S:1 – Ep.25
Vasilij Ivanovič Komarov è una persona qualunque.
Il terzo episodio dedicato agli omicidi seriali della prima guerra mondiale lascia l’Europa del francese Landru e dell’ungherese Kiss per entrare in quello che si chiamava ai tempi Impero Russo e che oggi è la Bielorussia.
Komarov nacque come Vasilij Terent’evič Petrov nel 1877 o 1878 (o nel 1871 secondo la sua testimonianza) a Vicebsk, una città a 500 kilometri a ovest di Mosca.
Nacque da un’umile famiglia di classe operaia e aveva cinque fratelli.
I suoi genitori erano entrambi affetti da alcolismo; Komarov all’età di 15 anni diventò anch’egli un alcolista cronico ed uno dei fratelli andò in carcere perché uccise una persona proprio mentre era ubriaco.
Da giovane si arruolò nell’esercito russo e vi militò per 4 anni.
A 28 anni si sposò per la prima volta e durante la guerra tra la Russia e il Giappone, nel 1904 e 1905, Komarov viaggiò nell’Estremo Oriente e mise da parte molti soldi, ma li sperperò tutti quasi interamente durante quel viaggio.
A 30 anni rapinò un magazzino: arrestato, rimase in carcere per un anno per sentenza del tribunale ma mentre era in carcere la moglie morì di colera.
Scarcerato, si trasferì a Riga dove sposò una vedova polacca di nome Sofia, che aveva due figli.
Komarov era un personaggio violento, picchiava spesso lei e i figli a causa del suo alcolismo.
Nel 1915, quando la prima guerra mondiale era iniziata da un anno e le truppe tedesche già erano arrivate nel Mar Baltico, si trasferì nuovamente nella regione del Volga.
Dopo la Rivoluzione d’ottobre del 1917 Komarov entrò nell’Armata Rossa e lì imparò a leggere.
Fece carriera militare e diventò un comandante di plotone; in almeno un’occasione prese il comando di un plotone di fucilazione per prigionieri nemici.
Nel 1919, durante una battaglia, fu catturato dai volontari dell’esercito del generale Anton Ivanovič Denikin, ma riuscì a fuggire.
Per evitare un processo del tribunale militare rivoluzionario e una sicura condanna a morte, cambiò nome in Vasilij Ivanovič Komarov e nel 1920, dopo la guerra civile, Komarov si trasferì al numero 26 del distretto di Šabolovki vicino al centro di Mosca.
Lì affittò un cavallo e una carrozza e diventò un tassista ma non si limitava a quel singolo lavoro, compì anche diversi furti facendo sparire la merce rubata vendendola al mercato.
Fino a qui abbiamo raccontato la storia di un ex militare, ma non ex alcolista, un violento proveniente da una famiglia difficile e cresciuto con semplici leggi di sopravvivenza, non certo per discolparlo ma bisogna sottolineare che il periodo storico in cui visse era difficile e caratterizzato da forti crisi, povertà, crimine, primo dopoguerra e persecuzioni politiche.
Komarov era una bomba pronta ad esplodere con attacchi d’ira difficilmente controllabili e, inevitabilmente, venne il giorno dell’esplosione.
Il primo delitto non era stato progettato.
Aveva invitato a casa sua un contadino che aveva intenzione di comperare un cavallo con del grano.
Komarov gli offrì da bere e lo fece involontariamente ubriacare.
Quando seppe che voleva comprarsi un cavallo per rivenderlo, pensò che fosse uno speculatore e gli venne un attacco d’ira: andò in giardino, prese un martello e gli spaccò il cranio, il corpo lo nascose in una casa diroccata nei pressi ed il tutto durò circa mezz’ora.
Quella tremenda esperienza non lo turbò, anzi, gli piacque talmente tanto che da quel momento in poi pensò di continuare ad uccidere; nel 1922 smise di nascondere i cadaveri in case abbandonate o in alcune buche e sfruttò la sua professione di tassista per scaricarli in giro.
Il suo modus operandi, identico per tutti gli omicidi, era il seguente: Komarov attirava a sé la vittima con la scusa di fargli visitare la sua scuderia di cavalli; arrivata al suo allevamento, la faceva ubriacare solitamente con vodka e la strangolava con una corda; altre volte la massacrava a martellate.
Qua, il calcolatore, aveva adottato la tecnica di far colare il sangue dal cranio spaccato in un sacco o in una ciotola; questo metodo iniziò ad utilizzarlo dopo che i vestiti della prima vittima si erano macchiati.
Generalmente tutte le vittime erano di sesso maschile.
I cadaveri venivano poi legati, infilati in sacchi di tela e occultati tra i rifiuti nel quartiere di Šabolovki o buttati nel fiume Moscova o sotterrati o nascosti in alcune case diroccate.
Infine si metteva a pregare tutta la notte; ironicamente casa sua si trovava vicino ad una chiesa, la moglie Sofia gli fece da complice nell’occultamento dei corpi: nell’inverno del 1922 scoprì i delitti del marito, ma alla fine ne rimase coinvolta perché il movente degli omicidi era fondamentalmente economico: Komarov infatti derubava le sue vittime, otteneva circa 80 centesimi a cadavere; in totale con 33 omicidi fece soltanto 26 dollari e 40 centesimi.
Gli omicidi partirono dal febbraio 1921, anno in cui si scoprì anche il primo cadavere, solamente quell’anno Komarov compì almeno 17 omicidi; dal 1922 alla metà del 1923 ne compì almeno altri 12.
Questa enorme catena di uccisioni, che terrorizzò la Russia degli anni ’20 e durò circa 2 anni, gli valse il soprannome di “Lupo di Mosca”.
Komarov era conosciuto dai vicini come un individuo cordiale, socievole e sempre sorridente che gestiva la sua semplice famiglia con il commercio di cavalli ma i suoi vicini sapevano anche che, dietro al suo sorriso, si nascondeva «una brutta vena violenta»: infatti una volta tentò di uccidere il figlio di 8 anni, che si salvò solamente grazie all’intervento della madre Sofia.
La polizia si sensibilizzò sul caso all’inizio del 1923, a seguito dell’ennesimo ritrovamento, scoprì che tutte le vittime sparivano con regolarità ogni mercoledì e venerdì nella zona del mercato, luogo dove Komarov usava abbordarli.
La polizia continuò le indagini e lui si insospettì, aveva appreso, forse tramite dei testimoni preoccupati, che le persone che andavano a vedere i suoi cavalli non tornavano più indietro e casualmente sparivano sempre di mercoledì e venerdì pomeriggio, primo indizio.
I corpi venivano trovati sempre di giovedì e sabato, il giorno dopo la visita alla scuderia, inoltre Komarov abitava nel distretto di Šabolovki, dove avvenivano le sparizioni e i ritrovamenti: scattò la prima ipotesi che il killer fosse proprio lui, secondo indizio.
I corpi venivano poi ritrovati in vari luoghi: quindi scattò un’altra ipotesi, e cioè che il killer fosse uno dei tanti tassisti di Mosca, una volta poi, sulla testa di un cadavere fu ritrovato un pannolino fresco, che forse serviva ad assorbire il sangue: quindi scattò la terza ipotesi che avesse avuto un figlio da poco, come aveva avuto Komarov.
E se è vero che, come si dice, tre indizi fanno una prova, per coincidenza, Komarov possedeva tutte queste caratteristiche: forse avevano trovato la pista giusta.
Poco tempo dopo, il 17 marzo, gli agenti andarono in casa sua con la finta accusa di contrabbando di liquore per sottoporlo ad un interrogatorio e durante la successiva inevitabile perquisizione di una stalla trovarono un cadavere avvolto in un sacco nascosto sotto al fieno.
Komarov, vistosi scoperto e preso dal panico, saltò da una finestra e scappò, sebbene l’edificio fosse circondato dalle forze dell’ordine così, durante il perdurare dei controlli di casa sua, fu trovato nell’armadio un corpo ancora caldo con la testa sfracellata.
Eluse gli agenti per un po’ di tempo, ma ormai le autorità erano sulle sue tracce e l’avevano identificato, fu arrestato un giorno dopo la fuga a Nikol’skij, villaggio a pochi chilometri da Mosca, placidamente Komarov in carcere confessò con indifferenza e a tratti felicità 33 omicidi, la polizia ne aveva già scoperti 21, a cui lo collegò e altri 12 cadaveri vennero trovati il giorno successivo nel fiume Moscova e nelle discariche.
Venne così il giorno del processo, che vide coinvolta anche la moglie.
Komarov provò a suicidarsi in cella per tre volte in attesa dell’udienza, senza mai riuscirci.
Chiese alle autorità un processo veloce e confidò nell’inevitabile pena morte, i tre psichiatri che lo esaminarono lo descrissero come un cinico insensibile che non provava rimorso per ciò che aveva fatto, anzi, si era dichiarato pronto ad uccidere altre 60 persone.
Disse di avere compiuto i delitti per motivi economici e che la sua psiche era degenerata a causa dei frequenti abusi di alcol; aggiunse poi che le vittime erano degli «odiosi e avidi speculatori che meritavano di morire al posto dei poveri soldati che combattevano durante la guerra», praticamente soffriva del complesso di Raskol’nikov.
Gli stessi psichiatri però sospettarono comunque che ci fosse qualcos’altro a spingerlo ad uccidere e conclusero le loro perizie allo stesso modo, per i professionisti l’imputato era sano di mente.
Fu processato a Mosca il 6 o 7 giugno 1923, davanti a una folla di giornalisti e curiosi, visto che il caso creò molto scalpore, la polizia fece molta fatica a trattenere la folla inferocita; Komarov commentò il fatto dicendo che il comportamento degli indignati lo faceva vomitare.
Quando gli venne chiesto perché avesse ucciso, lui strinse le spalle e disse «A causa del denaro».
All’alba dell’8 giugno venne dichiarato colpevole di 33 omicidi; sua moglie Sofia fu accusata di complicità e vennero entrambi condannati a morte tramite fucilazione con i figli mandati agli orfanotrofi; il figlio nato nel 1922 aveva appena un anno.
Komarov durante la sua permanenza in cella concesse molte interviste ai giornalisti, in cui disse che «aveva 52 anni e aveva trascorso una buona vita, e che non voleva vivere più», se fosse stato vero, allora sarebbe nato nel 1871, dichiarò anche che «uccidere era un lavoro terribilmente facile» e che «dopo la sua condanna a morte, sarebbe stato il suo turno di essere messo dentro a un sacco».
Qualche giorno prima tentò di fare un ricorso alla condanna che fu prontamente, e ovviamente, respinto.
Sofia e Vasilij Komarov furono fucilati da un plotone d’esecuzione a Mosca il 18 giugno 1923.
Alcuni ricercatori hanno poi ipotizzato che uno dei tre figli di Komarov, si schierò con i tedeschi durante la seconda guerra mondiale e si dedicò allo sterminio di soldati russi, partigiani e civili.
Tuttavia le prove di questa affermazione non sono mai state trovate.
Ma questa, è un’altra storia.
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