato in gran segreto nell’arsenale della Spezia.

E’ un apparecchio pilotato motorizzato e dotato di due dispositivi sganciabili da fissare per mezzo di un elettromagnete.

Doveva essere usato contro le navi austroungariche e lo sarebbe stato usato da due provetti nuotatori nonché avvezzi al suo utilizzo.

Fin dall’inizio della prima guerra mondiale, la munitissima base austriaca di Pola era uno dei principali obiettivi della Marina italiana, a maggior ragione quando divenne chiaro che la scelta tattica della marina austro-ungarica era quella di opporre al nemico una flotta di dissuasione, perennemente alla fonda nel porto e non impegnata in battaglie in mare aperto.

Diverse volte nel corso del conflitto si era tentato quindi, ma invano, di forzare il porto e affondare qualche unità là dove le navi erano ritenute dagli austriaci maggiormente al sicuro.

La difficoltà di una tale impresa derivava innanzitutto dalla costante sorveglianza del porto e dai vari sbarramenti che ne impedivano l’avvicinamento.

L’unico modo per penetrarlo era per mezzo di piccole unità d’assalto.

La mignatta doveva essere trasportata da un mezzo veloce, onde evitare di essere avvistati al largo nel corso dell’appressamento al “covo” nemico, il mezzo idoneo al suo trasporto era certamente un Mas, un motoscafo silurante fiore all’occhiello della Regia Marina Italiana e il Capitano di Vascello Costanzo Ciano, supervisore e comandante supremo dei MAS, non aveva dubbi su chi affidare la missione, ad un nuotatore medico che preferiva la prima linea piuttosto che imboscarsi in un sicuro ospedale e al creatore della mignatta stessa, chi meglio di lui avrebbe saputo usarla.

I due Raffaele, Rossetti e Paolucci, si conobbero e iniziarono un duro allenamento fisico, si prevedeva una permanenza in acqua di almeno una dozzina di ore, tra le correnti del mare e la gelida temperatura slava novembrina del 1918.

La sera del 31 ottobre Raffaele Rossetti e Raffaele Paolucci avevano già lasciato Venezia a bordo di due MAS scortati da due torpediniere.

Giunte nelle acque istriane a poche miglia dall’imbocco del porto di Pola, le torpediniere si ritirarono e un MAS rimorchiò la “mignatta” fino ad alcune centinaia di metri dalla diga del porto.

Alle ore 22:18 i due ufficiali italiani puntarono verso il bersaglio attaccati alla mignatta, mentre il MAS si allontanò.

L’avvicinamento all’obiettivo fu complesso e rischioso: Rossetti e Paolucci dovettero trascinare il prototipo a motore spento oltre le reti di sbarramento esterno ed eludere l’intensa vigilanza austriaca.

Passati inosservati alle sentinelle sulla diga, alle imbarcazioni di ronda e a un sommergibile nella rada, i due guastatori giunsero verso le 3:00 di notte in prossimità delle navi ancorate ma solamente alle 4:45 del 1º novembre 1918, dopo più di sei ore in acqua, i due ardimentosi riuscirono infine a posizionarsi a poche decine di metri dallo scafo della Viribus Unitis.

La SMS Viribus Unitis era una corazzata della imperiale e regia Marina austro-ungarica, nonché nave ammiraglia e fiore all’occhiello della flotta.

Affondare lei era come affondare simbolicamente tutta la flotta austriaca, voleva dire: vedete, se siamo arrivati a lei possiamo arrivare a qualsiasi altra vostra nave.

Rossetti si staccò e si avvicinò alla chiglia della corazzata con uno dei due ordigni, mentre il compagno rimase ad attenderlo alla mignatta che risultava poco governabile a causa della corrente.

Alle 5:30 l’esplosivo da 200 kg fu finalmente assicurato alla carena dell’obiettivo e programmato per esplodere un’ora più tardi, ma quando Rossetti ritornò da Paolucci i due vennero illuminati dalla luce di un proiettore e subito scoperti.

Prima della cattura, Paolucci riuscì tuttavia ad attivare la seconda carica di esplosivo, mentre Rossetti affondò la mignatta, che ingovernata andò ad arenarsi nei pressi del piroscafo Wien, ormeggiato a poca distanza, facendolo a sua volta esplodere ed affondare.

Nonostante la deflagrazione e la confusione creata, mentre la Wien si inabissava, i due furono catturati e portati a bordo della stessa Viribus Unitis, la nave poco prima minata ma solo in quel momento appresero che nella notte l’alto comando austriaco aveva ceduto la flotta di Pola agli jugoslavi e che la nave non batteva più bandiera austriaca.

La guerra stava finendo e per gli austroungarici si metteva male, così per non cedere la flotta ai nemici, proprio quella notte, l’avevano data agli amici jugoslavi.

Il tempo scorreva inesorabile e i due Raffaele erano sulla nave che presto sarebbe stata affondata da 200 kg. di esplosivo, ma non avrebbero affondato la nave ammiraglia austroungarica ma una nave qualsiasi slava, che fare?

Alle 6:00 presero una decisione, avvertirono il capitano Vuković che la corazzata poteva esplodere da un momento all’altro, e prontamente questi ordinò a tutti di abbandonare immediatamente la nave, aveva appena visto la Wien colare a picco e non voleva correre rischi, trasferì anche i prigionieri a bordo della nave gemella Tegetthoff.

L’esplosione non avvenne e l’equipaggio fece gradualmente ritorno a bordo, non dando più credito all’avvertimento dei due italiani, si temeva che fosse un mezzo subdolo per creare confusione, o peggio, di guadagnare tempo per l’arrivo di un imminente attacco italiano.

Ma quando la nave incominciò a muoversi, alle 6:44, la carica brillò davvero e la corazzata austriaca, inclinatasi immediatamente su un lato imbarcando acqua dalla voragine aperta, cominciò rapidamente ad affondare.

Fuoco a bordo, la nave piegata su un lato, i marinai morti e feriti che si gettavano in acqua come e dove potevano, la confusione totale che avvolgeva in quel momento la Viribus Unitis si concluse con oltre 300 tra vittime e dispersi, tra cui lo stesso comandante Vuković, colpito mortalmente dalla caduta di un albero mentre a nuoto cercava di porsi in salvo.

Rossetti e Paolucci riuscirono anche loro a tuffarsi in acqua, pur stanchi ma allenati riuscirono a sopravvivere all’affondamento della corazzata durato meno di 15 minuti, un tempo brevissimo per una nave di 150 metri con oltre di 1000 uomini a bordo, furono comunque catturati e imprigionati.

Attesero rinchiusi alcuni giorni fino a quando Pola non fu liberata dalle truppe italiane vittoriose, non erano più da considerarsi prigionieri perché nel frattempo la prima guerra mondiale era finita.

Ma questa è un’altra storia.

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Luisa Zeni – Una creatura ammirevole

S:1 – Ep.1

Luisa Zeni è una donna qualunque.

Quella di Luisa Zeni è una storia che forse non tutti conoscono, ma che fa parte della nostra memoria storica trentina e di quella di Arco, la città dove nacque nel 1896, al tempo sotto dominio asburgico.

Luisa Zeni proveniva da una famiglia qualunque, il padre faceva il fabbro, la madre morì quando lei era ancora piccola, aveva 3 anni, e dovette imparare fin da subito a contare sulle proprie forze e su quelle dal padre e del nonno garibaldino

Visse nei primi anni del Novecento nel clima di crescente tensione fra italiani e tedeschi all’interno dell’Impero austro-ungarico, Luisa era di sentimenti irredentisti, forse grazie anche al trascorso militare del nonno, e viveva in un Trentino lacerato fra la secolare fedeltà agli Asburgo ed il richiamo nazionalistico dell’Italia,

Nel volume che pubblicherà poi nel 1926, Briciole, ricordi di una donna in guerra, si racconta l’aneddoto di come rispose al suo ispettore scolastico Prospero Marchetti, fratello di Tullio Marchetti, personaggio fondamentale del servizio informazioni italiani.

Quando Prospero le chiese: «Che faresti se l’Italia movesse in guerra contro l’Austria?»
«Andrei sul Brione a gettar giù sassi»
«Ma contro chi?» «Contro i tedeschi, così gli italiani avanzerebbero».

Luisa Zeni era una donna qualunque, di bassa statura, fisico minuto e di certo non era una di quelle donne che attirava l’attenzione su di sé per la sua bellezza, occhi piccoli e scuri, capelli scuri, dentatura leggermente pronunciata.

Luisa passò il confine nel 1914, appena ebbe compiuto i 18 anni, e si unì al gruppo di irredentisti trentini che, poco prima dello scoppiare della prima guerra mondiale, si diressero a Milano per evitare di entrare in guerra con l’esercito austriaco, in fin dei conti volevano essere italiani, non volevano combatterli.

Tale gruppo, condotto da Cesare Battisti, va a formare il Comitato fra irredenti adriatici e trentini con sede in via Silvio Pellico, 14.

Alla vigilia dell’entrata in guerra, il Comando della 1ª Armata, schierata sul fronte trentino, svolge un’azione di reclutamento per trovare dei trentini disposti, una volta passato nuovamente il confine, a compiere un’azione informativa atta a conoscere i movimenti nemici da Ala fino al Brennero.

Luisa, reclutata nel 1915 all’età di 19 anni dall’allora capo del Servizio Ufficio Informazioni, il colonnello Tullio Marchetti, si offre volontaria per compiere tale pericolosa impresa, «unica persona, fra le molte interpellate di ambo i sessi, che accettò senza titubanza il pericoloso incarico».

Il 22 maggio 1915, due giorni prima della dichiarazione ufficiale di guerra da parte dell’Italia, Luisa Zeni da Milano va a Verona, da qua passa il confine entrando in territorio austriaco nella zona di Ossenigo a Peri.

Con sé aveva soltanto dell’inchiostro simpatico, qualche soldo necessario per vivere, alcuni contatti utili, tra cui il barone Silvio a Prato, un agente italiano in Svizzera a cui avrebbe dovuto indirizzare la sua corrispondenza, e dei documenti falsi per convalidare il suo alias, il suo alter ego austriaco: Josephine Müller.

Intercettata e fermata due volte da pattuglie austriache, Luisa ebbe subito la prontezza, quella prontezza che la salverà in altre occasioni, di pronunciare il suo falso nome e raccontare di essere un’austriaca che vuole ricongiungersi alla sua patria.

Si presenta come Josephine Muller, dichiara di essere fuggita dall’Italia per rientrare in Austria e accompagnata ad Ala viene perquisita.

Temeva che venisse scoperto che era una spia: tra le animelle dei bottoni teneva infatti nascosti gli indirizzi e i contatti degli svizzeri ai quali avrebbe dovuto trasmettere le informazioni mentre nella borsetta aveva l’inchiostro simpatico e il reagente.

Tutto andò liscio, i documenti falsi ressero all’esame e venne fatta proseguire rilasciandogli un foglietto per prendere quella sera stessa insieme ad altri evacuati il treno per Innsbruck.

Il 24 maggio, all’età di vent’anni, raggiunse finalmente Innsbruck in treno e scese all’Union Hotel, luogo pericoloso, ma anche miniera di informazioni frequentato com’è dagli ufficiali dei comandi stanziati in città.

Si era insinuata nel nido del nemico ed ora poteva iniziare il suo lavoro.

Conoscendo perfettamente tanto il tedesco che il territorio trentino, nel corso delle settimane seguenti la Zeni svolge a Innsbruck una preziosa opera informativa, con grande cautela ascoltava tutto ciò che poteva esserle utile, raccoglieva informazioni che appuntava su foglietti di carta che nascondeva con cura all’interno dei bottoni degli abiti.

Le sue relazioni precise e dettagliate venivano inviate in Svizzera, al barone a Prato, che notò quanto fosse efficiente quella giovane agente trentina, la persona adatta per quella missione.

A volte Luisa si spingeva fino alla frontiera, in Pusteria; nei suoi giri attraversava ponti, posti di controllo, depositi e caserme, dove si accattivava le simpatie dei soldati portando loro tabacco e cioccolata in regalo.

Dopo qualche tempo, per non farsi scoprire abbandonò l’Hotel andando a stare in una casa privata, e iniziò a frequentare un gruppo di Trentini innamorati dell’Italia, mantenendo sempre il suo segreto.

Ma i sospetti iniziarono a circolare e le pattuglie austriache cominciarono le perquisizioni, irrompendo anche nelle case private.

Una sera piombarono anche nella casa dove si trovavano Luisa e gli amici trentini. Terrorizzati, riuscirono a nascondersi dove capitava, ma qualcuno venne ammanettato e portato via.

Di loro la ragazza non seppe più nulla.

Dato che le perquisizioni diventavano sempre più frequenti, nella sua stanzetta Luisa si era ingegnata per nascondere i suoi “corpi del reato”, le boccette d’inchiostro chimico e il reagente.

Dietro l’armadio, con un trapano e uno scalpello aveva forato il pavimento di legno, ricavando uno spazio dove aveva nascosto le boccette.

Se fossero state trovate sarebbe stata condannata a morte.

Tenendosi informata sulla sorte dei suoi compatrioti, con il cuore in gola, la ragazza andava avanti nel suo gioco pericoloso, fino a che, alla fine di luglio, non venne smascherata dalla polizia nemica e dall’Evidenzbüro, il servizio di intelligence militare austroungarico. Una mattina quattordici uomini armati si presentarono a casa sua per condurla alla Kloster Kaserme.

Conservando il suo sangue freddo e un atteggiamento di sfida Luisa li seguì.

Fu gettata in una stanza, nuda, al buio.

Nonostante temesse per la sua sorte, si sentiva orgogliosa di aver servito la sua patria, che ora invocava in quella cella umida.

Quando la presero per interrogarla sulla sua identità sfoderò la scusa che si era preparata.

Disse di servirsi del nome tedesco per non rischiare di essere maltrattata, come capitava a chi portava un nome che suonava italiano.

Raccontò poi la verità sulla sua famiglia: il padre prestava servizio come soldato in Panarotta, suo fratello in Galizia, mentre lo zio sacerdote era al fronte nel Regio Esercito come cappellano militare; il resto dei parenti confinato in Moravia, ma lei non li avrebbe raggiunti.

Anche questa volta la giovane trentina dallo spirito acuto se la cavò, ma non poteva uscire fuori dai confini della città e l’avrebbero tenuta sotto stretta sorveglianza.

La piccola spia di Arco rimase in Austria per tre mesi, quando dalle perquisizioni si era passati agli arresti di massa: i Verräter, i traditori, gli irredenti, venivano catturati e giustiziati.

Il 7 agosto 1915 infatti i poliziotti tornarono a cercarla.

La padrona di casa avvisò la ragazza che erano passati e sarebbero tornati a prenderla.

Non c’era tempo da perdere, l’avrebbero uccisa.

Luisa doveva fuggire, lasciare Innsbruck e l’Austria.

Era notte.

La giovane donna si travestì da uomo, aiutata dalla stessa padrona di casa che gli tagliò i capelli e gli donò un costume tirolese.

A piedi raggiunse la piccola stazione di Hall, appena fuori città e salì su un treno diretto a Feldkirch, in territorio neutrale, per cambiare successivamente e dirigersi in Svizzera.

La corsa arrivò a destinazione, Luisa doveva ora superare i controlli.

C’erano gendarmi dappertutto.

Tenuta sotto sguardo da due di loro che sorvegliavano i binari, si fece strada tra i rimpatriandi italiani in coda e presentò un inservibile foglio di legittimazione, che le era stato rilasciato al Municipio di Innsbruck, ma venne respinto.

Fingendo che fosse tutto in regola, la ragazza si mosse, foglio alla mano bene in vista, verso la stazione, passando tra i gendarmi che non le chiesero nulla.

Esausta, impaurita e preoccupata attese con ansia il treno per la Svizzera.

Era fatta.

Dichiarandosi al servizio della Prima Armata riuscì a raggirare anche i controlli a Zurigo ed arrivò finalmente in Italia per raggiungere il colonnello alpino Tullio Marchetti che andò ad accoglierla a Milano il 15 agosto per sentire direttamente da lei le ultime notizie.

Il giorno seguente Luisa Zeni cessò di essere alle sue dipendenze.

Successivamente, frequentò nell’inverno di quello stesso 1915, la scuola per infermiere della Croce Rossa Italiana, venendo assegnata a diversi ospedali dove prestò servizio fino alla fine della guerra quando, in ricompensa del servizio reso al Paese le venne concessa la medaglia d’argento al valor militare, caso più unico che raro per una donna.

«… è certo che essa, conscia dei pericoli sui quali andava incontro, diede prova di grande ardimento, arrischiando la vita, soprattutto nella sua qualità di trentina, e ciò per puro amore di patria e non per denaro, avendo essa compiuto fino al limite del possibile il suo servizio con il minimo di spesa e senza guadagno di sorta, né diretto né indiretto…. Il suo agire arditissimo e nobile ebbe ed ha un valore maggiore che se fosse stato compiuto da un uomo, dato che nessun uomo si è sentito di fare quanto la Zeni ha fatto. »

Nel 1918 la guerra terminò ma Luisa non si fermò, nel 1920 partecipò all’impresa di Fiume dove si adopera come crocerossina, ciò che aveva studiato e fatto terminando il suo lavoro da spia.

Questa volta si guadagna l’ammirazione dello stesso Gabriele D’Annunzio che parla di lei come “creatura ammirabile”.

Della Zeni, poi, non si seppe granché, forse perché aderì successivamente al fascismo, si sposò, ebbe una vita qualunque come ci si aspetta da una donna qualunque di quei tempi.

Morì a Roma nel 1940. Altre donne seguiranno il suo esempio negli anni, nella buona e nell’avversa fortuna, soprattutto nella Seconda Guerra Mondiale.

Ma questa è un’altra storia.

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